Benedetto XVI a Torino per l’ostensione della Sindone ha parlato di icona e non di reliquia. Nel celebre lenzuolo il Papa vede riflessa la vicenda di Cristo; anzi il telo permette di osservare, come specchiati, i nostri patimenti nelle sue sofferenze. Sono state così lasciate in un canto le diatribe sulla datazione. Inoltre, il richiamo a Maria, all’inizio del mese a lei dedicato, reca una riflessione di fede.
Fu proprio Maria, del resto, la prima a riconoscere con certezza, oltre ogni prova, nel volto umano di suo figlio quello di Dio. Viene ora da chiedersi se la distinzione avrà un seguito e se si scriveranno altri capitoli per questa storia millenaria. La «reliquia» (da reliquus, resto, residuo) è quel che rimane di un corpo umano o di parte di esso (in tal caso era detta ex ossibus). In senso lato, la tradizione cattolica così chiamò anche gli oggetti che furono a contatto di una persona, giacché avevano quasi assorbito le sue «preclare virtù». Vi è un’antica prassi, nata nelle catacombe, che faceva porre delle reliquie entro l’altare, nell’atto della sua dedicazione al culto. Successivamente esse diventeranno oggetto di abusi e commerci, tanto che il Concilio Lateranense del 1215 comminò gravi pene contro i trafficanti. Quasi superfluo aggiungere che prosperavano ovunque e a Roma si ricordava ancora un falsificatore, il diacono Deusdona (prima metà del IX secolo), che spediva corpi di gente comune sino in Germania, trafugando i cadaveri dai cimiteri dell’Urbe e spacciandoli per martiri. Finite in mille dispute e in altrettante opere letterarie, le reliquie si ritrovano in quasi tutte le religioni, come prova il culto tributato al pelo della barba di Maometto a Bijapur o il fatto che le ceneri del corpo del Buddha furono divise in otto parti e conservate in santuari.
È poi pratica antichissima. Diversamente non si spiegherebbe il perché gli egizi nel Serapeo di Alessandria meditassero sulla mummia del bue Api, considerata reliquia dell’Osiride ultramondano, né perché i greci conservassero la testa di Orfeo a Lesbo (in verità ce n’era una anche a Smirne, mentre la sua lira era ovunque), né perché i romani si recassero in pellegrinaggio alla tomba di Romolo nel Foro e venerassero i sandali e la conocchia di Tanaquilla (la moglie, secondo la tradizione, di re Tarquinio Prisco). E c’è dell’altro. Le reliquie laiche dei personaggi del nostro tempo, più o meno trasformati in miti, vengono disputate sulla rete. Si va dalla biancheria intima di Marylin Monroe al pettine di Elvis Presley, dalle magliette dei calciatori a qualcosa che non è il caso di segnalare. «Icona», invece, dal greco eikón, ci porta al significato di immagine, anche se la tradizione bizantina ne ha fatto qualcosa di più (e di meno di una reliquia). Nel libro dell’Esodo (20,4) si legge la proibizione: «Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra»; tuttavia qualche eccezione ci fu, come provano i cherubini dell’arca dell’alleanza (Esodo 25,18) o il serpente di bronzo (Numeri 21, 8-9). Di certo agli inizi del cristianesimo vi sono le molteplici pitture delle catacombe, le sculture dei sarcofagi; nel IV e V secolo l’uso si rileva ovunque, anche se, in un primo tempo, il culto era rivolto alla Croce.
Tra gli altri, Eusebio di Cesarea nella sua Storia ecclesiastica (7,18), dice di aver visto con i propri occhi dipinti dei santi Pietro e Paolo e dello stesso Gesù. L’inizio della libertà portò con sé casi di idolatria verso talune rappresentazioni: se così non fosse, sarebbe difficile spiegare i discorsi di Leonzio, vescovo a Cipro alla fine del VI secolo, che appunto difende dall’accusa i cristiani e traccia le prime linee di una teologia del culto della Croce e delle immagini. Poi, si sa, nel 726 l’imperatore bizantino Leone III Isaurico fece rimuovere un’icona venerata del Cristo, dando avvio al movimento degli iconoclasti. Da allora, anche se le figure sacre popolano buona parte dell’arte occidentale, la tentazione di abolirle non si è spenta e periodicamente invoca il versetto dell’Esodo. Nell’epoca delle immagini digitali e delle icone mediatiche papa Benedetto XVI è andato oltre. Anzi, forse ha ripreso in chiave teologica la Teoria estetica di Theodor W. Adorno. In essa il loro compito, più che di riprodurre il mondo, è quello di offrire il «contenuto di verità » che si è sedimentato nella forma stessa dell’immagine o dell’icona. E ne costituisce la storicità immanente.
Armando Torno03 maggio 2010
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