le tombe dei monaci martiri di Tibhirine
In italiano si intitola "Uomini di Dio", ma nell'originale francese il titolo di questo film di Xavier Beauvois è più suggestivo: "Des Hommes et des Dieux", "Degli uomini e degli Dei". Narra la vera storia dei sette monaci trappisti di Nostra Signora dell'Atlante in Algeria, sequestrati e uccisi tra il 26 e il 27 marzo 1996 dai fondamentalisti dei “Gruppi islamici armati”. Nonostante le minacce e la paura non sono venuti meno al loro voto di stabilità e all'amicizia verso gli abitanti del villaggio. Perciò scelsero di rimanere, nonostante tutto. Solo dal 2007 è in corso la fase diocesana (arcidiocesi di Algeri) della causa di beatificazione di quei monaci, insieme a tutti gli altri cristiani algerini, che hanno perso la vita in quelle folli circostanze, che in un decennio hanno visto più di 300 mila morti civili fra cui altri 12 fra religiose e religiosi.
Il film, presentato a Cannes, ha riscosso un grande successo e ha commosso il pubblico. Vi riporto, insieme ad alcuni trailer del film, anche al testimonianza di J.M. Lassause, prete della Mission de France, che continua oggi a curare e custodire il monastero di Tibhirine; è stata rilasciata a MissionOnline:
La testimonianza: Vivere a Tibhirine oggi
di Jean-Marie Lassause
«Tibhirine fa parte dell'eredità della Chiesa universale. Sta a noi inventare un seguito, che possa raccogliere quest'eredità e che le rende viva»
Da dieci anni vivo a Tibhirine quattro giorni la settimana, per continuare la produzione agricola con Youcef e Samir, perché questo monastero abbia sempre la porta aperta a tutti gli ospiti e per mantenere questo luogo di preghiera cristiana in mezzo ai fratelli musulmani.
"Uomini di Dio" è per me un grande film autentico, che sottolinea l'umanità e la fraternità dei monaci, attraverso una convivialità condivisa nel quotidiano. Attraverso questi legami molto forti di vicinanza e di lavoro, i monaci hanno dischiuso per me e per la Chiesa d'Algeria un solco che resta aperto al dialogo e all'incontro. Ancora oggi continuiamo a vivere queste relazioni molto fraterne attraverso lo scambio, i servizi reciproci, il vivere insieme, le gioie condivise delle feste musulmane e cristiane.
Certamente, non si parla più di "fratelli della pianura" e di "fratelli della montagna"; il terrorismo si è allontanato e la vita pacifica ha ripreso. È il ritmo delle stagioni, piacevoli in estate e dure in inverno, che scandisce i lavori, così come le preghiere dei monaci danno il ritmo alle giornate nel film. Questo rinviarsi dei tempi di preghiera e degli orari di lavoro manuale àncora la vita monastica nel tempo e nello spazio, così come la voce del muezzin che echeggia dinanzi al monastero scandisce la giornata e fa sì che le nostre umili occupazioni abbiano un respiro più alto.
L'interrogazione di fondo dei monaci nel 1996 riguardava il restare o il partire; la questione di oggi è quella di dare un futuro a questo monastero, segnato dalla memoria dei monaci che vi riposano e che hanno trasmesso al mondo lo spirito di Tibhirine. Questo Spirito non appartiene solo alla Chiesa, ma al mondo che riconosce questo valore immenso del vivere insieme in armonia tra credenti di diverse religioni e culture.
È in questo modo che il film interroga molti nostri contemporanei che vivono a nord del Mediterraneo, nei quartieri di periferia delle nostre città, ed è un invito a non disertare questi luoghi di incontro che possono diventare luoghi di frattura.
Bel film, dove i paesaggi (benché girati in Marocco) ritrovano i colori ocra e i verdi dell'inverno, delle alture di Medea, punteggiate dalle greggi di pecore fanno parte del quotidiano della gente; bel film, dove la direttrice della fotografia tratta la luce in modo tale da insinuare il desiderio di riscoprire un Caravaggio o un Fontana...
Quante volte ho pensato, varcando il cancello del monastero, che entravo in un'oasi, in un anticamera del paradiso, dove il silenzio permea gli edifici centenari; nel film, la ricerca dei monaci è molto legata alla terra fertile, agli alberi, al levarsi del sole, al suo tramontare, insomma è iscritta nella natura che rivela qualcosa di Dio.
