DISCERNERE
Uno sguardo profetico sugli eventi
Basta che funzioni. La comoda scusa che ci consente di spacciare qualcosa per qualcuno Se nulla ha senso, tutto è manipolabile e a nostra disposizione
Boris non è «amareggiato per qualche batosta personale», è solo scetticamente consapevole che non serve a nulla improvvisare l’esistenza di un cielo stellato sopra di sé o di una legge morale dentro di sé; queste sono favole buone per far addormentare i bambini la sera o per riempire il tempo libero di chi si raccoglie in preghiera. Come nell’ingarbugliato labirinto sentimentale narrato nella vicenda, non importa se la vita si scombini e ricombini in continuazione – una madre bigotta che si realizza artisticamente in un ménage à trois, un padre fedifrago che si scopre omosessuale, una figlia svampita che prima sposa Boris «perché è un genio» e poi lo tradisce quando ne comprende la filosofia –, ciò che conta è assaporare brevi, effimeri, intensi attimi di felicità che ci sono concessi come parentesi in quell’orrore che è l’esperienza terrena. Per questo, ciò che conta è: «Non fare del male a nessuno, basta rubacchiare un tantino di gioia in questo crudele uomo-mangia-uomo inutile e buio caos». Basta che funzioni, appunto: «E se siete di quegli idioti che devono sentirsi bene, beh, fatevi fare un massaggio ai piedi».
“Basta che funzioni” è la filosofia del nostro tempo. Come ha spiegato Allen presentando il film, il suo è un mantra che può essere applicato a tutto, «non solo ai rapporti personali. Può trattarsi di un lavoro, di un hobby o del posto in cui si desidera vivere. Se per qualcuno va bene vivere su un’isola deserta, va bene, basta che funzioni. Se uno schema o un sistema assolutamente fuori dagli schemi e dalle convenzioni funziona per te, allora non c’è nulla di sbagliato nel tentare di realizzarlo. Fino a quando non interferisci nella vita di qualcuno o fai del male a qualcuno, tutto quello che per te va bene e ti fa stare bene, è giusto».
Un uomo vuole sposare un altro uomo, che male c’è? Basta che funzioni. Una donna desidera trascorrere la vita con la sua compagna di banco del liceo, e poi magari adottare un bimbo, a chi dà fastidio? Basta che funzioni. Un’aspirante madre brama un figlio a quarant’anni attraverso la fecondazione eterologa, c’è qualcuno che ha qualcosa da obiettare? Basta che funzioni. Se si presuppone il fatto che la vita non ha senso, che tale significato non è dato da Zeus, allora in questo guscio vuoto che chiamiamo esistenza si può mettere il senso che più ci aggrada. Basta che funzioni. L’unico argine – dopotutto siamo nell’era Obama – è che non “si faccia del male a nessuno”. Ma c’è ancora qualche troglodita che pensa di avere il dovere di riflettere sulle conseguenze delle sue azioni? Ci dobbiamo forse arrabattare a dimostrare che Dio è morto? Nietzsche è un filosofo dell’età della pietra. Il nostro guru è Woody Allen.
