DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Dalla parte di Dioniso. Di Maurizio Blondet

Come uno scritto di Julius Evola aiuta a capire nel profondo la gnosi di Cacciari

E’ difficile trovare una più chiara, brutale propaganda dell’anomia come «teologia dionisiaca», di quella che Julius Evola proclamò in un testo impressionante pubblicato da «Ignis» (1) nel numero di novembre-dicembre 1925, intitolato appunto «Dioniso».

Evola vi definisce «religioso», in senso spregiativo, l’atteggiamento di chi «creda che il mondo sia retto da un principio di ordine e di bontà»: il contrario della «mia esperienza attuale», che mi presenta «un mondo tutt’altro che ordinato e razionale». Dunque per «ammettere l’esistenza di un mondo provvidenziale», il credente deve supporre «un principio trascendente». Con ciò, il credente deve rimettere «ad altro il suo essere».

E’ infatti da questa credenza in un Essere Trascendente che l’uomo religioso deriva l’obbedienza alla legge morale: con ciò, rinunciando ad essere libero. Perché «non è che una legge, per il fatto di essere ‘interiore’, cessi di essere legge e si trasformi in libertà - se mai, essa esprime una necessità più profonda», (pagina 356).

Evola sta aggredendo ovviamente il Cristianesimo, la «religione-tipo»; ma non solo.

«La legge morale, l’‘Io trascendentale’, la ‘dialettica dello Spirito’, ecc., come concetti che spiegano e quindi annullano, razionalizzano l’irrazionale, sono tanti nomi per il Dio della religione e dell’ottimismo ignavo; sono prodotti dell’identica tendenza ad ‘appoggiarsi a qualcosa’, a consolarsi» (ivi, nota).

Dioniso svelato

Contro e sopra questa fede «ignava», che nascerebbe dalla paura del reale, Evola oppone la «Sapienza dei Misteri». Quella «di chi fissa in viso, senza veli», la realtà «nella sua natura tragica, a-provvidenziale», e «non fugge, non vuole il mondo diverso da quello che è, ma lo vuole assolutamente, infinitamente quello che è».

Evola non riecheggia qui solo la dottrina dell’«Eterno Ritorno» di Nietzsche, che pure cita. «Tale è, diciamolo sin d’ora, la via di Dioniso. [...] Il senso dell’originaria irrazionalità dell’esistenza congiunto a un ‘tenerfermo’, a un non scartare in consolazioni teologiche». Volere indomabilmente il caos, questo è trovarsi «in faccia a Dioniso» (pagina 357). E mentre il punto più alto della religiosità è «concepire Dio come colui in cui possibilità e realtà, libertà e legge, atto e fatto sono una medesima cosa (‘Ego sum qui sum’)», l’uomo dionisiaco afferma che «questo non è affatto il punto più alto».

Anziché esser devoto a quell’Essere Supremo «che semplicemente è», il dionisiaco aspira a farsi «Signore dell’Essere, libero rispetto ad esso, potendo essere e non essere [...] ad arbitrio: non la possibilità identica alla realtà, ma che eccede e domina la realtà».

Si tratta di farsi più che Dio; di diventare «colui che non ha nulla sopra di sé», padrone di una totale «superiorità e indifferenza rispetto a qualsiasi legge o valore» (2), anche a quelli dell’Essere. E qui Evola accredita una versione della caduta dell’uomo che ricava (il che è per lui almeno curioso) da «un testo kabbalistico»: nell’Eden, il primo Adamo ebbe ordine di contentarsi dell’albero della vita. Ma fu tentato a godere dell’«albero del bene e del male», che altro non era che «il superamento dell’essere per il potere di essere e di non-essere».

Una possibilità reale di andare di là da Dio, superarlo, «uccidere Dio»: solo che «a questo atto l’uomo fu insufficiente: lo prese un terrore da cui fu travolto e spezzato. Come [...] circuito
percosso da un potenziale troppo alto, le essenze si, incrinarono, vennero meno (deliquere)».

Il delictum, il peccato originale, non fu dunque l’orgoglio e la ribellione, ma il non averli saputi portare fino in fondo.

«Allora, scatenate da questo terrore, le potenze che dovevano essere serve, immediatamente precipitarono e ghiacciarono in forma di esistenze oggettive e autonome. Sofferta, resa esterna e fuggente a se stessa, la potenza si fece mondo fisico [...]; la libertà, l’apice vertiginoso che avrebbe inaugurato la gloria di un vivere sopra-divino, si fece contingenza dei fenomeni tra i quali l’uomo vaga».

Per l’Evola giovanile, l’autore di una «Teoria dell’Individuo Assoluto», infatti «il mondo fisico è il nostro ‘grande corpo’ congelato dalla categoria del limite attraverso la forma», e perciò posto sotto il segno di Apollo, il dio della forma: ossia della «volontà che si scarica di se stessa ed esteriorandosi, non si vive più come volontà, ma come rappresentazione e conoscenza». Allo stesso modo in cui, in «una paralisi da spavento», il nostro corpo che dominavamo come nostro «si fa cosa rigida, morta, estranea» (pagina 360).

