Andrea Caccia parla di «Vedozero» il suo film girato con settanta telefonini affidati ad altrettanti ragazzi. L'amore, le notti in discoteca, la prima volta, la scuola e la famiglia ... Un ritratto dell'adolescenza alla prima persona collettiva che rovescia i luoghi comuni sui giovani. «Sono partito dall'idea che si può raccontare il mondo a partire da se stessi»
di Cristina Piccino
Credi negli angeli? Nei miracoli? In Dio? Provate a andare su www.vedeozero.it, il trailer mostra facce di adolescenti, sedici, diciotto anni, che si raccontano col telefonino. Filmano le loro giornate di infinito muoversi contemplando le All star viola. O la pelle bruciata sotto la lampada il giorno prima di andare al mare. Si scambiano anellini col fidanzato a cui tolgono le sopracciglie ... Amore, amore, e la prima volta? «Non mi ricordo quale è il tuo fiore preferito» digitano le parole veloci sullo schermo del cellulare. Diciotto anni, pensavo che non ci sarei arrivata. E adesso? Non voglio fare l'operaio o l'impresario, pagare tutto coi buoni pasto come mio padre. La scuola si sente solo nello sbuffo, materie in debito o elenchi infiniti di interrogazioni. La classe non si vede mai, le ragazzine si filmano nei bagni, una sola volta, mentre scappano. I genitori pure ci sono poco. Un padre cucina, la mamma guarda Amici, il padre di un'altra si fa fotografare per la campagna elettorale. A parte il permesso per la discoteca non ne parlano mai dei genitori. Il loro essere sono fantasie, momenti di noia, paure segrete. I maschi un po' più ragazzini che giocano a pallone con la bottiglia di aranciata. Le notti in discoteca, il gelato e le pasticche. Le confidenze alle amiche, la voglia d'estate, le unghie sempre colorate.La musica e quello stare insieme complice, un po' infantile eppure già così esclusivo.
Vedozero è stato girato da settanta ragazzi «armati» di settanta cellulari. Andrea Caccia, il regista, lo ha realizzato con Roadmovie, e grazie al bando di produzione indetto dalla provinca di Milano (ancora di centrosinistra) due anni fa. Le scuole che hanno accettato di partecipare sono tre licei tra Monza, Vimercate e Rho, lì Caccia ha cominciato a lavorare coi ragazzi chiedendogli di raccontarsi. Il film è dunque un «quasi-diario» collettivo, composto di frammenti in cui sguardi e sensibilità diverse tracciano un 'immagine dell'adolescenza che non è quella delle statistiche. È invece una dimensione di complessa tenerezza, piena di sfumature, confusa, fragile. Con infiniti momenti assoluti, la notte, il fidanzato, essere belli, la discoteca. Tutto però, anche la droga, perchè ne parlano, senza retorica, con un 'immediatezza che cresce insieme alla coscienza della propria immagine. Non è il telefonino «filmare-per filmare» ma dietro c'è una riflessione continua su come usare il mezzo a disposizione, cosa filmare, dove indirizzare lo sguardo. Sono questi infatti i punti fondamentali che Caccia, lasciandoli poi liberi, ha voluto insegnargli. Il gesto di filmarsi per comprendere il mondo, dice. E questa è anche l'essenza del suo cinema fatto da una continua ricerca sull'immagine, formati e emozioni, grana visuale e senso profondo. Il film, già in sala al cinema Palestrina di Milano, sarà a Roma (11-12-14) al Nuovo Aquila, e poi in altre sale, quelle che accettano ancora la scommessa della distribuzione indipendente, a cui serve tempo e molto amore.
Come sei arrivato all'idea di un film collettivo girato col cellulare?
Il telefonino ha sicuramente cambiato la nostra vita, per certi versi anche in peggio forse ... Comunque adesso è una macchina da presa che permette di girare liberamente. Ho cercato subito di far capire ai ragazzi che dietro all'immagine c'è un pensiero soprattuto per loro che sono bersagli continui di un cattivo uso dell'immagine. Anche per questo ho preferito lavorare con ragazzi un po' più grandi, tra i sedici e i diciotto anni, il discorso era un po' complesso, non si trattava semplicemente di arrivare in classe e dire facciamo questo o quello. Volevo che capissero che il cinema è uno strumento per comprendere il mondo a partire da sé stessi.
Ci sono state difficoltà pratiche? E che riferimenti hai proposto ai ragazzi?
All'inizio ci hanno detto che a scuola non si poteva usare il cellulare, il che è assurdo visto che eravamo lì per girare un film col cellulare. Poi abbiamo trovato un accordo. Il primo giorno gli ho fatto vedere La verifica incerta di Grifi. Erano sconvolti. Per loro non era assolutamente un film. Ma appunto a me interessava che arrivassero a un'assunzione di responsabilità. Così quando gli ho dato il cellulare gli ho detto di non usarlo come uno strumento per guardare gli altri ma per raccontarsi. Dovevano capire che dietro a ogni immagine c'è un processo che veicola un senso.
In che modo avete organizzato i materiali?
Abbiamo aperto un sito, lì caricavano le immagini e io e il montatore le guardavamo. Non sono mai stato sul set. C'era una discussione in classe con me o con altri della troupe. Non tutti hanno risposto allo stesso modo. L'idea era quella di un film che raccontasse cosa significa avere diciotto anni. Quando ascolto le domande che seguono ogni proiezione di Vedozero penso di avere colpito nel segno. Alcuni si riconoscono, altri no, è stato bello quando una ragazza ha detto a un altro: «Non sei come credi di essere». I ragazzi sapevano da subito che non sarebbe stato un film su ciascuno di loro ma sulla loro età. Alla fine ci siamo trovati 4000 minuti di girato, ognuno aveva a disposizione un minuto, era la soluzione più semplice per gestire il sito. Ma anche per spiegare che il cinema è fatto di tante inquadrature.
