Pubblichiamo la sintesi di una delle relazioni tenute a San Marino in occasione del convegno "Pensiero classico e cristianesimo antico. A cinquant'anni dalla pubblicazione del volume di Werner Jaeger Cristianesimo primitivo e paideia greca (1961)" organizzato dalla Fondazione internazionale Giovanni Paolo II per il magistero sociale della Chiesa.
di Leonardo Lugaresi Il grande merito di un libro come Cristianesimo primitivo e paideia greca (1961) è quello di individuare nella paidèia il terreno di incontro e, più ancora, l'elemento fondamentale del rapporto tra cristianesimo ed ellenismo. L'idea fondamentale della paidèiagreca - così come Werner Jaeger l'ha sentita in prima persona e mirabilmente illustrata nella sua opera principale, Paideia. La formazione dell'uomo greco - è che l'uomo diventa uomo solo grazie a un processo di formazione che si compie attraverso la cultura (sia essa cultura retorica, come in Isocrate, o cultura filosofica come in Platone, o la fusione di entrambe, come prevalentemente accade, ad esempio, nella Seconda Sofistica). "Nell'educazione", egli afferma sin dalla prima pagina del suo capolavoro, "opera quella medesima volontà di vita, plastica e generatrice, della natura, la quale spontaneamente tende a propagare e conservare ogni specie vivente nella sua forma; ma in questo gradino è portata alla massima intensità mediante il finalismo della coscienza e della volontà umana consapevoli". L'umanità, dunque, non è un dato naturale, biologico, ma un portato della cultura: l'uomo è veramente e pienamente uomo solo grazie ai lògoi, alle humanae litterae.
Ora, la posizione del cristianesimo rispetto a questo assunto fondamentale della cultura greca (e poi greco-romana) è dialettica, e non presenta quella totale corrispondenza che sembra emergere dal libro di Jaeger: sta in questo, a mio avviso, il suo limite principale. A Jaeger preme mostrare la corrispondenza tra cristianesimo ed ellenismo, e certo lo fa in modo profondo ed efficace, ma il suo corre il rischio di essere un approccio unilaterale, che finisce per vedere nell'ellenismo il momento di inveramento del cristianesimo. Quando, ad esempio, fa sua con entusiasmo l'affermazione di Droysen che senza l'ellenismo "sarebbe stato impossibile il sorgere di una religione cristiana universale", assume una posizione su cui, dal punto di vista cristiano, ci sarebbe molto da ridire. Non serve moltiplicare le citazioni: questa è l'impostazione di Cristianesimo e paideia greca, la lente con cui legge tutta la vicenda dei rapporti tra cristianesimo e ellenismo, e va presa e apprezzata per quello che di importante può dirci ancora oggi, senza però dimenticare quello che non vede. È naturale, per fare un solo esempio, che da quel punto di vista a Jaeger risulti "veramente rivelatore" il profilo che di Origene fa Porfirio, e appaia già risolta la complessa questione del rapporto tra il pensiero origeniano e la filosofia greca.
Certo, è indubbio che il cristianesimo assume totalmente la prospettiva della centralità dell'educazione, ed è convinto, sin dalle origini, della necessità di un lavoro culturale perché l'uomo realizzi pienamente la sua umanità. Del resto, qual è la forma iniziale con cui la compagnia di Cristo e dei suoi si presenta nel mondo? Un maestro attorniato dai suoi discepoli. È questo un tratto distintivo che il cristianesimo ha sempre avuto, dagli inizi della sua vicenda storica, quando nel rapporto con il mondo greco-romano ha preso le distanze dagli altri culti e si è voluto piuttosto avvicinare alle filosofie, anzi si è posto come la "vera filosofia", fino ad oggi: basti pensare a come il magistero di Giovanni Paolo ii si sia incardinato sulla convinzione che genus humanum arte et ratione vivit, secondo la nota formula tomista da lui richiamata sin dal suo primo discorso all'Unesco nel giugno del 1980, e a come tutto l'insegnamento di Benedetto XVI si sviluppi in un paziente lavoro di educazione della ragione dell'uomo contemporaneo. Si potrebbe quasi dire, come è stato argutamente osservato, che il cristiano è sempre, per definizione, un intellettuale, anche quando si tratta di un contadino analfabeta, perché gli è comunque richiesto - ovviamente nei limiti e nei modi appropriati alle sue capacità intellettuali - di conoscere e comprendere un credo. La fede, per darsi, deve in qualche modo comprendere ciò che crede, e questo esige da ciascun credente un vero e proprio percorso di conoscenza. Gli studiosi di storia del cristianesimo antico e di letteratura cristiana antica sono abituati, per deformazione professionale, a considerare l'omiletica e la catechetica cristiana dei primi secoli solo dalla parte degli autori, o al massimo a porsi il problema dei destinatari e dei modi di circolazione dei testi ma guardandoli sempre dall'esterno, come termini di un processo di cui conta soprattutto il punto di partenza: non si pensa quasi mai all'ascolto e all'assimilazione di quegli stessi testi nei termini di un vero lavoro intellettuale. Certo, lo stato delle fonti non ce lo permette più di tanto, ma se un po' lo facessimo - anche solo come esercizio mentale - capiremmo meglio l'eccezionalità, e non solo relativamente a quel tempo, di una prassi catechetica che proponeva a tutti, anche alle categorie escluse dalla paideia classica, un vero e proprio percorso di apprendimento. Spunti preziosi, in questo senso, si potrebbero ricavare dalle omelie di Giovanni Crisostomo, dove non sono rari gli accenni che il predicatore fa, anche entrando nei dettagli, al lavoro di ripresa del suo insegnamento che si aspetta dai fedeli una volta tornati a casa.