Asceti del crimine

A causa di questa «oggettivazione primordiale della paura» l’uomo è imprigionato nel mondo, ossia dipendente dallo spazio - categoria apollinea, catena del limite - e dalla finalità, il che denuncia ancora la sua dipendenza: per colui che vuole realizzarsi nella via di Dioniso, facendosi superiore a Dio, «il fine non può avere alcun senso, perché al di fuori di sé non ha nulla (né buono, né vero, né giusto o razionale) da cui trarre norma [...] ma buono, vero, ecc., si identificano in ciò che egli vuole, solo perché lo vuole» (pagina 361).

Tuttavia è possibile la redenzione da questa gnostica «caduta» nella materia; la prova dell’Eden può essere ancora tentata dallo gnostico. Come?

«Mediante una volontà che vuole questa caduta sino a fondo, senza terrore e senza sofferenza», risponde Evola (pagina 363). E schizza i rudimenti di una ascetica dionisiaca: si tratta di «mettersi in contatto con l’atrocità originaria (3)di un mondo in cui bene e male […] giusto e ingiusto non hanno alcun senso essendo soltanto potenza, nuda, libera potenza».

Ciò si ottiene «rendendosi sempre più immorali, capaci di fare qualunque cosa [...] senza rimorso» (pagina 365) e, sulla scorta di Nietzsche, «vedendo nella crudeltà e nel male la più alta disciplina». «Il delitto diviene l’atto per eccellenza», «purché l’atto venga vissuto come crudeltà di me su di me, infrazione alla mia legge interiore fondamentale»; fino al suicidio (pagina 367), perché «anche il suicidio (si ricordi quello di Kirillof negli ‘Ossessi’ di Dostojevski) può incorporare questo valore di auto-crudeltà metafisica».

Difatti, «Dioniso si rivela nei momenti di crisi e di crollo delle leggi, nei momenti di colpa: è allora che, squarciato il velo apollineo, l’uomo gioca la partita della sua eterna perdizione o del suo farsi superiore a vita e a morte» (pagina 366), e diventa «non Dio, ma il Signore, il superatore di Dio».

Ciò che trattiene

Se abbiamo tanto a lungo citato questo testo, è perché esso mostra come il Dioniso di Evola sia identico all’Anomos, al Senza-Legge annunciato dal Vangelo secundum Cacciari.

Il filosofo veneziano infatti desidera l’irrompere nel mondo del «Filius perditionis», perché intende perditio («apòleia», da «apòllumi»: slegare, disciogliere) come Evola: «nel senso della piena disintegrazione: l’abbattimento di ogni limite capace di dare forma», di ogni misura apollinea (Cacciari, «Dell’Inìzio», pagina 625).

Ma il testo evoliano mostra anche qualcosa che Cacciari prudentemente sottace: che i seguaci dell’Anomos vogliono instaurare una società in cui «il delitto diviene l’atto per eccellenza»;
desiderano «il crollo delle leggi», l’anarchia e la crudeltà, e il dilagare dell’omicidio nel mondo, fino al finale suicidio nichilistico. E’ la «dottrina sociale» di tutti gli gnostici convinti, durante i secoli, che «la salvezza si lucra attraverso il peccato» (4).

Difatti, tutta l’ostilità di Cacciari si punta non sull’«Anomos» venturo, ma su «ciò che lo trattiene».

San Paolo, nella «Seconda Tessalonicesi», a proposito dell’Anticristo che deve venire, aggiunge «Voi sapete ciò che ora lo trattiene [...] Infatti il mistero d’iniquità è già in atto: c’è solo da attendere che chi lo trattiene (‘katèchon’, in greco) sia tolto di mezzo». Che cosa è il «katèchon»?

Cacciari cita Agostino, che confessa di non saperlo (De Civitate Dei, XX, 19). Egli tuttavia insinua qualcosa: «Il katèchon altro non è che il tempo dell’indugio»... Più avanti, più francamente, dirà: il «katèchon» è la stessa Chiesa, come «prototipo di ogni autentica forma politica» (pagina 632). «Interessa che nella Chiesa si riconosca pienamente la necessità di differire [l’avvento dell’Anticristo e ‘con lui del Giorno del Signore’] e che tale processo sia politicamente-gerarchicamente formato».

Osiamo rendere più esplicita l’obliqua espressione: ciò che trattiene l’Anticristo dalla sua piena manifestazione è l’ordine politico e civile. Tutti gli ordini civili dell’Occidente infatti sono ispirati, lo si voglia o no, al cristianesimo; e sono la traduzione politica della volontà della Chiesa non solo di portare la salvezza agli uomini nell’aldilà dei puri spiriti, ma di instaurare una qualche misura di giustizia nell’aldiquà carnale.

E infatti, dovunque nel mondo che diciamo civile, se ancora «non si tagliano le gole alle fanciulle», se «la vita esige pietà» al contrario di quanto avveniva prima di Cristo, è perché il cristianesimo ha ispirato leggi: codici penali e civili, una dottrina sociale. E in questo che la Chiesa può dichiararsi erede del diritto romano. E non ha rivestito il manto di Roma per usurpazione, ma perché la salvezza che la Chiesa annuncia è Incarnazione: avviene già «di qua». Per questo il Papa Wojtyla, contro ogni gnosi nullificante, ripeteva: «Per noi esistere è meglio che non esistere».

La «caritas», amor di Dio, non è il contrario della giustizia, ma s’incarna nella giustizia terrena: «Non defraudare della mercede l’operaio», e cosi via.

© Copyright Effedieffe.com