L’intervento si propone come un primo e provvisorio contributo al progetto elaborato da Markus Vinzent e Allen Brent su: “Epigrafia ed Iconografia paleocristiane: un nuovo approccio al progetto classico di Dölger”. L’intento di questo percorso è naturalmente quello di una rilettura critica della prassi epigrafica e della produzione figurativa di committenza cristiana alla luce di quanto intervenuto nell’ambito delle ricerche specifiche e delle relative acquisizioni storiografica, nel corso dei settant’anni trascorsi dalla morte del grande studioso di Sulzbach. Nella proposta di Brent e Vinzent c’è l’espresso invito alla elaborazione e/o alla sperimentazione “di un nuovo approccio”.
E ciò vuol significare anche una verifica (che può produrre conferme o modifiche) di una straordinaria mole di acquisizioni, quelle appunto maturate da Franz Joseph Dölger (1879-1940), che nelle loro istanze di fondo, non possono considerarsi “superate”, ma anzi – proprio per la loro ancora oggi stimolante problematicità – legittimano un confronto, nuovi approfondimenti e riflessioni. L’attualità del Dölger-pensiero consiste non solo e non soltanto nelle molteplici soluzioni raggiunte, nei nodi sciolti per molti momenti e aspetti del cristianesimo antico, ma anche e soprattutto nella vastità e nello spessore dei problemi affrontati, non tutti compiutamente risolti e comunque suscettibili di approfondimenti e nuove riflessioni.
Le testimonianze epigrafiche e figurative per Dölger – in seguito soprattutto ai suoi soggiorni a Roma dal 1908 al 1913 e poi nel 1914 – 1915 – si configurarono come “indicatori” fondamentali per la ricostruzione, come egli diceva, “di una storia culturale del primitivo cristianesimo, con speciale attenzione alle sue relazioni con il mondo circostante”. Quest’ultimo aspetto è quello nevralgico e caratterizzante della ricerca di Dölger che egli stesso condensò nel mille volte citato concetto storiografico dell’Auseinendersetzung zwischen Antike und Christentum (Confronto tra mondo antico e cristianesimo).
Rispetto agli anni in cui si svolse l’attività di Dölger. oggi vi è stato indubbiamente un notevole incremento di conoscenze, dovuto soprattutto a nuove scoperte (basti pensare ad un eccezionale monumento come quello della catacomba della via Latina, che ovviamente Dölger non poteva conoscere); ma c’è stato anche una crescita sul piano metodologico, che tra l’altro ha contribuito – anche se non sempre e dovunque – al ridimensionamento del cosiddetto “metodo teologico-regressivo”, con il quale peraltro lo stesso Dölger si era già trovato a confrontarsi ed anche a scontrarsi. Anch’egli – come altri studiosi – già all’indomani della sua ordinazione sacerdotale (1902, a 23 anni), fu guardato con sospetto dalla autorità ecclesiastica come “rivoluzionario” e “cattolico riformista”, in una parola “modernista”.
Il suo approccio in effetti entrava in conflitto con convinzioni, non di rado più ideologiche che scientifiche, radicate e difese a oltranza specie negli ambienti ecclesiastici più conservativi. Vi furono per esempio reazioni pesanti in seguito alla pubblicazione dello studio Der Taufexorcismus im christlichen Altertum. Eine religiongeschichtliche Studie (1909). Va però riconosciuto che proprio a Roma – un ambiente non propriamente aperto alle linee di ricerche da lui perseguite – Dölger trovò accoglienza, benevolenza e aiuto da parte di una figura di mecenate di alto livello come monsignor Antonio de Waal, presso quell’isola felice che a quel tempo era il Camposanto Teutonico in Vaticano (qui soggiornò anche un altro “rivoluzionario” come Paolo Styger).
Verso il termine della sua vita, come è ben noto, Dölger, con il consenso di Hans Lietzmann, elaborò il progetto di una grande opera tuttora in corso: il Reallexikon für Antike und Christentum. Ma qui non si vuole riproporre una biografia di Dölger: c’è per questo la biografia (ufficiale) di Theodor Klauser, il più grande dei suoi allievi e continuatori.
Tra i tanti temi affrontati in oltre 35 anni di attività da Dölger, quello che più di ogni altro può essere richiamato come vera e propria sfragìs del suo metodo di indagine è certamente quello dell’immagine del pesce e delle sue diverse connessioni e interazioni con altri soggetti figurativi e in primo luogo con l’àncora nell’ambito della prassi epigrafica. Una ricerca capillare che assorbì molti anni della sua attività, condensata in cinque ricchissimi volumi contrassegnati non a caso con la titolatura ICHTYHYS quali il quinto, che ha come sottotitolo Testimonianze del pesce nella plastica nella pittura e nelle arti minori paleocristiane (1943 [1957]) raccoglie e discute, in maniera sistematica, una vera e propria miniera di documentazione. Un’opera di grande spessore – anche sul piano materiale (circa 800 pagine) – che nella sua complessità continua a proporsi come un laboratorio, tuttora aperto.