Ancora oggi, i monaci accompagnano le genti di Tibhirine, che evocano molto spesso le loro memorie condivise, con grande rispetto per monaci come Luc o Christophe, ma anche per Amédée e Jean Pierre: essi amavano profondamente la gente e oggi ancora la popolazione di qui è loro riconoscente. Il villaggio è cresciuto insieme con il monastero e la gente è come gli uccelli che si riposano sui rami rappresentati dai monaci. Se dovessero partire, dove "ci poseremo"?
Per me, il problema di restare o partire non si pone. Tibhirine fa parte dell'eredità della Chiesa universale. Sta a noi inventare un seguito, che possa raccogliere quest'eredità e che le rende viva.
Il trailer ufficiale del film in italiano:
I monaci di Tibhirine e il sondaggio dell'"Economist"
di Lucetta Scaraffia
L'ultimo numero dell'"Economist" presenta i risultati di un sondaggio fatto presso i lettori a proposito della religione. È stato loro chiesto, infatti, se ritenevano la religione forza "per il bene" oppure nociva. Le ragioni delle parti sono state difese sull'autorevole rivista britannica da due giornalisti, ma Mark Oppenheimer, che è intervenuto per la religione, non è stato molto convincente. Ha portato tre motivazioni a favore, di cui una decisamente originale e difficilmente sostenibile: "La religione diverte". Non c'è quindi da stupirsi se la netta maggioranza dei lettori - precisamente il 75 per cento - ha votato contro.
Sono certa che se agli stessi lettori fosse stato mostrato il film di Xavier Beauvois Uomini di Dio - più bello è il titolo originale, Des hommes et des Dieux - avrebbero espresso un'opinione diversa.
Questo film - che in Francia ha ottenuto un grande successo, fino a raggiungere i due milioni e mezzo di spettatori - racconta infatti in modo semplice e reale, senza risvolti agiografici, la vita e la morte dei monaci cistercensi di Tibhirine, sulle montagne del Maghreb.
Una vita semplice, dedicata ai lavori manuali, che garantiscono la loro sopravvivenza, allo studio e, naturalmente, per gran parte della giornata riservata alla preghiera. I monaci non hanno la missione di evangelizzare, ma solo quella di portare una testimonianza d'amore e di preghiera. La loro vita quotidiana è quindi semplice: essi vogliono essere solamente "un segno sulla montagna" e non un'opposizione, un segno di fratellanza con un popolo in gran parte musulmano.
Si scontrano però con lo scoppio dell'ostilità fra un Governo, che viene definito corrotto, e una ribellione fondamentalista. I monaci sanno a cosa andranno incontro, e umanamente hanno paura. Alcuni - i più giovani - pensano di andarsene, come sollecita il Governo. Ma il superiore chiede loro un tempo di riflessione, e questo periodo servirà per arrivare, tutti, alla stessa decisione: restare e affrontare il martirio.
Il percorso che li porta alla scelta è ben narrato, per tutti simile e per ognuno diverso, e mirabilmente rappresentato in un'ultima cena che li vede riuniti e durante la quale - sorseggiando un bicchiere di vino che già simboleggia il sacrificio - ciascuno di loro rifletterà nel volto la paura per ciò che lo aspetta e la serenità della decisione presa.
La caratteristica più bella del film è che mostra i monaci come uomini comuni: con le debolezze e le paure degli uomini comuni, esseri umani come noi, fragili, che nel corso di giornate sempre più cupe attingono coraggio dalla preghiera. È infatti nel canto dei salmi e nelle orazioni che trovano la risposta che cercano: non possono lasciare la popolazione del villaggio con la quale hanno vissuto fino ad allora. Non nel momento del bisogno.
Il loro messaggio sarà chiaro: per amore dei musulmani del Maghreb accettano di andare incontro al martirio, dimostrando così che il conflitto fra le religioni, come ogni conflitto, si può annullare con un atto di amore.
In questo film abbiamo la religione cattiva - cioè la distorsione fondamentalista che ripugna agli stessi credenti musulmani - e quella buona messe a confronto, in una narrazione che sa farci vedere quanta luce può irradiare una scelta di amore totale. Anche i lettori dell'"Economist" avrebbero avuto molte difficoltà a ignorarlo.
