Grazie a Il Sussidiario.net, e alla segnalazione di Francesca, pubblichiamo la relazione che Carlo Wolfsgruber, rettore della Fondazione Vasilij Grossman (Milano) ha tenuto, sabato 19 febbraio al convegno La conoscenza nella scuola, organizzato dall’Associazione culturale Il Rischio Educativo e dalla Fondazione per la Sussidiarietà.
di Carlo Wolfsgruber
Svolgerò le mie riflessioni ponendo e commentando tre domande.
1. Siamo in grado, noi adulti, di educare, ovvero di generare altri adulti, cioè uomini che si interessino veramente alla realtà?
Adulto infatti è colui che è interessato - fino a sentirsene interpellato - da tutto ciò che c’è; non come il bambino che tende ad interessarsi solamente a ciò che risponde ai suoi immediati bisogni. È questa la sfida, forse la più drammatica, di fronte alla quale ci troviamo ogni volta che entriamo in classe. Se non la accettassimo, incolpando come tante volte facciamo la cattiveria dei tempi o il presunto degrado delle generazioni, noi consegneremmo i giovani al nichilismo dominante (più pratico che teorico, ma anche teorico), quello che, mentre è tutto teso ad usare ansiosamente del reale, gli nega il suo valore di segno. Lo svuota di ciò che, come madre, il reale porta nelle sue viscere: l’essere. Non horruisti Virginis uterum (Te Deum).
Tutti noi sappiamo molto bene che nel rapporto con il reale l’esperienza dell’essere implica quella di una irriducibile positività del reale stesso: il reale è positivo in quanto c’è, prima di ogni giudizio sul come. Quando non è così, la realtà fa paura perché è un continente ignoto, al di là delle colonne d’Ercole della nostra misura, al di là delle possibilità di uso immediato che ne avessimo. Ed è proprio tale paura ciò che viene normalmente mascherato dalla apatia - che è sempre violenza - carica di distrazione (evagatio mentis che Tommaso individua come una delle caratteristiche - prima di tutte la desperatio - dell’accidia) che caratterizza tanti nostri giovani e non più giovani.
Cortes, Magellano, Cristoforo Colombo: la positività del reale, come posizione culturale, permette loro il viaggio verso l’ignoto, fino al punto di bruciarsi le navi alle spalle. Vale la pena di “farsi carico” del nuovo.
All’opposto, «Prima /del viaggio si è tranquilli ma si sospetta che / il saggio non si muova e che il piacere / di ritornare costi uno sproposito. / E poi si parte e tutto è OK e tutto / è per il meglio e inutile» (Montale).
Solo se noi accettiamo la sfida educativa, solo allora ci accorgiamo che il migliore nostro alleato è l’io del giovane; e questo è un inequivocabile test. L’uomo è quel livello della natura in cui la natura dice: “io” e il potere - nemico dell’uomo -, qualunque potere proprio di questo “io” ha timore. Tanti genitori e tanti docenti sono purtroppo accomunati dalla paura che il giovane dica “io”; e più ne parlano e più ne hanno paura e non sanno che cosa fare: quello che già sanno non basta, né basta la psicologia. Quanto tempo dovrà passare perché se ne accorgano?
È questo “io” che va riconosciuto, interpellato e sfidato, a partire dalla sua ragione. Che è esigenza energica di nessi, cioè di significato, perché il significato di una cosa è dato dal suo rapporto con tutti i fattori che la riguardano e dalla sua funzionalità ad essi.
Così la ragione dell’uomo - sospinta da quella curiosità che si esprime nella domanda: perché? - irriducibilmente cerca il significato, senza accontentarsi di risposte parziali, cioè provvisorie.
Veramente la ragione umana nella sua semplicità originale è profezia dell’attrattiva vincente (la delectatio victrix) del Vero e dell’Uno!
Il dovere primo di un insegnante - che voglia essere educatore, non prima, non dopo, non accanto al suo insegnamento - è innanzitutto quello di essere uomo, cioè di non dare per scontato il punto infuocato della propria umanità: il suo soggetto stesso, capire che cosa esso è ed averne continuamente rinnovata consapevolezza.
