DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Faccia a faccia con sorella morte

di Sergio Belardinelli


Tratto da cronache di Liberal del 22 gennaio 2011

Conosco un farmacista che, mentre lavora, a suo modo, per il mantenimento della salute degli uomini, ironizza continuamente sulla loro salvezza.

Vederlo all'opera, mentre con consumato sussiego distribuisce ai suoi clienti sacchetti pieni di medicine, maneggia i soldi dentro il cassetto o sistema le ricette, è già un'emozione. Ma ascoltare le domande che pone nell'esercizio di queste sue funzioni rappresenta un'esperienza degna di Gogol. Tra lo stupore dei presenti, per lo più anziani, assorti ciascuno sui propri acciacchi, Arturo (chiamiamolo così) si guarda intorno, guarda lontano, magari verso di me che sono appena entrato in farmacia, e domanda: «Dico a voi: esiste la vita eterna?»; «E l'anima? Che cos'è l'anima?»; «E l'inferno e il paradiso dove stanno?». Sarà per il modo in cui vengono poste, ineffabile e inopportuno insieme, o forse per la suggestione dell'ambiente, i cui vasi e alambicchi evocano una scienza antica, parente dell'alchimia, nonché un po' ostile a ciò che sa di religione, sta di fatto che le domande di Arturo suonano in realtà come subdole sentenze, rese ancora più urticanti dal fatto che il nostro farmacista mai oserebbe perdersi una messa. Al confronto, la perfidia dei farisei che domandano a Gesù di chi sarà moglie nel regno di Dio la donna che in vita è stata sposa di sette fratelli è roba da bambini. Eppure, ciò nonostante, questa farmacia sembra una sorta di accademia moderna, dove ignari clienti hanno la ventura di trovarsi coinvolti in conversazioni, bislacche quanto si vuole, ma su argomenti che interessano per davvero: l'immortalità dell'anima, la vita dopo la morte, il paradiso, l'inferno. Se vi aggiungiamo il sesso e la famiglia, ci sono forse argomenti che interessano di più?

Una volta di tutti questi problemi parlava incessantemente la Chiesa. Ma oggi, persino in chiesa, dei problemi di Arturo si parla pochissimo. Le omelie si affidano più alla sociologia che alla teologia, più ai problemi di questo mondo che a quelli dell'altro. L'aldilà diventa così una specie di luogo immaginario dove semplicemente proiettiamo il nostro aldiquà: luci bianche e musica celestiale, tenebra e stridore di denti; immagini tratte forse dalla nostra fede cristiana, ma certo anche fuorvianti rispetto a ciò che di essenziale la fede ci dice in proposito. Nell'aldilà, infatti, vedremo finalmente Dio come egli è. Saremo faccia a faccia con lui. Il dialogo, il più delle volte faticoso, che però dura da sempre, tra Dio e gli uomini, troverà il suo compimento. Risplenderemo nell'eternità di Dio e lo faremo, non come uomini dimezzati, come anime separate dai corpi, ma come uomini nuovi. L'uomo vecchio che siamo stati sarà lo stesso che, guardando Dio, scoprirà la novità della propria natura immortale; scoprirà che la morte non è l'ultima parola, ma il nuovo inizio, il compimento, la risurrezione, l'ingresso definitivo nel regno vendi Dio dal quale ognuno di noi proviene, amato da sempre nella propria irripetibile unicità. Forse le domande di Arturo sull'aldilà sono così insidiose perché fanno conto sul fatto che, di solito, anziché trarre ispirazione dal «regno di Dio» per interpretare il nostro, assumiamo il nostro regno come misura di quello di Dio; pensiamo quest'ultimo come un luogo qualsiasi e l'eternità come una sorta di prolungamento del tempo, per esorcizzare magari la nostra paura della morte. Ma l'aldilà, il regno «che non è di questo mondo», non è una semplice raffigurazione consolatoria fuori del tempo e della storia; è piuttosto la sola condizione che rende l'aldiquà vivibile e degno di essere vissuto. Quanto all'inferno e al paradiso, essi non sono luoghi geografici, ma due dimensioni realissime della nostra persona, del nostro essere uomini, diciamo pure, della nostra anima, se la intendiamo come ciò che ci fa essere ciò che siamo. L'inferno è la solitudine, la nostra ostinata determinazione a bastare a noi stessi; il paradiso è invece lo stato di grazia di chi, sentendosi amato, si sente a sua volta capace di amare. Mi rendo conto che sto semplificando parecchio, ma di certo in questa prospettiva le domande di Arturo diventano meno insidiose. La morte e la sofferenza di questa vita non cessano per questo di essere uno scandalo, né ven gono purtroppo eliminate; acquistano però un senso che ci aiuta ad accettarle e a condividerle, senza rimuoverle; un senso che le include in un universo simbolico che dà preminenza alla vita, che commisura ciò che siamo e facciamo a una vita che non finisce mai, esaltandone in questo modo, non soltanto la serietà, ma anche la bellezza. Ovviamente tutti temiamo la morte, ma, parafrasando un passo dello Zibaldone leopardiano, si potrebbe dire addirittura che più di tutti la temono coloro che non trovano ragioni sufficienti per vivere. E chissà che non sia questo il vero motivo per cui oggi ci affanniamo tanto a rimuoverla. Come dice Leopardi, «gli antichi, vivendo, non temevano il morire»; siamo noi, i «moderni», che invece «non vivendo, lo temono».

Guardare in faccia la morte è stato per secoli un gesto virile, forse l'ultimo gesto virile anche per le vite più umili. La «buona morte» coincideva con una morte consapevole, una morte da vivi; morire «vecchi e sazi di giorni», come Giobbe, costituiva la speranza di molti. Oggi l'ideale sembrerebbe quello di morire senza accorgercene, all'improvviso, magari sotto anestesia. Niente di strano dunque che questa mentalità da «anime morte» manifesti così poco interesse per le anime dei morti o per la vita dopo la morte. Preferiamo considerare questi temi come irrazionali, riducendoli ironicamente e strumentalmente alle ingenue cosmologie del passato, che prevedevano il paradiso «sopra», la terra in mezzo e l'inferno «sotto». È pur vero, però, che la realtà, fosse anche attraverso le insidiose domande di Arturo, continua incessantemente a interpellarci sul senso della vita e della morte, della gioia e della sofferenza; non si rassegna; ci costringe a pensare. «Hai trasformato questo antico luogo eretico in un volgare luogo erotico»: questo il rimprovero che Arturo si è sentito rivolgere spesso da un suo vecchio amico, nostalgico dei bei tempi in cui in farmacia si parlava soprattutto contro il papa e contro i preti e infastidito dal triviale disimpegno dei discorsi a sfondo sessuale che pare si facciano sempre più frequenti. Qualche volta, si sa, persino il paradiso viene associato a esperienze molto «carnali». E nella farmacia di Arturo in questo senso non si fanno eccezioni, anzi. Non è questo tuttavia il vero motivo per cui anch'io definirei questa farmacia un «luogo erotico». Se lo è (e lo è), è perché, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, il nostro Arturo, che di donne proprio non capisce nulla, è però animato davvero dall'eros. La sua profonda timidezza, il suo timore di far male anche solo a una mosca, la sua difficoltà a trattare le cose più elementari di questo mondo (a eccezione delle ricette) sono diventati col tempo il propellente di un'autentica passione per le cose ultime. E quando domanda dove stanno l'inferno e il paradiso, mi piace pensare che Arturo conosca meglio di tutti la risposta migliore.