E come sei arrivato a trovare una direzione?
Osservavo il loro percorso attraverso i video che mandavano, le cose apparivano in percentuali diverse. La scuola non c'era quasi mai e così i genitori o il sesso il che alla loro età non mi sembra possibile. Non si trattava però di ricucire questi momenti al montaggio, non era una storia che cercavo. Mi piaceva mantenere la fragilità del chiaroscuro, l'ingenuità, la delicatezza. Le droghe nei loro filmati ritornavano tante volte quante il gelato. Le ho messe dentro come altre cose ma senza sottolineare. Diciamo che ho cercato il mio sguardo nei loro. Per questo penso che è un film fortemente autobiografico anche se non l'ho girato io.
Vedozero è stato girato da settanta ragazzi «armati» di settanta cellulari. Andrea Caccia, il regista, lo ha realizzato con Roadmovie, e grazie al bando di produzione indetto dalla provinca di Milano (ancora di centrosinistra) due anni fa. Le scuole che hanno accettato di partecipare sono tre licei tra Monza, Vimercate e Rho, lì Caccia ha cominciato a lavorare coi ragazzi chiedendogli di raccontarsi. Il film è dunque un «quasi-diario» collettivo, composto di frammenti in cui sguardi e sensibilità diverse tracciano un 'immagine dell'adolescenza che non è quella delle statistiche. È invece una dimensione di complessa tenerezza, piena di sfumature, confusa, fragile. Con infiniti momenti assoluti, la notte, il fidanzato, essere belli, la discoteca. Tutto però, anche la droga, perchè ne parlano, senza retorica, con un 'immediatezza che cresce insieme alla coscienza della propria immagine. Non è il telefonino «filmare-per filmare» ma dietro c'è una riflessione continua su come usare il mezzo a disposizione, cosa filmare, dove indirizzare lo sguardo. Sono questi infatti i punti fondamentali che Caccia, lasciandoli poi liberi, ha voluto insegnargli. Il gesto di filmarsi per comprendere il mondo, dice. E questa è anche l'essenza del suo cinema fatto da una continua ricerca sull'immagine, formati e emozioni, grana visuale e senso profondo. Il film, già in sala al cinema Palestrina di Milano, sarà a Roma (11-12-14) al Nuovo Aquila, e poi in altre sale, quelle che accettano ancora la scommessa della distribuzione indipendente, a cui serve tempo e molto amore.
Come sei arrivato all'idea di un film collettivo girato col cellulare?
Il telefonino ha sicuramente cambiato la nostra vita, per certi versi anche in peggio forse ... Comunque adesso è una macchina da presa che permette di girare liberamente. Ho cercato subito di far capire ai ragazzi che dietro all'immagine c'è un pensiero soprattuto per loro che sono bersagli continui di un cattivo uso dell'immagine. Anche per questo ho preferito lavorare con ragazzi un po' più grandi, tra i sedici e i diciotto anni, il discorso era un po' complesso, non si trattava semplicemente di arrivare in classe e dire facciamo questo o quello. Volevo che capissero che il cinema è uno strumento per comprendere il mondo a partire da sé stessi.
Ci sono state difficoltà pratiche? E che riferimenti hai proposto ai ragazzi?
All'inizio ci hanno detto che a scuola non si poteva usare il cellulare, il che è assurdo visto che eravamo lì per girare un film col cellulare. Poi abbiamo trovato un accordo. Il primo giorno gli ho fatto vedere La verifica incerta di Grifi. Erano sconvolti. Per loro non era assolutamente un film. Ma appunto a me interessava che arrivassero a un'assunzione di responsabilità. Così quando gli ho dato il cellulare gli ho detto di non usarlo come uno strumento per guardare gli altri ma per raccontarsi. Dovevano capire che dietro a ogni immagine c'è un processo che veicola un senso.
In che modo avete organizzato i materiali?
Abbiamo aperto un sito, lì caricavano le immagini e io e il montatore le guardavamo. Non sono mai stato sul set. C'era una discussione in classe con me o con altri della troupe. Non tutti hanno risposto allo stesso modo. L'idea era quella di un film che raccontasse cosa significa avere diciotto anni. Quando ascolto le domande che seguono ogni proiezione di Vedozero penso di avere colpito nel segno. Alcuni si riconoscono, altri no, è stato bello quando una ragazza ha detto a un altro: «Non sei come credi di essere». I ragazzi sapevano da subito che non sarebbe stato un film su ciascuno di loro ma sulla loro età. Alla fine ci siamo trovati 4000 minuti di girato, ognuno aveva a disposizione un minuto, era la soluzione più semplice per gestire il sito. Ma anche per spiegare che il cinema è fatto di tante inquadrature.
E come sei arrivato a trovare una direzione?
Osservavo il loro percorso attraverso i video che mandavano, le cose apparivano in percentuali diverse. La scuola non c'era quasi mai e così i genitori o il sesso il che alla loro età non mi sembra possibile. Non si trattava però di ricucire questi momenti al montaggio, non era una storia che cercavo. Mi piaceva mantenere la fragilità del chiaroscuro, l'ingenuità, la delicatezza. Le droghe nei loro filmati ritornavano tante volte quante il gelato. Le ho messe dentro come altre cose ma senza sottolineare. Diciamo che ho cercato il mio sguardo nei loro. Per questo penso che è un film fortemente autobiografico anche se non l'ho girato io.
«Il manifesto» dell'8 ottobre 2010