(©L'Osservatore Romano - 22 ottobre 2010)
Esce nelle sale italiane "Des hommes et des Dieux" di Xavier Beauvois
Otto uomini
Il film francese candidato agli Oscar
di Emilio Ranzato
Otto monaci francesi dell'ordine cistercense vivono in un monastero fra le montagne del Maghreb algerino. In perfetta armonia con la comunità musulmana locale, condividono le gioie e le difficoltà di chi li circonda. L'equilibrio spontaneo della regione si incrina quando un gruppo di fondamentalisti uccide alcuni lavoratori stranieri. Ci vuole poco perché l'attenzione dei terroristi si concentri sul monastero, malgrado chi lo abita svolga solo funzioni di preghiera e di meditazione, e non di proselitismo. Quando gli otto religiosi entrano in contatto con il gruppo armato, lo fanno con la stessa naturalezza che contraddistingue i loro rapporti quotidiani, prestando anche soccorso a un ferito. La loro vita sembra dunque proseguire come sempre, tanto che decidono di rifiutare la proposta di una scorta da parte dell'esercito. Se le semplici abitudini del monastero rimangono immutate, la tensione nella regione continua però a crescere e alcuni cittadini cominciano a scappare. A questo punto i monaci sono costretti a interrogarsi sull'opportunità di abbandonare il luogo. Il priore Christian - un sorprendente Lambert Wilson, conosciuto dal grande pubblico per aver partecipato in tutt'altre vesti alla saga di Matrix - propone di rimanere per proseguire la missione cui sono stati preposti, ma in un primo tempo il timore generale sembra avere la meglio. La decisione sarà graduale e sofferta, eppure alla fine quasi unanime.
Otto monaci ma soprattutto otto uomini. Ognuno con le proprie caratteristiche, le proprie qualità e i propri limiti. Li vediamo assorbiti nella loro devozione, ma anche allegri o litigiosi. In tutta la loro umanità, insomma. Tanto che quando il pericolo si affaccerà alle porte del monastero, la prima cosa che ci si chiederà è come faranno a farvi fronte. Presi uno per uno, forse nemmeno loro saprebbero dare una risposta. Tutti insieme, però, la troveranno.
Pur ispirandosi in modo esplicito alla tragedia di Tibhirine del 1996, quando dei monaci francesi furono vittime del Gia (il Gruppo Islamico Armato) in un'Algeria attraversata da profonde divisioni, quello firmato da Xavier Beauvois vuole essere solo in superficie un film di cronaca storica. Anzi, la bellezza di Uomini di Dio risiede soprattutto nel modo in cui si passa sottilmente e in modo impercettibile da uno sguardo naturalistico e quasi documentario - assecondato da una direzione degli attori tutt'altro che dispotica - a una dimensione sempre più metaforica. Gli stessi terroristi vengono mostrati in modo diretto solo in un paio di occasioni, e in atteggiamenti non dichiaratamente bellicosi, salvo poi essere relegati sempre più sullo sfondo, fino a diventare quasi la trasfigurazione del tormento interiore dei protagonisti.
Per quest'idea di adombrare una violenza invisibile su un paesaggio tanto in armonia da farla apparire ancora più insensata e irreale, a tratti il film ricorda La sottile linea rossa di Terrence Malick. Così come per la volontà di conciliare le istanze ideologiche - riconoscibili soprattutto nel sottolineare come un terreno comune fra fedeli di religioni diverse sia assolutamente possibile - con quelle simboliche: mentre ci viene raccontato che la tensione attorno a loro cresce in maniera esponenziale, vediamo gli otto monaci sempre più soli, alle prese con una indecisione che si porta dietro interrogativi pratici ma anche filosofici, e che attengono alla natura stessa del loro ruolo nel mondo: la libertà è di chi riesce a fuggire o di chi rimane saldamente ancorato alla propria missione? È giusto aderire al proprio ruolo fino alle estreme conseguenze?
L'intero film è d'altronde disseminato di sottili corrispondenze che compensano un tessuto narrativo e drammaturgico volutamente ellittico e avaro di dettagli realistici, che alla lunga sarebbero risultati senz'altro invadenti. I paesaggi su cui la cinepresa indugia sempre un attimo in più di ciò che è consueto, lasciandoli respirare di vita propria anche quando i personaggi hanno lasciato la scena, è infatti strettamente legata alla vita dei monaci cistercensi, votata, fra l'altro, alla contemplazione della natura. Così come l'unanimità della loro decisione finale fa da pendant alle numerose scene in cui li vediamo impegnati nella preghiera corale. E proprio la scena cruciale e bellissima della presa di coscienza di ciò che è giusto fare ci viene raccontata senza una riga di dialogo, sulle note commoventi ma anche orgogliose del Lago dei cigni di Cajkovskij, come il silenzio e il canto liturgico accompagnano la vita dei monaci. E se alla fine qualcuno disattenderà la promessa fatta reciprocamente, ciò non farà che conferire ulteriore umanità al loro sacrificio, raccontato dal regista e dal suo sceneggiatore Etienne Comar senza cadere mai nella trappola del facile eroismo. "La mia vita non ha più valore di un'altra. Non ne ha neanche meno" si legge d'altronde nell'umanissimo e per questo ancora più toccante testamento spirituale del vero frère Christian.
