Tra i “danni collaterali” della fecondazione
eterologa non può essere né
contemplata né tantomeno risarcita la
nascita di bambini dal colore della pelle
diverso da quello atteso. E’ questo il parere
dell’Alta corte dell’Irlanda del nord,
la quale, lo scorso 13 ottobre, ha respinto
il ricorso di una coppia che nel 2003 si
era sottoposta a trattamenti di fecondazione
in vitro con seme di donatore anonimo.
La clinica ne aveva assicurato la
provenienza “caucasica” doc, ma – forse
per un disguido di etichettatura – qualcosa
non è andato come doveva. Sono nati
due gemelli dal colore non sufficientemente
chiaro, a giudizio dei committenti,
e da qui la decisione di chiedere un risarcimento
alla clinica, in nome del danno
subìto dai bambini “a causa di commenti
offensivi e sprezzanti a proposito
delle differenze tra il colore della loro
pelle e quello dei loro genitori”. Una storia
dagli accenti grotteschi e (involontariamente?)
razzisti, che dimostra come
sotto l’ombrello della fantasiosa contrattualistica
procreativa tornino a trovare
cittadinanza concetti altrimenti considerati
vergognosi. L’Alta corte ha sentenziato
che “sarebbe contrario ai principi che
sono alla base della nostra società multiculturale”
considerare le caratteristiche
genetiche dei bambini come qualcosa
che li rende “vittime”, e che “sarebbe
sbagliato permettere a questi bambini di
crescere pensando di soffrire di danni
da compensare finanziariamente”. Una
soluzione di buon senso, quella del giudice,
che non sana l’assurdità originaria
di pratiche come la fecondazione eterologa.
Fondata su una finzione che va difesa
contro tutto e tutti, anche contro chi
viene al mondo in quel modo.
© Copyright Il Foglio 19 ottobre 2010