Tratto da Il Corriere della Sera dell'1 settembre 2010
È sempre difficile per me scrivere di Oriana Fallaci. Sono più le cose che non posso dire di lei di quelle che posso far conoscere. Certamente non si è mai «confessata» con me, nel senso sacramentale del termine. Ciò non significa, comunque, che il nostro rapporto non fosse segnato spesso da contenuti che appartengono a quella sfera di riservatezza che continuerò a conservare nonostante le insinuazioni false e spregiudicate di alcuni amanti del pettegolezzo per nulla interessati alla verità.
Mi lascerò andare, quindi, a qualche ricordo perché possa servire come una tessera nella ricostruzione della personalità tanto complessa quanto affascinante.
Oriana Fallaci è stata una donna in ricerca. È peculiare dell’intellettuale permanere in quello stato di domanda perenne, conscio della sua certezza di non sapere. Scio me nescire, so di non sapere, è il fondamento di chi vuole guardare se stesso e il mondo con una costante meraviglia e con lo stupore di cogliere il fascino di quanto ci circonda. Era una donna che lasciava trasparire fin dal primo istante la sua cultura e l’orgoglio per averla raggiunta; eppure, andando oltre le apparenze, si poteva intravedere chiaramente in lei il desiderio di conoscere sempre di più. La sua passione per i libri antichi, probabilmente, partiva da qui. Si faceva carico di conservare il patrimonio di cultura del passato non solo acquistando edizioni rare, di cui andava fiera e ne era particolarmente gelosa, ma soprattutto leggendole. È facile verificare quanti post-it erano messi in questi libri, segno di una lettura personale. Con sana vanità mi mostrava l’opera omnia originale di Voltaire che, a suo dire, era appartenuta a chissà quale Presidente degli Stati Uniti e che lei era riuscita a scovare e rimettere insieme presso un antiquario. Col volto triste aggiungeva: «Spero proprio che con tutta la fatica che ho fatto, quando sarò morta non ritornino di nuovo presso qualche antiquario»; cosa, purtroppo, che si è verificata.
Un desiderio di conoscenza, il suo, che andava dai contenuti della fede alla ricostruzione del suo albero genealogico. D’altronde, a ben vedere, cercava di rispondere in questo modo alle due domande fondamentali intorno a cui ruota il senso della vita: da dove vengo? e dove vado? Sul primo, aveva cercato di rispondere mettendo mano alla sua ultima fatica - anche se incompiuta - e scrivendo pagine autobiografiche di indiscusso valore letterario, Un cappello pieno di ciliege. Sul secondo interrogativo, invece, preferiva discutere. Domande provocatorie, a cui pensava illudendosi di avere già una risposta, fino a quando messa alle strette dalle mie argomentazioni lasciava cadere il tutto, preferendo il silenzio dubbioso. Le riprendeva, in seguito, mostrando che vi aveva riflettuto e alla fine mi dava ragione, probabilmente più per un atto di fiducia nei miei confronti, che non per una sua convinzione razionalmente raggiunta.
Di fatto, in materia di fede la sua era una conoscenza emotiva avvolta in quel sapere basilare, spesso approssimativo, che appartiene a quanti fanno della dea ragione l’unico punto di riferimento. Il suo ricordo andava volentieri alla bibbia illustrata dal Doré, che il papà le sfogliava e spiegava da bambina, ma Oriana non riusciva a cogliere il valore di senso di quelle pagine per il suo voler restare aggrappata alla sola ragione. La malattia e la sofferenza, però, obbligano a dare una risposta di senso; contrariamente si rimane nell’assurdo o nel cinismo di turno. Oriana voleva una risposta, ma non riusciva ad entrare nel cono di luce della fede che va oltre la conoscenza dei contenuti raggiunti per studio perché chiede di abbandonare se stessi all’amore di Dio. Difese fino alla fine e con forza la cultura cristiana come patrimonio di popoli, che vedeva ormai in una profonda crisi culturale, di identità e incapaci a difendere il proprio patrimonio. Non riuscì, tuttavia, ad abbandonarsi al mistero di un Dio che ama e che viene incontro anche nella sofferenza e nel dolore.
La sua passione per la libertà ne faceva un soldato sempre pronto a usare le armi che possedeva per difendere posizioni che ad alcuni autori del nostro tempo, segnati più dall’ideologia che dal realismo, sembravano anacronistiche. Il carattere non facile che possedeva la portava alla polemica violenta e come si sa, questa non è la via maestra per convincere. Ma come per ognuno di noi, così anche Oriana Fallaci doveva essere presa per quello che era: una donna combattiva che non indietreggiava mai. Neppure davanti al nemico ultimo, la morte, ha voluto essere passiva. «Non si azzardino a darmi farmaci che mi intontiscono… io non voglio arrivare come un’ebete davanti alla morte, la voglio affrontare».
Ogni altra interpretazione è pura fantasia e non corrisponde alla verità. Se affrontava così la morte, potevano farle paura le critiche che riceveva? Certo, si arrabbiava e ne soffriva perché le riteneva ingiuste, ma neppure l’alieno - come chiamava il cancro - riuscivano a impedirle di rispondere a modo suo. L’ultima settimana di agosto, poco prima della morte, ho accudito Oriana. Era rimasta sola. La sofferenza era forte, ma il viso e la voce si erano trasformati. La combattente di un tempo mostrava ormai i tratti della dolcezza, segno della vicinanza dell’Altro, a cui non credeva ma che aspettava di incontrare.