Il principio antropologico cristiano, però, è del tutto diverso da quello greco: ciò che rende umano l'uomo è la "relazione creaturale", non la cultura. L'uomo è uomo non in quanto sa, ma in quanto ama, e può amare perché prima è stato a sua volta "creativamente amato". L'uomo è uomo perché è l'amore di Dio a costituirlo come tale. È l'amore creativo della Trinità che lo costituisce nella sua umanità, non la cultura. Si noti che questo principio rimane vero anche quando dal piano individuale si passa a quello collettivo, "politico": non solo l'identità dell'uomo cristiano è costituita dalla relazione, ma anche quella del "popolo" cristiano, giusta la celebre definizione ciprianea della Chiesa come de unitate Patris et Filii et Spiritus Sancti plebs adunata (De oratione dominica, 23) ripresa nel quarto capitolo della Lumen gentium. Quella cristiana è dunque un'"etnia sui generis", per usare l'espressione cara a Paolo vi, perché trova il proprio criterio di identificazione non nel sangue o nella cultura, ma nella relazione trinitaria.
Da questo assunto, tuttavia, non scaturisce affatto un atteggiamento anticulturale, nonostante la dichiarata preferenza di Gesù per i semplici rispetto ai sapienti e agli intelligenti (Matteo, 11, 25), la sottolineatura, spesso presente nell'apologetica cristiana, dell'ignoranza degli apostoli e della rozzezza del loro sermo piscatorius e nonostante una certa "posa" che a volte taluni cristiani assumono e che trova la più paradossale espressione nella famosa domanda di Tertulliano: Quid ergo Athenis et Hierosolymis? quid academiae et ecclesiae? (De praescritione haereticorum, 7). Domanda retorica quant'altre mai, non solo perché contiene già la sua risposta, ma anche nel senso che è il frutto di una retorica raffinata, esibita proprio nel momento stesso in cui se ne rifiuta la pertinenza al cristianesimo. In realtà questa linea "anticulturale", se così possiamo dire, è prevalentemente combattuta dagli autori cristiani e bollata come agroikìa, cioè come rozzezza, e accusata di ostacolare l'approfondimento della fede in conoscenza. Come lamenta Clemente Alessandrino, "a quanto pare, i più di coloro che si fregiano del nome (di cristiani), come i compagni di Ulisse, coltivano il Lògos rozzamente: essi passano oltre, non alle Sirene, ma al ritmo e alla melodia, essendosi turati le orecchie per ignoranza, giacché sono persuasi che non ritroverebbero più la via del ritorno una volta porto orecchio alle dottrine greche" (Stromati 6, 89, 1)
Questa difesa della cultura non è un elemento accessorio o una conseguenza secondaria del cristianesimo, ma una sua esigenza vitale: essa ha una motivazione di fondo, che costituisce anche il punto di incontro con la paidèia greca. Il fatto è che la relazione di Dio con l'uomo, di cui sopra abbiamo detto che è costitutiva dell'identità umana, nel cristianesimo è concepita e rappresentata essa stessa in termini di educazione. Quella relazione, cioè, è essenzialmente una relazione educativa, una pedagogia; e ciò è possibile perché il lògos, inteso come ragione (con i lògoi, cioè la cultura, che ne sono il frutto), è il termine comune tra Dio, che si rivela nel Lògos, e l'uomo. Questo è un aspetto che Jaeger coglie molto bene, in uno dei passaggi più felici del libro, quando, rifacendosi al lavoro di Hal Koch, Pronoia und Paideusis (1932), parla di Origene e della sua "concezione del cristianesimo come paideia del genere umano" e in quanto tale "adempimento della divina provvidenza". Questa fondamentale intuizione, che l'amore di Dio verso l'uomo si esplica in una paidèia dell'umanità, che comincia dalla creazione di Adamo ed Eva, prosegue nel rapporto con il popolo eletto e culmina nell'azione pedagogica del Lògos, rende possibile - anzi in un certo senso richiede - l'assunzione da parte cristiana della centralità del concetto di paidèia, come è perfettamente illustrato dal piano generale dell'intera opera di Clemente Alessandrino, che si presenta come omologa al piano di Dio, secondo la scansione del Lògos Protrettico, Pedagogo e Didàskalos. Diventa allora assai interessante riflettere sul rapporto tra il cristianesimo e la scuola, tema a cui Jaeger accenna più volte nel corso del libro, in particolare quando parla della scuola di Origene a Cesarea, dell'esperienza formativa ad Atene del giovane Gregorio di Nazianzo e del suo amico Basilio di Cesarea e del famoso Discorso ai giovani in cui quest'ultimo tratta del modo in cui gli studenti cristiani possono trarre profitto dalla lettura degli autori pagani.
(©L'Osservatore Romano - 14 ottobre 2010)