DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

UN TEDESCO A ROMA. Nella “Vita del reverendo padre Athanasius Kircher” raccontata da lui stesso c’è il matrimonio perfetto tra fede e ragione

di Nicoletta Tiliacos

Siete pronti a giurare, come Piergiorgio
Odifreddi e Margherita-
Ipazia Hack, che tra convinzioni religiose
e ricerca della conoscenza ci sia
inimicizia assoluta? Siete sicuri, come
l’ultradarwinista Richard Dawkins,
che la fede renda ottusi e incapaci di
ragionare? Siete certi che dedicare attenzione
e studio alle cose del mondo
escluda di poter rivolgere lo sguardo
a quelle celesti, pena lo strabismo?
Se pensate tutte queste cose ma volete
rischiare di ricredervi, può essere
utile leggere l’autobiografia di
Athanasius Kircher, apparsa ora per
la prima volta in italiano, tradotta dal
latino originale del manoscritto conservato
nell’Archivio Romano della
Compagnia di Gesù (“Vita del reverendo
padre Athanasius Kircher scritta
da sé medesimo”, a cura di Flavia
De Luca, La Lepre edizioni, 124 pagine,
14 euro). Scoprireste che nella incredibile
ma vera vita del gesuita nato
in Germania nel 1602, ci fu perfetta
coincidenza tra l’uomo pio e devoto alla
Madonna, pronto a riconoscere la
mano della Provvidenza divina in ogni
vicenda che lo riguardasse, e il pirotecnico
inventore, oltre che dottissimo
studioso, versato in tutto lo scibile
umano e autore di una quarantina di
trattati sui temi più diversi: dall’astronomia
alla matematica, dalla geologia
all’egittologia, dalla meccanica all’ottica,
dalla medicina all’etnologia, dalla
musicologia alle lingue orientali e
antiche, dalle scienze naturali alla filosofia
e (naturalmente) alla teologia.
Scoprireste, insomma, che la vita di
Athanasius Kircher può essere letta,
oltre che come l’avventura dell’ultimo
uomo universale di stampo rinascimentale,
impegnato a riconoscere le
corrispondenze tra macrocosmo e microcosmo,
anche come risposta a certe
superstizioni ateiste, come sonoro
sberleffo ai burbanzosi teorici dell’irriducibile
conflitto tra fede e scienza,
tra fede e ragione.
Kircher arrivò a Roma – dove sarebbe
rimasto fino alla morte, nel 1680
– tra il 1633 e il 1635, in fuga dalla
guerra fratricida che in Germania opponeva
protestanti e cattolici. Per
mettersi in salvo una volta per tutte,
aveva deciso di rinunciare a succedere
a Keplero nel ruolo di matematico
alla corte dell’imperatore Ferdinando
II, a Vienna. La capitale del papato
era un approdo più sicuro, e più che
accogliente si rivelò per padre Kircher
il Collegio Romano, dove insegnò
matematica ed egittologia (disciplina
di cui fu pioniere assoluto) per metà
di quel secolo barocco che fu anche il
secolo d’oro della Compagnia di Gesù.
Faro di cultura mondiale, fondato nel
1551 da Sant’Ignazio di Loyola come
centro di studio e di educazione che
oggi definiremmo d’eccellenza, il Collegio
dei gesuiti fu anche la sede dove
Kircher allestì la sua famosa Wunderkammer.
Una “Camera delle meraviglie”
che ai tempi attirò visitatori illustri
da tutta Europa, riconosciuta come
antenata a pieno titolo degli odierni
musei delle scienze.
Quando, per esempio, la regina Cristina
di Svezia arrivò a Roma nel 1656,
chiese di visitare prima di tutto il luogo
dove Kircher aveva accumulato le
sue rarità, quella Camera delle meraviglie
che si arricchiva in continuazione
dei reperti che gli infaticabili e avventurosi
gesuiti riportavano al Collegio
Romano dai loro viaggi missionari
ai confini del mondo. Come scrive Silvia
Ronchey nella voce dedicata a Kircher
nel suo libro “Il guscio della tartaruga”
(Nottetempo), al Collegio Romano
finivano, grazie ai missionari,
“mappe, trattati, formulari, spade,
amache, cuscini, costumi, utensili sciamanici,
idoli, olifanti, feti, scheletri,
avori, coralli, fossili, animali impagliati,
strumenti musicali, calendari, astrolabi”.
