C he l’interpretazione dell’evento di Gesù Cristo nella fede dei suoi discepoli e nella storia del mondo sia in essenza un fatto escatologico, è insieme decisivo e urgente rimetterlo oggi sul tappeto. È una di quelle questioni su cui si giocano il presente e l’avvenire della fede. A suo modo, già lo diceva agl’inizi degli anni ’90 del secolo scorso Joseph Ratzinger, presentando l’edizione italiana del suo San Bonaventura. La teologia della storia. Il fatto è che se si disinnesca l’intrinseca tensione escatologica che lo innerva, il fatto cristiano non solo allenta rovinosamente la grazia di cui vive, ma in definitiva si snatura e diventa come il sale che ha perso sapore e che «a null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente» ( Mt 5 ,13 ).
L’evento di Gesù il Cristo altro non è se non l’irruzione di ciò – di Chi – è l’ultimo nel penultimo descritto dalle opere e dai giorni dell’uomo. Dacché il Figlio di Dio s’è fatto carne - e cioè 'fratello', come scriveva Frère Christian del monastero di Notre Dame de l’Atlas, in Algeria - il tempo s’è fatto 'breve' (cfr. 1 or 7 ,29 ). Non perché la fine si sia avvicinata cronologicamente: ma perché ciò che è definitivo – per l’essere e per l’agire – è ormai accaduto al cuore del tempo. Per cui, certo, il tempo anela a consumarsi, ma proprio perché è ingravidato dalla presenza di ciò ch’è ultimo dentro ciò che è e resta penultimo.
È questa la grazia inaudita ed è questa la formidabile antinomia che definisce il fatto cristiano. Con pertinenza, dunque, Dietrich Bonhoeffer mette in guardia dalla falsa alternativa tra radicalismo e compromesso, in quanto entrambi finiscono per sciogliere la tensione, di fatto separando le realtà ultime da quelle penultime. Bonhoeffer non si limita però a sottolineare vigorosamente che l’identità – e perciò la missione – della Chiesa si giocano nel distendere il proprio dire e il proprio agire su quella stessa croce sulla quella è stato disteso il Cristo, ma individua anche il perché e il come la Chiesa ha da vivere della vocazione che la fa tale: e cioè 'sale della terra' (cfr.
Mt 5 ,13 ) in virtù della natura escatologica che il tempo, per essa, assume da Cristo nella storia del mondo.
Mi riferisco al lucido saggio di Bonhoeffer che porta il titolo Atto ed essere (1930). In esso egli propone una terza via tra l’attualismo radicale, per cui l’evento escatologico della rivelazione e della fede che gli corrisponde è soltanto tangenziale alla storia degli uomini in quanto interpellante unicamente l’individuo, e l’istituzionalismo compromissorio, per cui l’evento della salvezza rischia di storicizzarsi del tutto perché dimentico della riserva escatologica che lo vincola alla grazia che scende irrevocabilmente dall’alto. La via maestra e insieme 'stretta' della fede cristiana è piuttosto quello del «Cristo che vive come comunità»: quella cioè che guardando al Cristo «nella Parola e nel Sacramento» che le sono donati per pura grazia, «vede in un solo atto il Crocifisso risorto nel prossimo e nella creazione. Solo in questo modo si rivela il futuro che nella fede determina il presente».
Che non si tratti di astruserie teologiche, ma di qualcosa che va dritto al cuore della coscienza e della testimonianza di fede lo dice il Vaticano II, là dove, ad esempio, insegna che «come Cristo ha compiuto l’opera della redenzione nella povertà e nella persecuzione, così pure la Chiesa è chiamata a seguire la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza» (LG 8). La forma Ecclesiae non può esser altra dalla forma Christi . Non è cosa di poco conto prenderne coscienza e trarne le conseguenze. La Chiesa istituzione trasmette efficacemente la Parola e il Sacramento se diventa per essi ciò che è: evento della comunità in cui ciò che è ultimo traspare e si offre, disarmato e irrevocabile, alla trama provvisoria del penultimo.
© Copyright Avvenire 12 maggio 2010