Tratto da Il Sussidiario.net l'8 novembre 2010
Da tanti anni mi vado occupando, in modo se vogliamo non del tutto ortodosso, della mia città adottiva, Milano. Dico “non del tutto ortodosso” perché il mio modo di leggere la città prescinde da alcuni temi obbligatori (sicurezza, viabilità, sostenibilità, politica culturale) sui quali si concentra l’attenzione dei politici.
Parole come “sicurezza” e “legalità” strappano ancora numerosi (ma anonimi) applausi in qualsiasi convegno dedicato ai problemi della città. Dal mio punto di vista, invece, l’insistenza sulla sicurezza (tema del tutto estraneo alla storia e al carattere di questa città) è segno di una sorta di disordine culturale, probabilmente indotto.
Il mio osservatorio infatti è diverso. Amo studiare le trasformazioni della mia città in relazione alla consapevolezza che i suoi abitanti ne hanno. Mi spiego. Da molti indizi mi sono reso conto che la “Milano” che i milanesi hanno in testa si situa almeno quindici, vent’anni indietro rispetto a quella reale. Già Bonvesin de la Riva, che nel 1288 scrisse il più bel libro che sia mai stato dedicato a una città, osservava come i milanesi di allora non si rendessero ben conto dello splendore della loro città.
Se provate a chiedere alla gente che immagine ha di luoghi come Vialba, Rozzano, Bovisa o Ponte Lambro, vi giungeranno risposte che si riferiscono a questi luoghi com’erano molti anni fa: zone malfamate, quartieri di ladri, paesi-dormitorio. Ma la realtà di oggi è diversa, occorre però scoprirla. E qui entra in gioco un nuovo fattore, che io chiamo “racconto” (anche se non sono certo di intenderlo allo stesso modo di altri analisti, come Aldo Bonomi).
Milano sta cambiando in modo rapido, e di questo cambiamento noi cittadini percepiamo l’aspetto più immediatamente visibile, come ad esempio la riconversione delle grandi aree industriali dismesse. Lo skyline di Milano è destinato a cambiare, e già ce ne stiamo accorgendo. Ma il cambiamento è molto più vasto e profondo, e la scommessa del presente sta in un aut-aut molto semplice: o i milanesi diventano i protagonisti di questo cambiamento, o sarà un’immensa occasione persa, ben al di là dell’Expo.
Il compito che mi sono prefisso è perciò quello di raccontare e far raccontare pezzi di cambiamento non da giornalisti o narratori occasionali, seppur titolati, ma dalle persone che vivono in prima persona quei cambiamenti, perché sono certo che raccontare sia la prima azione, semplice semplice, con la quale una persona può iniziare a vincere la solitudine. Da questo nasce il progetto “Le nuove meraviglie di Milano”, di cui il libro Milano è una cozza - di cui molto si è parlato in questi mesi - è il primo volume.
La voce delle persone va udita, non basta usarla per elaborare statistiche. Ci sono cose che alle statistiche sfuggono, e precisamente questo: il desiderio di vivere, la resistenza della persona all’invadenza dei poteri (non solo quello politico, ma anche quello dei media, della moda, del politically correct ecc.) e ciò che ciascuno di noi mette in atto, in un momento come questo, “per non essere troppo governato”, come diceva M. Foucault.
Io credo che si possa parlare seriamente solo di ciò che si ama, anche se questa è in realtà la cosa più difficile (ma secondo me difficile vuol dire umano, perché essere bestie è più facile che essere uomini) ed è sempre stato il mio amore per Milano a dettarmi le parole e a cercare di offrirle ad altri, affinché possano raccontare quello che a me è impossibile, ma che ho grande desiderio di conoscere: pezzi di vita milanese non miei, pezzi di una Milano non mia, pezzi di esperienza di altre persone, in modo che tutto questo possa diventare mio.
Questa dinamica di incontro con la città degli altri che io cerco di riprodurre attraverso il racconto è stata quella che ha costruito questa cosa unica, irripetibile e originalissima che chiamiamo Milano: una città edificata non dal potere ma dagli incontri tra persone e culture, e che - non a caso - ha come emblema non un palazzo di qualche famiglia potente, ma quella straordinaria opera comune che è il Duomo di Milano, che è l’edificio più bello del mondo (non lo dico solo io, lo dice anche Etsuro Sotoo, il continuatore dell’opera di Antoni Gaudì alla guida della Sagrada Familia di Barcellona): opera comune, opera di una comunità che abbraccia lo spazio della città intera e un tempo fatto di secoli (dal XIV al XIX).