Il Museo kircheriano vantava
collezioni botaniche, minerali e archeologiche,
statuette orientali e strumenti
scientifici di ogni genere, microscopi,
attrezzature per esperimenti
chimici, orologi magnetici. Tra gli animali
esotici impagliati, va ricordato
l’armadillo, al quale Bernini si ispirò
per il bassorilievo sotto la statua del
Rio della Plata, nella Fontana dei Fiumi
di piazza Navona. E poi c’erano riproduzioni
in miniatura di obelischi,
monete antiche, statue e automi che
“parlavano” grazie a raffinati trucchi
ottici, macchinari curiosi, come il congegno
nel quale è stato visto un predecessore
del computer. A Kircher è attribuita
anche l’invenzione della lanterna
magica, antenata del cinema,
mentre a lungo si favoleggiò di una colomba
meccanica volante, andata perduta,
così come una misteriosissima
“Tazza di Tantalo”, che compare nell’antico
catalogo del museo kircheriano,
mai più rinvenuta. Si racconta –
erano già passati tre secoli dalla morte
del gesuita e un paio dallo smembramento
definitivo delle sue collezioni
– che un vecchio professore arrivava
ogni anno dalla Germania per cercare
le tracce della colombina meccanica
al Collegio Romano, nel frattempo
diventato (lo è ancora) il liceo ginnasio
statale “Ennio Quirino Visconti”.
“Chi era Kircher? Uno scienziato
geniale, un Indiana Jones della Repubblica
delle lettere o un vecchio
stanco e amareggiato dalla vita che
prepara l’anima a Dio?”. Così lo storico
Eugenio Lo Sardo – che nel 2001
curò una grande mostra romana su
Kircher e il suo “Museo del Mondo” –
scrive nella postfazione alle memorie
del gesuita di Geisa. Esprime così
quell’aura di imprendibilità, di impossibile
classificazione (buffa sorte, per
chi, come Kircher, aveva l’ambizione
di catalogare tutto l’esistente, sia pure
per riportarlo all’Unità divina) di un
personaggio che stupiva – e molto
spesso allarmava – i suoi coevi. Maldicenze
e sospetti, infatti, lo accompagnarono
per tutta la vita. I molti invidiosi
lo definivano millantatore, o ipotizzavano
che sotto l’abito talare nascondesse
indole da negromante in
combutta con forze demoniache, vere
ispiratrici dei macchinari stupefacenti
e dei giochi ottici che Kircher andava
inventando. Tutte cose che a metà
del Seicento potevano apparire come
magie non altrimenti spiegabili.
Così, per trovare nuovi estimatori,
Kircher ha dovuto aspettare tre secoli
“di relativa oscurità”, come scrive la
più importante studiosa della sua opera
– la storica del Rinascimento Ingrid
D. Rowland – nell’introduzione alla
“Vita del reverendo padre Athanasius
Kircher”. A lungo, infatti, il reverendo
si trovò relegato nel ruolo dell’erudito
stravagante, con quell’ostinazione un
po’ patetica a volersi occupare di tutto,
vista come la peste in tempi che andavano
santificando la specializzazione
dei saperi e sempre più disprezzavano
l’umanesimo. Non c’è da stupirsi, se
dopo la sua morte ebbe per secoli fama
di saccente pittoresco, di dilettante
magniloquente. Decisiva fu anche
un’altra circostanza. Fino alla fine dei
suoi giorni, Kircher rimase sostenitore
del compromesso astronomico del danese
Ticho Brahe (secondo cui il Sole
girerebbe attorno alla Terra immobile
e tutti gli altri pianeti girerebbero attorno
al Sole) contro la trionfante rivoluzione
eliocentrica copernicana e poi
galileiana. Anche per questo, all’inizio
del Novecento l’Enciclopedia britannica
lo liquidava poco gentilmente come
“uomo di grande e varia erudizione,
ma particolarmente privo di giudizio
e discernimento critico”.