L’approccio metodologico, espressamente dichiarato, che guida le sue indagini sulla produzione figurativa come diretto indotto di una storia culturale, si può così condensare: un soggetto figurativo (come appunto il pesce e l’àncora) non può apoditticamente ritenersi specificamente cristiano – e ciò soprattutto per i primi tre secoli – fin quando possa essere spiegato alla luce di consimili testimonianze pagane o come rappresentazione di aspetti della comune vita civile ivi compresi quelli delle pratiche funerarie; e qui emerge anche con chiarezza il ruolo riservato da Dölger al concetto di realien, alle realtà effettuali, alle nozioni positive.
Egli prende le distanze dalle letture autoreferenziali e soprattutto dall’invasivo cono d’ombra dell’interpretazione “teologica”, che spesso peraltro conduceva a esiti anacronistici con la tendenza ad attribuire a consapevole iniziativa cristiana la formazione genetica di determinati soggetti figurativi (qui sta il nocciolo della questione). L’attenzione di Dölger si rivolgeva al Sitz im Leben, diremmo oggi “vissuto religioso”, che non sempre corrispondeva al “prescritto religioso”. Le dinamiche implicite nella “tensione” prescritto/vissuto potevano trovare specchio di rifrazione anche nella documentazione figurativa che più direttamente veicolava gli usi, le abitudini, i retaggi, le tradizioni di un cristianità vissuta.
Di un approccio dialettico come quello perseguito dallo studioso non vi è traccia alcuna nell’unica opera, espressamente dedicata alla immagine del pesce, che precede quella di Dölger di oltre mezzo secolo. È il saggio De christianis monumentis ichtyn exhibentibus corredato da un elenco di 75 iscrizioni con il pesce e / con la scritta Ichthys (pp. 545 – 576), pubblicato in forma di epistola nel 1855 nello Spicilegium Solesmense, su espressa richiesta del monaco benedettino Giovanni Battista Pitra (1812-1889) poi cardinale e bibliotecario di Santa Romana Chiesa.
La ratio di fondo, nelle intenzioni del committente, cioè il Pitra, e dello stesso de Rossi, era in definitiva quella di “confermare” attraverso la documentazione figurativa, quanto era stato elaborato dal pensiero cristiano sul simbolismo del pesce. Nel pesce, o nel termine che lo definiva (Ichthys), il de Rossi, riconosceva pregiudizialmente quasi christianae professionis tesseram. Sicché questo soggetto figurativo finiva per diventare per se stesso “fossile guida” di una specificità cristiana (il sensus arcanus del de Rossi), con la conseguenza di considerare come cristiane numerose testimonianze che senza alcun dubbio cristiane non sono.
È evidente in questo approccio la funzione strumentalmente “ancillare” riservata alla documentazione epigrafica e, implicitamente, la concezione di una vera e propria gerarchia delle fonti, priva naturalmente di qualsiasi fondamento. Il lavoro di Dölger contribuì in maniera sostanziale a rovesciare la prospettiva di de Rossi.
Si può, allo stato attuale, ritenere che tra la fine del II e l’ inizio III secolo comincia a diffondersi con sorprendente rapidità un apparato figurativo, in precedenza sostanzialmente ignoto, costituito dal pesce, dal connubio pesce-àncora in diverse articolazioni compositive, e – molto più frequentemente di quanto non si creda – della sola àncora, alla quale lo stesso Dölger non aveva dedicato particolare attenzione, se non nelle sue interazioni con il pesce.
E a questo proposito Josef Engemann nella voce “Fisch” del Reallexikon für Antike und Christentum (VII, Stuttgart 1969, coll. 959 – 1097) giustamente osservava che, nell’ambito degli studi (da de Rossi in poi non escluso lo stesso Dölger), la sopravvalutazione dell’immagine del pesce aveva di fatto lasciato nell’ombra quella dell’àncora. Questa giusta osservazione di Engemann non ebbe eco alcuna nemmeno nello stesso Reallexikon, come si evince dalla voce dalla brevissima e quasi affrettata voce “Anker” redatta da Paul Stumpf (I, Stuttgart 1950, coll. 440 – 443).
Il maggiore e quasi esclusivo bacino di utenza di questi moduli figurativi è certamente Roma. Per esporre in sintesi il complesso dei documenti che costituiscono la base del nostro intervento, è forse ancora utile ricorrere al più chiaro (anche se in apparenza elementare) dei sistemi, quello dei quesiti. Non prima di ricordare che le nostre testimonianze sono integralmente riprese dagli apparati figurativi dell’epigrafia funerario: una scelta peraltro obbligata perché – almeno per tutta l’età precostantiniana – è questo sostanzialmente l’ambito pressoché esclusivo in cui furono utilizzati il pesce e l’àncora.
Le immagini del pesce e dell’àncora, nella documentazione disponibile, sono una caratteristica quasi esclusiva della prassi epigrafica di Roma. Queste sono le frequenze di uso, in gran parte desunte dall’edizione delle Inscrptiones Christianae Urbis Romae 130 esemplari del pesce: 38 volte unito all’àncora, 16 volte ad altri soggetti figurativi. 20 esemplari in cui il pesce è rappresentato in forma verbale, sempre con il termine greco, in un caso traslitterato in latino (Carletti 1999, p. 17 n. 3). 550 circa esemplari dell’àncora.
I contesti di provenienza sono, pressoché esclusivamente, quelli dei nuclei originari delle catacombe, vale a dire ambienti funerari sorti tra l’inizio e la seconda metà del III secolo. La diffusione delle due immagini fin dalle origini è testimoniata quasi sistematicamente in tutti gli insediamenti precostantiniani.