È forse per questo pudore che a tratti il film dà l'impressione di osare meno di quanto potrebbe, ma le ultime due o tre sequenze riescono a dare al risultato complessivo il colpo d'ala che ci si aspettava, con una soluzione enigmatica - ricordiamo che non è stata mai fatta pienamente luce sulla fine dei monaci di Tibhirine - ma anche poeticamente rasserenante.
Dopo aver vinto il gran premio della giuria all'ultimo festival di Cannes, il film è stato selezionato come candidato per la Francia ai prossimi premi Oscar.
(©L'Osservatore Romano - 22 ottobre 2010)
di Lucetta Scaraffia
L'ultimo numero dell'"Economist" presenta i risultati di un sondaggio fatto presso i lettori a proposito della religione. È stato loro chiesto, infatti, se ritenevano la religione forza "per il bene" oppure nociva. Le ragioni delle parti sono state difese sull'autorevole rivista britannica da due giornalisti, ma Mark Oppenheimer, che è intervenuto per la religione, non è stato molto convincente. Ha portato tre motivazioni a favore, di cui una decisamente originale e difficilmente sostenibile: "La religione diverte". Non c'è quindi da stupirsi se la netta maggioranza dei lettori - precisamente il 75 per cento - ha votato contro.
Sono certa che se agli stessi lettori fosse stato mostrato il film di Xavier Beauvois Uomini di Dio - più bello è il titolo originale, Des hommes et des Dieux - avrebbero espresso un'opinione diversa.
Questo film - che in Francia ha ottenuto un grande successo, fino a raggiungere i due milioni e mezzo di spettatori - racconta infatti in modo semplice e reale, senza risvolti agiografici, la vita e la morte dei monaci cistercensi di Tibhirine, sulle montagne del Maghreb.
Una vita semplice, dedicata ai lavori manuali, che garantiscono la loro sopravvivenza, allo studio e, naturalmente, per gran parte della giornata riservata alla preghiera. I monaci non hanno la missione di evangelizzare, ma solo quella di portare una testimonianza d'amore e di preghiera. La loro vita quotidiana è quindi semplice: essi vogliono essere solamente "un segno sulla montagna" e non un'opposizione, un segno di fratellanza con un popolo in gran parte musulmano.
Si scontrano però con lo scoppio dell'ostilità fra un Governo, che viene definito corrotto, e una ribellione fondamentalista. I monaci sanno a cosa andranno incontro, e umanamente hanno paura. Alcuni - i più giovani - pensano di andarsene, come sollecita il Governo. Ma il superiore chiede loro un tempo di riflessione, e questo periodo servirà per arrivare, tutti, alla stessa decisione: restare e affrontare il martirio.
Il percorso che li porta alla scelta è ben narrato, per tutti simile e per ognuno diverso, e mirabilmente rappresentato in un'ultima cena che li vede riuniti e durante la quale - sorseggiando un bicchiere di vino che già simboleggia il sacrificio - ciascuno di loro rifletterà nel volto la paura per ciò che lo aspetta e la serenità della decisione presa.
La caratteristica più bella del film è che mostra i monaci come uomini comuni: con le debolezze e le paure degli uomini comuni, esseri umani come noi, fragili, che nel corso di giornate sempre più cupe attingono coraggio dalla preghiera. È infatti nel canto dei salmi e nelle orazioni che trovano la risposta che cercano: non possono lasciare la popolazione del villaggio con la quale hanno vissuto fino ad allora. Non nel momento del bisogno.
Il loro messaggio sarà chiaro: per amore dei musulmani del Maghreb accettano di andare incontro al martirio, dimostrando così che il conflitto fra le religioni, come ogni conflitto, si può annullare con un atto di amore.
In questo film abbiamo la religione cattiva - cioè la distorsione fondamentalista che ripugna agli stessi credenti musulmani - e quella buona messe a confronto, in una narrazione che sa farci vedere quanta luce può irradiare una scelta di amore totale. Anche i lettori dell'"Economist" avrebbero avuto molte difficoltà a ignorarlo.