Eppure, scrive Rowland, gli va almeno
riconosciuto che nello stesso
“Mundus Subterraneus”, in cui formulava
teorie piuttosto bislacche sulla generazione
spontanea di insetti e piante,
Kircher proponeva “per la prima
volta l’idea che la superficie terrestre
sia soggetta a importanti moti di scorrimento”.
Per questo, oggi “è universalmente
riconosciuto dai geologi come
il padre della teoria delle placche
tettoniche, ipotesi non accreditata in
pieno prima degli anni Sessanta del
Novecento”. Fu inoltre, ricorda Eugenio
Lo Sardo, “tra i primi a sostenere
la doppia natura della luce. Ipotizzava
che fosse una sostanza corporea in
quanto si manifesta nello spazio e insieme
incorporea perché in grado di
penetrare nei corpi”.
Insomma, nonostante le molte cose
su cui Kircher si è sbagliato o ha lavorato
troppo di fantasia, e nonostante il
tentativo di costringerlo nella categoria
dei “fous littéraires”, di cui l’epoca
barocca fu prolifica, non si può non
rimanere ammirati dalla quantità di
cose che il gesuita ha intuito, se non
proprio azzeccato. “In fondo – riconosce
Umberto Eco, collezionista di
scritti kircheriani – aveva capito che e
come si doveva usare il microscopio, e
che le pestilenze erano dovute a microrganismi”.
Aveva anche impostato
la decifrazione dei geroglifici egiziani,
e compreso che gli ideogrammi cinesi
nascevano da immagini. Aveva formulato
osservazioni importanti sui vulcani,
che aveva studiato di persona, recandosi
sui luoghi delle eruzioni e
convincendosi che un centro della terra
fatto di magma incandescente alimentasse
tutti i vulcani del globo. Era
anche “uno dei maggiori esperti in
meccanismi idraulici per organi e nelle
trascrizioni per macchine automatiche”,
scrive Eugenio Lo Sardo. Il
quale ricorda il talento di etnomusicologo
di Kircher (esperto trascrittore di
tarantelle, “musica ritenuta in grado
di guarire dal morso delle tarantole e
diretta discendente della musica greca
taumaturgica”), e il suo fiuto di antichista,
con “la pubblicazione della
prima Ode pitica di Pindaro, per molti
secoli ritenuta un falso” (ma stavolta
Kircher era nel giusto).
Amico di pontefici (fu protetto da
Alessandro VII, conosciuto a Malta
quando il futuro Papa era ancora il
cardinale Fabio Chigi, Inquisitore e
delegato apostolico dell’isola) e di sovrani,
ma anche corrispondente di
studiosi come Leibniz e di altri illustri
scienziati, filosofi e linguisti, Kircher
fu rielaboratore instancabile di miriadi
di informazioni che trasformava in
teorie e riversava nei suoi trattati.
Non è vero che avesse interpretato la
scrittura egizia, alla quale dedicò
quattro scritti. Ma, due secoli dopo, il
decifratore della stele di Rosetta,
Jean-François Champollion, darà atto
a Kircher di aver capito il legame dei
geroglifici con la lingua copta e di
aver gettato le basi per la loro corretta
interpretazione.
Al momento di tirare i remi in barca,
però, e giunto al tramonto di un’esistenza
così ricca di riconoscimenti
mondani, il reverendo Kircher sceglie
di raccontarsi semplicemente come
uomo di fede, di mettere l’accento sulle
peripezie che lo confermarono nella
sua devozione e nella convinzione
di essere stato oggetto di innumerevoli
miracoli, attribuiti alla speciale protezione
della Vergine Maria, alla quale
si rivolgeva, fin da bambino, nel momento
del pericolo. Kircher si presenta
così: “Sono venuto al mondo in questo
tempo di calamità alle tre dopo la
mezzanotte del 2 maggio 1602, proprio
nel giorno dedicato a sant’Atanasio,
nella città di Geisa, situata a tre ore di
viaggio da Fulda. I miei genitori,
Johanne Kircher e Anna Gansekin,
erano cattolici, molto dediti al culto e
alle opere di carità”.