Esageriamo? Non troppo. Recentemente due fatti di cronaca hanno riportato alla ribalta un tema divisivo nel dibattito pubblico italiano: è stato assegnato il Nobel della medicina a Robert Edwards, padre della fecondazione in vitro, e il Tribunale di Firenze ha rimesso alla Corte costituzionale la questione della legittimità della legge 40, in particolare l’articolo che riguarda la fecondazione eterologa (cioè quella effettuata in vitro con almeno uno dei due gameti esterni alla coppia). Plaudendo alla coraggiosa scelta dei giurati della Karolinska Institutet di Stoccolma, Edoardo Boncinelli sulla prima pagina del Corriere della Sera si è chiesto chi mai potrebbe scandalizzarsi per un Nobel assegnato a chi «ha curato un difetto, aiutando e non danneggiando, milioni di persone. (…) In questa maniera l’uomo si è affrancato sempre di più dai vincoli naturali che concedono salute e fertilità a qualcuno e malattia o infertilità ad altri. La tecnica insomma ci ha reso più liberi». E, spostandosi su un terreno meno scientifico, l’oncologo e senatore Pd, Umberto Veronesi, ha sentenziato in un’intervista a Repubblica che «se una coppia vuole, deve poter ricorrere ai mezzi disponibili». Una posizione lineare, che Veronesi sostiene da anni. Nel 2003, infatti, disse all’Espresso: «Se una coppia di lesbiche farà una figlia con una madre che dona il dna e una che dona l’uovo, che sarà mai?». Già, che sarà mai? Basta che funzioni e figli maschi. Boris Yellnikoff ama girare per casa in improbabili mutandoni a scacchi e t-shirt grigie. Odia il genere umano, le feste di capodanno che sono solo «un altro passo verso la tomba», i fanciulli che non sanno giocare a scacchi, la frutta e la verdura, «il tapis roulant e l’elettrocardiogramma e la mammografia e la risonanza pelvica e, o mio Dio, la colonscopia». Boris è l’illuminato professore che sfiorò il Nobel quando insegnava «teoria delle stringhe alla Columbia» e che, soprattutto, ha la «visione» esatta del significato della vita: «Niente! Zero! Nulla! Tutto finisce in niente». Boris è il disincantato protagonista di Whatever Works - Basta che funzioni, film di Woody Allen che uscì in Italia nel 2009, che condensa in un titolo e in una storia ben raccontata, ben sceneggiata, ottimamente recitata, il meaningless life americano: la vita non ha significato, cerchiamo – almeno – senza acrimonia, senza illusioni, senza bambinesche lagne, di essere pragmaticamente felici per quel che la fortuna ci concede di essere.
Una maternità straordinaria
In realtà, la filosofia del “nulla ha allegramente senso, ognuno si regoli come gli aggrada”, è meno innocente di quel che si vuole fare credere. Qui sta l’inganno. Per avvalorare la propria idea di libertà, i Boris Yellnikoff nostrani devono nascondere i dati che contraddicono i loro ragionamenti. Boncinelli omette di scrivere, ad esempio, che per i quattro milioni di bambini «tutti nati perfettamente sani» grazie a Edwards, circa 41 milioni sono stati scartati e gettati nel cestino e un altro numero imprecisato giacciono criocongelati in carceri del freddo sparse in giro per il mondo. Boncinelli deve anche dimenticare di informare i suoi lettori che Edwards è stato premiato per una scoperta che è il perfezionamento di un procedimento veterinario che non cura nessuna malattia, men che meno la sterilità. Semplicemente, applica sulle donne un iter medico che fino a metà anni Settanta si utilizzava solo su mucche e conigli. E che dopo oltre trent’anni, tale tecnica ha una percentuale molto bassa di successo (30 per cento) a fronte di un costo esistenziale ed economico mostruoso: molti cicli di tempeste ormonali, molti soldi, molte aspirazioni deluse, pochi figli. è quel che sembra non comprendere il senatore medico cattolico Ignazio Marino che si è detto pronto a riscrivere la legge 40; Marino non si spiega «perché dobbiamo dire no a una donna che desidera con tutto il suo cuore affrontare la straordinaria esperienza della maternità». Straordinaria, veramente. Lo ha raccontato anni fa anche Lord Robert Winston, padre della fecondazione in vitro inglese: «Uno dei massimi problemi che dobbiamo affrontare noi che ci occupiamo di fertilità in Gran Bretagna è che la fecondazione in vitro è diventata una immensa industria commerciale. è molto facile sfruttare la povera gente se hai la tecnologia che loro desiderano, anche se spesso non funziona». Winston lo ha dichiarato al Guardian, non ad Avvenire.