(©L'Osservatore Romano - 22 ottobre 2010)
Esce nelle sale italiane "Des hommes et des Dieux" di Xavier Beauvois
Otto uomini
Il film francese candidato agli Oscar
di Emilio Ranzato
Otto monaci francesi dell'ordine cistercense vivono in un monastero fra le montagne del Maghreb algerino. In perfetta armonia con la comunità musulmana locale, condividono le gioie e le difficoltà di chi li circonda. L'equilibrio spontaneo della regione si incrina quando un gruppo di fondamentalisti uccide alcuni lavoratori stranieri. Ci vuole poco perché l'attenzione dei terroristi si concentri sul monastero, malgrado chi lo abita svolga solo funzioni di preghiera e di meditazione, e non di proselitismo. Quando gli otto religiosi entrano in contatto con il gruppo armato, lo fanno con la stessa naturalezza che contraddistingue i loro rapporti quotidiani, prestando anche soccorso a un ferito. La loro vita sembra dunque proseguire come sempre, tanto che decidono di rifiutare la proposta di una scorta da parte dell'esercito. Se le semplici abitudini del monastero rimangono immutate, la tensione nella regione continua però a crescere e alcuni cittadini cominciano a scappare. A questo punto i monaci sono costretti a interrogarsi sull'opportunità di abbandonare il luogo. Il priore Christian - un sorprendente Lambert Wilson, conosciuto dal grande pubblico per aver partecipato in tutt'altre vesti alla saga di Matrix - propone di rimanere per proseguire la missione cui sono stati preposti, ma in un primo tempo il timore generale sembra avere la meglio. La decisione sarà graduale e sofferta, eppure alla fine quasi unanime.
Otto monaci ma soprattutto otto uomini. Ognuno con le proprie caratteristiche, le proprie qualità e i propri limiti. Li vediamo assorbiti nella loro devozione, ma anche allegri o litigiosi. In tutta la loro umanità, insomma. Tanto che quando il pericolo si affaccerà alle porte del monastero, la prima cosa che ci si chiederà è come faranno a farvi fronte. Presi uno per uno, forse nemmeno loro saprebbero dare una risposta. Tutti insieme, però, la troveranno.
Pur ispirandosi in modo esplicito alla tragedia di Tibhirine del 1996, quando dei monaci francesi furono vittime del Gia (il Gruppo Islamico Armato) in un'Algeria attraversata da profonde divisioni, quello firmato da Xavier Beauvois vuole essere solo in superficie un film di cronaca storica. Anzi, la bellezza di Uomini di Dio risiede soprattutto nel modo in cui si passa sottilmente e in modo impercettibile da uno sguardo naturalistico e quasi documentario - assecondato da una direzione degli attori tutt'altro che dispotica - a una dimensione sempre più metaforica. Gli stessi terroristi vengono mostrati in modo diretto solo in un paio di occasioni, e in atteggiamenti non dichiaratamente bellicosi, salvo poi essere relegati sempre più sullo sfondo, fino a diventare quasi la trasfigurazione del tormento interiore dei protagonisti.
Per quest'idea di adombrare una violenza invisibile su un paesaggio tanto in armonia da farla apparire ancora più insensata e irreale, a tratti il film ricorda La sottile linea rossa di Terrence Malick. Così come per la volontà di conciliare le istanze ideologiche - riconoscibili soprattutto nel sottolineare come un terreno comune fra fedeli di religioni diverse sia assolutamente possibile - con quelle simboliche: mentre ci viene raccontato che la tensione attorno a loro cresce in maniera esponenziale, vediamo gli otto monaci sempre più soli, alle prese con una indecisione che si porta dietro interrogativi pratici ma anche filosofici, e che attengono alla natura stessa del loro ruolo nel mondo: la libertà è di chi riesce a fuggire o di chi rimane saldamente ancorato alla propria missione? È giusto aderire al proprio ruolo fino alle estreme conseguenze?