Solo così potrà riconoscere e sfidare l’io del giovane nel percorso dell’autocoscienza, che resta comunque lo scopo ultimo della scuola - luogo educativo. Non, innanzitutto, competenze e abilità (che pure non possiamo sottovalutare), ma l’autocoscienza.
È la vecchia disputa tra Platone e Isocrate (ferocemente contestato anche da Aristotele) sulla natura e il valore della paideia: se essa sia la ricerca del vero (cioè l’autocoscienza) - astratta e inutile, sosteneva Isocrate - oppure se sia la competenza e l’abilità, ben più concrete e utili (anche se - guarda caso - non adatte a tutti). Sembra che la scuola di Isocrate fosse ben più frequentata di quella di Platone...
2. Ma può un uomo aiutare un altro uomo se non per qualcosa che già c’è in sé?
È nel fenomeno della conoscenza che l’uomo si accorge, mentre ne fa esperienza, della propria ragione, della propria affezione e della propria libertà. La conoscenza è sempre la scoperta di una “cosa” reale e nuova, è quella presa di possesso - coscienza - di cui parla il Salmo 8; per sua natura essa non si arresta, si apre alla conoscenza di altro; e, ad ogni passo - ognuno in nesso con l’altro -, subisco quel contraccolpo affettivo in cui prendo sempre più consapevolezza del mio essere nella realtà - non c’è separazione tra io e realtà -, del mio bisogno di essere (non mi faccio da solo), del mio compito nella realtà di fronte all’essere.
Perché questa continua palingenesi - nuovo inizio - accada a scuola, nell’esperienza dei ragazzi e del docente, occorre che l’oggetto della conoscenza proposta al ragazzo non sia ultimamente la disciplina, ma la realtà. Eppure tale dinamica conoscitiva accade tutta attraverso la disciplina; occorre allora che il docente abbia profonda consapevolezza del nesso che intercorre tra la propria disciplina e la realtà ed esperienza consapevole di che cosa sia l’entusiasmo per la realtà totale, senza del quale la passione per il particolare e per la propria materia assomiglia moltissimo ad una fissazione.
L’insegnante entra in classe certamente ricco del suo sapere - se non sapesse, perché non studia ciò che dovrebbe insegnare, rovinerebbe lo scopo per cui entra in quella classe -, ma offre il proprio sapere ai suoi studenti innanzitutto perché quel sapere prenda vita in sé, alimentando così negli altri - quasi senza accorgersi, per osmosi - lo studium (vagliami il lungo studio e il grande amore: endiadi) di un particolare della realtà, non fine a se stesso (cioè ultimamente all’amor proprio di chi sa), ma perché in quel particolare si riflette la positività e la bellezza dell’essere, cioè della realtà totale.
La lezione - frontale o non -, la verifica, in particolare il tema diventano così un dialogo ricco di domande: qui inizia il vero coinvolgimento intellettuale ed affettivo tra docente e allievi.
Sto parlando non tanto e non solo delle domande che fanno gli allievi (anche se non ne sto sottovalutando l’importanza), ma è l’insegnante che sa come, e quando, fare le domande, quelle tipiche di chi, nell’azione che compie, è libero dal particolare, perché respira nell’orizzonte più vasto del significato: Di che cosa si tratta? Cosa stiamo facendo? Cosa sappiamo su questo punto? Cosa non sappiamo? Perché lo affrontiamo? Quali esiti ci aspettiamo?
Non domande generiche - “che cosa è la libertà” - che lasciano il ragazzo in balia di quello che sente - a questo proposito, bisognerebbe leggere i saggi di Flannery O’Connor -, e neanche finte domande, domande retoriche e inquisitorie, ma domande che sono offerte alla coscienza e alla libertà dell’altro per aiutarlo ad intravvederne la risposta nella propria esperienza. Incomincia così a costituirsi un soggetto autonomo e critico ed è questa la strada della cosiddetta re-invenzione guidata (H. Freudenthal).
In tal modo, più facilmente salviamo noi stessi, oltre che dalla volgarità di un certo “concreto” (rifiuto - che inizia con il “dare per scontato” - di un ideale più grande della sommatoria delle nostre reazioni, dei nostri pareri, dei nostri progetti, dei nostri ruoli e anche dei nostri studi); ci salviamo anche dal pericolo di non comunicare ai nostri allievi la gioia del conoscere che è sempre anche gioia dello stare insieme (Rigotti).