Kircher, ultimo di nove figli, introduce
il lettore al suo doppio imprinting
familiare, fatto di grande zelo religioso
e di sconfinato amore per il sapere.
Era stato istruito fino ai dieci anni
dal padre, uomo coltissimo, il quale,
“per consentirmi di progredire in tutte
le discipline seguendo il comune
metodo di studio, mi inviò poi a Fulda,
presso il Collegio della Compagnia di
Gesù, dove volle che, con pari applicazione,
unissi allo studio della grammatica
latina quello del greco e inoltre incaricò
un rabbino di insegnarmi la lingua
ebraica. Questi studi hanno segnato
tutta la mia vita”. E poiché “vani e
poco graditi a Dio sono ogni passione
per lo studio e tutto l’impegno profuso
nell’apprendimento delle discipline,
se non sono accompagnati da una
pietà sincera e dalla cura dell’anima”,
Kircher si dice grato al genitore per
avergli scelto “dei precettori e uno stile
di vita tali da consentirmi di unire
allo studio anche la pratica religiosa”.
Non sono né considerazioni di maniera
né il pedaggio formale da pagare
al ruolo di ecclesiastico. Dobbiamo
credere a Kircher, quando dice che
per lui l’amore della sapienza e l’amor
di Dio sono la stessa cosa. Nel momento
di rintracciare il filo conduttore della
propria esistenza, sceglie la devozione
religiosa. Quando si tratta di indicare
ciò per cui spera di essere ricordato,
non cita la grandiosa opera del Collegio
Romano, non il Teatro del Mondo
nel quale rappresentava pantomime
colte di fronte alla crème dell’epoca,
e neppure i trattati illustrati di musicologia,
di vulcanologia, di matematica.
Kircher parla invece a lungo del
santuario della Mentorella, dove oggi,
in un’urna ai piedi dell’altare, è conservato
il suo cuore. Una chiesetta diroccata
e quasi seppellita in un bosco
nei pressi di Tivoli, scoperta durante
uno dei giri di esplorazione alla ricerca
di esemplari per l’erbario o la collezioni
di minerali. Sull’altare, coperta
di ragnatele, c’era l’immagine della
Madonna delle Grazie. Colei che, racconta
Kircher, l’aveva salvato dalle
persecuzioni religiose in patria, da
naufragi, da crolli, da incidenti che, come
in un film d’azione, lo avevano perseguitato
nelle sue peregrinazioni, e di
cui dà il dettaglio – a volte tragicomico
– nelle memorie. Kircher racconta come
riuscì a far restaurare il santuario
con donazioni di Leopoldo d’Austria e
di principi tedeschi, e come poi, dal
1664, promosse un pellegrinaggio annuale
alla Mentorella, il 29 settembre,
giorno di san Michele Arcangelo, dedicato
alle confessioni. Nell’autobiografia,
troviamo anche la preghiera dedicata
alla “Beata Vergine detta della
Mentorella” da lui composta e sottoscritta
con il proprio sangue.
La “Vita del reverendo padre Athanasius
Kircher” raccontata da lui stesso
ci mostra un uomo, scrive Eugenio
Lo Sardo, “dallo sguardo penetrante e
vago, dagli occhi cerulei del tedesco
che di sé ha più svelato tacendo che affermando,
sempre pronto a rinviare all’intervento
divino ogni sua scelta, il
successo (o l’insuccesso) di ogni sua
azione”. Non a caso, Kircher fece affrescare
sulla volta della Wunderkammer,
nel Collegio Romano, questa
scritta: “La sapienza è un tesoro inesauribile,
beato chiunque la trovi, sotto
umane spoglie avrà aspetto divino”.

© Copyright Il Foglio 8 maggio 2010