Silenzio e compostezza, con tratti di apparente indifferenza. Davanti alla catastrofe la mente giapponese reagisce così. Gli appelli a mantenere la calma diffusi ieri in televisione subito dopo il sisma dal primo ministro, Naoto Kan, rispondono a lodevoli cautele protocollari, ma valgono tutt’al più come un blando coadiuvante psicologico, perché di fronte al disastro la calma non manca mai di confermarsi cifra spontanea della condotta nipponica. In essa si condensano il profondo retaggio di una severa disciplina sociale e il distacco di un popolo educato alla calamità dall’impetuosa e splendida terra in cui vive. Chi è riuscito a comunicare da Tokyo ha raccontato di grandi ingorghi, ma scorrevoli, di auto e pedoni. I treni su cui si muovono i pendolari, a milioni ogni giorno, sono fermi e così è necessario capire come tornare a casa. I commissariati sono pieni di persone che chiedono come affrontare a piedi quel tragitto che ogni giorno percorrono in treno.
Le caratteristiche dell’arcipelago, con il suo imponente sistema vulcanico, la duplice esposizione ai venti oceanici e a quelli continentali, la stessa ubicazione al margine estremo delle terre emerse – un’invalicabile frontiera sul vuoto fatto oceano – hanno contribuito a imprimere nell’animo della popolazione giapponese vivida coscienza della precarietà (anche per questo, forse, il Giappone è l’unico paese industrializzato in cui la costruzione di una casa non ha mai perso il carattere di un provvisorio accamparsi). E se non è la sola terra a misurarsi tanto spesso con il volto meno benevolo della natura, l’arcipelago nipponico è probabilmente quello che ne ha realizzata la più profonda trascrizione all’interno del proprio sistema culturale.
Nell’individuo e nella società giapponese vivono fianco a fianco un partecipe culto della natura e un freddo fenomenismo naturalistico. Com’è noto, ogni manifestazione della cultura nipponica presenta, anche in epoca postmoderna, incessanti rimandi alla realtà naturale, e in particolare alla vicenda delle stagioni, cioè al divenire della natura. L’atteggiamento con cui la mente giapponese si relaziona a tale divenire è improntato a un operoso fatalismo; in un orizzonte concettuale privo di particolari sporgenze metafisiche, essa si muove su un doppio binario: da un lato un pragmatismo a forte connotazione sociale, dall’altro una sommessa rassegnazione al corso degli eventi naturali. Così accanto all’intervento operativo, pianificato, meticoloso e disciplinato e rivolto pressoché esclusivamente al ripristino dei meccanismi produttivi, ha luogo un processo di razionalizzazione dell’ineluttabile, che immancabilmente approda al capolinea dello “shikataganai”, “non ci si può fare nulla”, la frase/pensiero con cui ogni giapponese riesce a disarmare qualsiasi situazione di scacco. Il trait d’union di questi due volti è la calma compostezza che anche in queste ore sta dominando le sconquassate vie di Tokyo e dintorni.
Le caratteristiche dell’arcipelago, con il suo imponente sistema vulcanico, la duplice esposizione ai venti oceanici e a quelli continentali, la stessa ubicazione al margine estremo delle terre emerse – un’invalicabile frontiera sul vuoto fatto oceano – hanno contribuito a imprimere nell’animo della popolazione giapponese vivida coscienza della precarietà (anche per questo, forse, il Giappone è l’unico paese industrializzato in cui la costruzione di una casa non ha mai perso il carattere di un provvisorio accamparsi). E se non è la sola terra a misurarsi tanto spesso con il volto meno benevolo della natura, l’arcipelago nipponico è probabilmente quello che ne ha realizzata la più profonda trascrizione all’interno del proprio sistema culturale.
Nell’individuo e nella società giapponese vivono fianco a fianco un partecipe culto della natura e un freddo fenomenismo naturalistico. Com’è noto, ogni manifestazione della cultura nipponica presenta, anche in epoca postmoderna, incessanti rimandi alla realtà naturale, e in particolare alla vicenda delle stagioni, cioè al divenire della natura. L’atteggiamento con cui la mente giapponese si relaziona a tale divenire è improntato a un operoso fatalismo; in un orizzonte concettuale privo di particolari sporgenze metafisiche, essa si muove su un doppio binario: da un lato un pragmatismo a forte connotazione sociale, dall’altro una sommessa rassegnazione al corso degli eventi naturali. Così accanto all’intervento operativo, pianificato, meticoloso e disciplinato e rivolto pressoché esclusivamente al ripristino dei meccanismi produttivi, ha luogo un processo di razionalizzazione dell’ineluttabile, che immancabilmente approda al capolinea dello “shikataganai”, “non ci si può fare nulla”, la frase/pensiero con cui ogni giapponese riesce a disarmare qualsiasi situazione di scacco. Il trait d’union di questi due volti è la calma compostezza che anche in queste ore sta dominando le sconquassate vie di Tokyo e dintorni.