Se posso esprimere la mia opinione sul problema fondamentale della Milano di oggi, dopo tanti anni di osservazione mi permetto di dire questo: che il problema principale di Milano oggi non è un problema economico né antropologico, ma un problema culturale. Una città che vive “dal basso” ha un rapporto problematico con una società, come quella post-moderna e globalizzata, dove sale di grado chi si dimostra più massificabile, più controllabile, chi si fa meglio interprete di quel “si dice” che è il grande vuoto dei nostri giorni, e che è il prodotto non della gente, ma dei media.
La nostra società tende a creare solitudine, a individualizzare i percorsi urbani, a differenziare gli scopi. La moltiplicazione dell’offerta (e della possibilità di scelta) ha trasformato le città in una rete di percorsi che non si incontrano mai. La gente non si mescola più da nessuna parte, nemmeno in autobus. Tutto questo non ha prodotto libertà, ma una fragilità umana impressionante. Se chiudono un cinema del centro e al suo posto mettono l’ennesimo negozio di abbigliamento, avremo - specialmente la sera - un pezzo di solitudine in più, e la piccola delinquenza avrà un punto di sfogo in più. Se dopo mezzanotte a Milano tutto ciò che puoi trovare sono alcol e droga, perché ristoranti e pizzerie sono chiusi, è segno che la solitudine sta vincendo.
Ora, se Milano fosse una città-fantasma, come certe città immaginate dagli scrittori di fantascienza, ci sarebbe solo da piangere, e buonanotte. Ma Milano è tutto il contrario di una città di anime solitarie! Milano - sia quella del passato sia quella del presente - è tutto un pullulare di esperienze umane interessanti, sia nel lavoro che nell’impegno sociale e civile. Milano produce artisti, musicisti, scrittori, poeti, architetti, fotografi celebri nel mondo, oltre a studiosi e professionisti di altissimo livello. La sua generosità è tutt’altro che morta.
Eppure, come mai questa forza presente e operante sembra inefficace di fronte allo svilimento, alla mancanza di coesione e di connessione che tutti constatiamo? Perché una forza umana così consistente non è in grado, per adesso, di presidiare la città, di porre il proprio segno dominante? Perché le notti sono così infide e solitarie? Perché tanti soldi sporchi, che in modo così visibilmente massiccio stanno invadendo Milano? Perché Milano è diventato un centro per la ripulitura del denaro?
E, d’altro lato: perché i responsabili delle fondazioni bancarie e degli enti e delle aziende maggiori, che tanto a cuore hanno il destino sociale del territorio parlano spesso di “sostenibilità” e “intercettazione dei bisogni”, ma poi nei fatti non sembrano in grado di incidere su questa situazione?
Secondo me la ragione è culturale, è un problema di conoscenza: i milanesi, e soprattutto coloro che dovrebbero promuovere la città dal punto di vista sociale, in realtà non sanno niente della città, non si mettono a studiarla daccapo, i politici vanno in giro per la città solo quando c’è da rastrellare voti e consensi, e dicono sempre tutti le stesse cose con le stesse parole, come se il problema fosse quello di recitare un copioncino mandato a memoria.
In altre parole: chi ha responsabilità non solo istituzionale nel governo della città deve far la fatica di conoscerla, di incontrarla, lasciar perdere per un momento le statistiche, i prospetti e le percentuali (che sono utili, ma non sono tutto) e muovere i piedi, dimostrando alla città quella che è l’unica dote culturale indispensabile, che non è l’erudizione e nemmeno un solido apparato ideale, ma soltanto la curiosità, la voglia di imbattersi nell’inaspettato.
Io non so chi sarà il nuovo sindaco di Milano. Voglio però ricordare quello che serve per essere un buon sindaco, ed è una cosa sola: amare Milano. Al resto ci possono pensare i tecnici e i membri della “squadra”, ma un sindaco è qualcosa di diverso da un premier o da un parlamentare, e non è innanzitutto un uomo politico: è una presenza umana forte, che sia in grado di amare la città con forza, determinazione e coraggio. Se un sindaco ama la sua città, non ha paura di prendere decisioni anche impopolari, perché al centro di tutto ci sarà il rapporto con la città, non le decisioni in sé.
Se il sindaco è una presenza umana importante, il cittadino è molto più disposto a fare sacrifici, perché si sente parte di un’opera comune. In caso contrario, il sindaco sarà tutto concentrato a mantenersi ben attaccato alla cadrega, sarà compiacente con i potenti, e cercherà di evitare i conflitti in modo che tutto continui a funzionare come sempre, ossia a invecchiare, a perdere senso, a vivere sugli allori del passato, bloccando così lo sviluppo sociale, economico e culturale di Milano. Che Dio non lo voglia.