Tuttavia, qualsiasi ragionamento logico è una perdita di tempo. Hai voglia a sostenere che la scoperta di Edwards ha comportato fenomeni come quello delle madri surrogate (il suo paradiso è nel Terzo mondo, in India), quando tutti sanno, come certificò il Nobel Rita Levi Montalcini, che «gli embrioni precoci sono un esiguo cumulo di poche cellule». Se sono cellule, basta che funzioni. Oppure se ha ragione il ginecologo Carlo Flamigni quando afferma che «la vita inizia quando la donna decide che è iniziata», cosa potrà ostacolare il nostro desiderio di farla cominciare un attimo dopo che avremo terminato di programmare la gita fuori porta? Basta che funzioni, no? Il simpatico (detto senza ironia) Giovanni Sartori scrisse sul Corriere della Sera: «Se uccido un girino, non uccido una rana. E dunque l’asserzione che i diritti dell’embrione sono equivalenti a quelli delle persone già nate è, per logica, una assurdità». Logica per logica, però, bisognerebbe anche notare che da un embrione umano non è mai nata una rana.
L’anima al microscopio
Così come piuttosto astruso appare il ragionamento di Luca e Francesco Cavalli-Sforza che su Repubblica hanno argomentato che l’opposizione della Chiesa al Nobel a Edwards ha basi squisitamente ideologiche perché i cattolici credono che negli uomini, a differenza che nelle mucche, esista «un’anima individuale e immortale». E invece, «negli ultimi duecento anni si è scoperto che il numero di cose e di eventi invisibili supera di gran lunga il numero delle cose visibili ma non è emersa alcuna traccia dell’esistenza dell’anima». Chiaro, no? Siccome non abbiamo visto l’anima al microscopio, l’anima non esiste. A tal proposito, senza richiami al catechismo, un ricercatore laico e serio come Angelo Vescovi, disse una volta a Tempi: «Faccio un esempio solo apparentemente paradossale: si prenda un embrione e lo si posizioni sotto gli occhi di una scimmia. Poniamo per assurdo che si sia in grado di interpretare correttamente i suoi versi. Le si chieda: “Cosa vedi?”. L’animale risponderà: un grumo di cellule. Si giri lo stesso interrogativo a un uomo, cioè a un essere dotato di coscienza, capace di conoscere. L’uomo dovrà rispondere basandosi non solo su quello che vede, ma anche su quello che sa. E cioè che all’atto della fecondazione si forma un’entità biologica che, senza soluzione di continuità, diventa un uomo. Io sono uno scienziato, non una scimmia; perché dovrei negare tutto questo?».
Né Zeus né aruspici
Perché negarlo? Perché negandolo si diventa liberi di affermare che l’uomo è a totale disposizione dell’uomo, che è possibile (e, dunque, moralmente accettabile) far scorrere al contrario le lancette dell’orologio biologico, che le cellule embrionali umane non sono qualcuno ma “qualcosa”, con le quali si possono produrre, tra l’altro, delle ottime creme di bellezza. In fondo, basta non farsi troppe domande e basta che funzioni. Come ha osservato il genetista Bruno Dallapiccola: «Con la selezione, l’embrione sta nell’unico posto dove non deve stare, fuori dall’utero. Ce l’hai in mano e ne fai quello che vuoi». Se hai la possibilità, perché non farlo? Viviamo nell’era che il cardinale di Bologna, Carlo Caffarra, chiamò «del “collasso ontologico dell’essere”. Viene posta una “par condicio” tra l’essere e il non essere. è un’altra definizione possibile del nichilismo: l’essere in sé non è bene, non è male; dunque, ha bisogno di altre condizioni per divenire positivo».
E se queste condizioni non possono essere fatte risalire né a un Dio trascendente, né alla possibilità che esso esista («veluti si Deus daretur», direbbe Benedetto XVI), se esse non possono essere desunte dalla tradizione né interpretate da improbabili aruspici laici, a quale altro dio terreno dovremo affidarci se non a quello casuale, empirico, leggero del “basta che funzioni” di Boris Yellnikoff? è una morale comoda, maneggevole, da discount delle opinioni. Se poi capitasse che un sacrosanto, selvaggio, imprevedibile caso arrivi a rovinare questa minimalista e ben programmata weltanschauung, basterà regolarsi come Boris nel film: aprire i vetri della finestra di casa e gettarsi giù con tutta la propria filosofia dal quarto piano.
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