3. Si può insegnare introducendo i propri allievi alla conoscenza di qualcosa senza covare in sé una attesa del nuovo?
«Si conosce solo per avvenimento» (Finkielkraut). Conoscere inizia soltanto laddove l’uomo si trova di fronte a un nuovo, a qualcosa di reale, di non costruito da sé, di altro da sé.
Facendo nostra questa affermazione ci situiamo in opposizione a Petrarca - il vero “padre” della mentalità moderna - il quale, in una sua lettera al monaco benedettino Pierre Bersuire, scrive: «A chi è esperto di ogni cosa non accade nulla di nuovo e [perciò] nulla di spaventevole» (Familiares 22). Facendo nostra questa affermazione diamo però ragione all’esperienza nostra, in cui si fa trasparente che «è una irruzione del nuovo ciò che rompe gli ingranaggi [la gabbia del già saputo, delle definizioni già date], ciò che mette in moto il processo» (Finkielkraut) di conoscenza.
D’altra parte, l’uomo che sta percorrendo un cammino conoscitivo sa molto bene che «c’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico» (Pascoli): la vera novità, pur essendo imprevista, perché imprevedibile, risponde sempre a un’attesa - non ad una immagine - che da tempo cova nel proprio animo.
Perciò la risposta a questa terza domanda è sì, se uno riduce il suo compito a quello di divulgatore, che si limita - e vuole limitare - alla descrizione e alla classificazione.
Esiste una grande differenza tra l’insegnante come ricercatore del Vero (e dell’Uno) e l’insegnante come colui che “spezza il pane della scienza” ai suoi studenti.
Non si può dare lo stesso peso a Lavoisier, a Proust e a Dalton: tutti sono stati, in qualche modo, fondatori della Chimica (facendole fare il salto dall’alchimia al suo assetto moderno), ma Dalton non si è limitato ad osservare e a descrivere la realtà, si è impegnato fino a formulare un’ipotesi sul perché delle Leggi ponderali: ha rischiato l’ipotesi atomica (prima di lui avevano parlato di atomi solo filosofi e poeti) permettendoci di scoprire così aspetti e dimensioni della realtà che immediatamente si nascondono alla nostra osservazione e che però spiegano ciò che noi osserviamo.
Ripetendo quello che già si sa si induce inevitabilmente nello studente la coscienza di una mancanza, di un vuoto che deve essere riempito, di un’assenza. Proprio su questa assenza si innesta il “potere” di chi dovrebbe educare. Altro che autonomia, altro che criticità: il riconoscimento della dignità del giovane, pur ripetuto come discorso, resta divaricato dall’atteggiamento reale dell’educatore.
Ma per dare credito alla ragione e alla libertà dell’altro, quanta pazienza occorre! Occorre quella pazienza di chi non si dimentica di come ha fatto lui a capire quello che sa, di chi ha più volte ripercorso la storia della propria disciplina, ma poi - più profondamente - di chi ha un sentimento di consanguineità verso i suoi allievi; abbiamo lo stesso sangue blu, partecipiamo dello stesso essere, noi e le persone che abbiamo di fronte e questa consapevolezza può palesarsi in noi come instancabile ricerca e instancabile adesione alla loro categorialità.
«L’insegnamento, da qualsiasi punto di vista lo si prenda, è sempre un paragone tra noi e l’infinito [l’essere di cui stiamo parlando]: paragone con l’infinito in quanto costitutivo del nostro io; paragone con l’infinito in quanto costitutivo dell’emergenza effimera e contingente del fenomeno che è segno; paragone con l’infinito nella presenza della libertà dell’altro» (don Giussani).
Questo è semplicemente impossibile all’uomo solitario, a chi non si concepisce all’origine in rapporto.
Termino con un augurio a voi e a me. Il momento più bello dell’insegnamento accade quando ciò che già so mi è ridonato da uno presente; non come definizioni memorizzate, ma come qualcosa che vive, come una vita in atto. È il momento in cui si fa esperienza di un aspetto del coincidere con se stessi (libertà): solo così si “rischia” di cambiare. E per questo quello dell’insegnante è il mestiere più bello del mondo.