L'intero film è d'altronde disseminato di sottili corrispondenze che compensano un tessuto narrativo e drammaturgico volutamente ellittico e avaro di dettagli realistici, che alla lunga sarebbero risultati senz'altro invadenti. I paesaggi su cui la cinepresa indugia sempre un attimo in più di ciò che è consueto, lasciandoli respirare di vita propria anche quando i personaggi hanno lasciato la scena, è infatti strettamente legata alla vita dei monaci cistercensi, votata, fra l'altro, alla contemplazione della natura. Così come l'unanimità della loro decisione finale fa da pendant alle numerose scene in cui li vediamo impegnati nella preghiera corale. E proprio la scena cruciale e bellissima della presa di coscienza di ciò che è giusto fare ci viene raccontata senza una riga di dialogo, sulle note commoventi ma anche orgogliose del Lago dei cigni di Cajkovskij, come il silenzio e il canto liturgico accompagnano la vita dei monaci. E se alla fine qualcuno disattenderà la promessa fatta reciprocamente, ciò non farà che conferire ulteriore umanità al loro sacrificio, raccontato dal regista e dal suo sceneggiatore Etienne Comar senza cadere mai nella trappola del facile eroismo. "La mia vita non ha più valore di un'altra. Non ne ha neanche meno" si legge d'altronde nell'umanissimo e per questo ancora più toccante testamento spirituale del vero frère Christian.
È forse per questo pudore che a tratti il film dà l'impressione di osare meno di quanto potrebbe, ma le ultime due o tre sequenze riescono a dare al risultato complessivo il colpo d'ala che ci si aspettava, con una soluzione enigmatica - ricordiamo che non è stata mai fatta pienamente luce sulla fine dei monaci di Tibhirine - ma anche poeticamente rasserenante.
Dopo aver vinto il gran premio della giuria all'ultimo festival di Cannes, il film è stato selezionato come candidato per la Francia ai prossimi premi Oscar.
(©L'Osservatore Romano - 22 ottobre 2010)
Uomini di Dio, la potenza della fede
Il regista francese Xavier Beauvois ripercorre gli ultimi mesi di vita dei padri cistercensi assassinati negli anni 90 in Algeria
Venerdi 22 ottobre il pubblico italiano potrà vedere finalmente in sala Uomini di Dio. Il film ha già conquistato il Gran Premio della Giuria all'ultimo festival di Cannes e più di due milioni di persone in Francia hanno visto la pellicola, perennemente in testa al box office da quattro settimane. L'augurio che possiamo farci sin da ora è che gli spettatori italiani siano ancor più numerosi di quelli d'oltralpe, perché Xavier Beauvois ha diretto un capolavoro, ed è stato artefice di un piccolo miracolo: chi avrebbe mai ipotizzato che un film con protagonisti otto monaci cistercensi avrebbe fatto innamorare pubblico e critica? E invece è stato così, la pellicola è bella e densa e si propone di far luce, per quanto possibile, sul rapimento e l'assassinio di alcuni confratelli trappisti a Thibirine, in Algeria.Siamo negli anni 90. Un monastero in cima alle montagne del Maghreb è abitato da otto padri cistercensi di origine francese. La comunità che abita il villaggio ai loro piedi è di fede islamica, ma ciò non impedisce ai monaci di avere un rapporto di armonia e pacifica convivenza con loro e di aiutarli nella vita quotidiana come fa padre Luc, che in qualità di medico visita ogni giorno centinaia di pazienti, fornendo loro cure e medicinali gratuitamente.
Tutto cambia quando viene assassinato un gruppo di lavoratori stranieri: l'esercito algerino offre protezione armata ai monaci, che la rifiutano. L'atmosfera è tesa e culmina alla vigilia di Natale, quando irrompono nel convento alcuni fondamentalisti islamici che rivendicano il massacro e minacciano il priore Christian. I padri non sanno cosa fare, se andare via, o restare in quella che considerano la loro casa. Sono attanagliati da dubbi, crisi di fede, paura di morire e desiderio di rimanere. La situazione precipita quando padre Luc presta soccorso a un terrorista, evitandogli la morte. Da quel momento l'autorità algerina preme perché ritornino in Francia ma i monaci sono convinti di rimanere nel loro monastero, firmando di fatto la loro condanna a morte. In pochi probabilmente ricorderanno questa storia, anche perché per anni il governo algerino cercò di insabbiare l'assassinio dei frati e i nomi dei loro carnefici. I terroristi rivendicarono la strage, ma anni dopo il dubbio che sia stato lo stesso esercito algerino a volersi sbarazzare dei monaci è fortissimo.
Il film però non si ferma alla mera ricostruzione storica, indagando invece con ardore il sentimento religioso e l'amore verso Dio che avvolge i monaci. Otto uomini come noi ma allo stesso tempo straordinari, perché pervasi da una fede che li governa e li assiste, li protegge e li guida nelle scelte, una fede che diviene messaggio di pace e dimostra che la fraternità tra cristiani e islamici non è solo possibile, ma auspicabile.