DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Ma il sale della terra sta ai piedi della Croce. DI PIERO CODA

C he l’interpretazione dell’evento di Gesù Cri­sto nella fede dei suoi discepoli e nella storia del mondo sia in essenza un fatto escatolo­gico, è insieme decisivo e urgente rimetterlo oggi sul tappeto. È una di quelle questioni su cui si giocano il presente e l’avvenire della fede. A suo modo, già lo diceva agl’inizi degli anni ’90 del secolo scorso Jo­seph Ratzinger, presentando l’edizione italiana del suo San Bonaventura. La teologia della storia. Il fat­to è che se si disinnesca l’intrinseca tensione esca­tologica che lo innerva, il fatto cristiano non solo al­lenta rovinosamente la grazia di cui vive, ma in de­finitiva si snatura e diventa come il sale che ha per­so sapore e che «a null’altro serve che ad essere get­tato via e calpestato dalla gente» ( Mt 5 ,13 ).

L’evento di Gesù il Cristo altro non è se non l’irru­zione di ciò – di Chi – è l’ultimo nel penultimo de­scritto dalle opere e dai giorni dell’uomo. Dacché il Figlio di Dio s’è fatto carne - e cioè 'fratello', come scriveva Frère Christian del monastero di Notre Da­me de l’Atlas, in Algeria - il tempo s’è fatto 'breve' (cfr.
1 or 7 ,29 ). Non perché la fine si sia avvicinata cronologicamente: ma perché ciò che è definitivo – per l’essere e per l’agire – è ormai accaduto al cuo­re del tempo. Per cui, certo, il tempo anela a con­sumarsi, ma proprio perché è ingravidato dalla pre­senza di ciò ch’è ultimo dentro ciò che è e resta pe­nultimo.

È questa la grazia inaudita ed è questa la formida­bile antinomia che definisce il fatto cristiano. Con pertinenza, dunque, Dietrich Bonhoeffer mette in guardia dalla falsa alternativa tra radicalismo e com­promesso, in quanto en­trambi finiscono per scio­gliere la tensione, di fatto se­parando le realtà ultime da quelle penultime. Bonhoef­fer non si limita però a sot­tolineare vigorosamente che l’identità – e perciò la missione – della Chiesa si giocano nel distendere il proprio dire e il proprio agi­re su quella stessa croce sul­la quella è stato disteso il Cristo, ma individua anche il perché e il come la Chiesa ha da vivere della vo­cazione che la fa tale: e cioè 'sale della terra' (cfr.

Mt
5 ,13 ) in virtù della natura escatologica che il tem­po, per essa, assume da Cristo nella storia del mon­do.

Mi riferisco al lucido saggio di Bonhoeffer che por­ta il titolo Atto ed essere (1930). In esso egli propo­ne una terza via tra l’attualismo radicale, per cui l’e­vento escatologico della rivelazione e della fede che gli corrisponde è soltanto tangenziale alla storia de­gli uomini in quanto interpellante unicamente l’in­dividuo, e l’istituzionalismo compromissorio, per cui l’evento della salvezza rischia di storicizzarsi del tutto perché dimentico della riserva escatologica che lo vincola alla grazia che scende irrevocabil­mente dall’alto. La via maestra e insieme 'stretta' della fede cristiana è piuttosto quello del «Cristo che vive come comunità»: quella cioè che guar­dando al Cristo «nella Parola e nel Sacramento» che le sono donati per pura grazia, «vede in un solo at­to il Crocifisso risorto nel prossimo e nella creazio­ne. Solo in questo modo si rivela il futuro che nella fede determina il presente».

Che non si tratti di astruserie teologiche, ma di qual­cosa che va dritto al cuore della coscienza e della testimonianza di fede lo dice il Vaticano II, là dove, ad esempio, insegna che «come Cristo ha compiu­to l’opera della redenzione nella povertà e nella per­secuzione, così pure la Chiesa è chiamata a segui­re la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza» (LG 8). La
forma Ecclesiae non può esser altra dalla forma Christi . Non è cosa di poco conto prenderne coscienza e trarne le conseguen­ze. La Chiesa istituzione trasmette efficacemente la Parola e il Sacramento se diventa per essi ciò che è: evento della comunità in cui ciò che è ultimo tra­spare e si offre, disarmato e irrevocabile, alla trama provvisoria del penultimo.


© Copyright Avvenire 12 maggio 2010