DIO È AMORE
Il primo e fondamentale annuncio che la Chiesa è incaricata di portare al mondo e che il mondo attende dalla Chiesa è quello dell’amore di Dio. Ma affinché gli evangelizzatori siano in grado di trasmettere questa certezza, è necessario che ne siano essi stessi intimamente permeati, che essa sia luce della loro vita. A questo scopo vorrebbe servire, almeno in minima parte, la presente meditazione.
L’espressione “amore di Dio” ha due accezioni molto diverse tra loro: una in cui Dio è oggetto e l’altra in cui Dio è soggetto; una che indica il nostro amore per Dio e l’altra che indica l’amore di Dio per noi. L’uomo, più incline per natura a essere attivo che passivo, più a essere creditore che a essere debitore, ha sempre dato la precedenza al primo significato, a quello che facciamo noi per Dio. Anche la predicazione cristiana ha seguito questa via, parlando, in certe epoche, quasi solo del “dovere” di amare Dio (“De diligendo Deo”).
Ma la rivelazione biblica dà la precedenza al secondo significato: all’amore “di” Dio, non all’amore “per” Dio. Aristotele diceva che Dio muove il mondo “in quanto è amato”, cioè in quanto è oggetto d’amore e causa finale di tutte le creature[1]. Ma la Bibbia dice esattamente il contrario e cioè che Dio crea e muove il mondo in quanto ama il mondo. La cosa più importante, a proposito dell’amore di Dio, non è dunque che l’uomo ama Dio, ma che Dio ama l’uomo e lo ama “per primo”: “In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio ma è lui che ha amato noi” (1 Gv 4, 10). Da questo dipende tutto il resto, compresa la nostra stessa possibilità di amare Dio: “Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo” (1 Gv 4, 19).
1. L’amore di Dio nell’eternità
Giovanni è l’uomo dei grandi salti. Nel ricostruire la storia terrena di Cristo, gli altri si erano arrestati alla sua nascita da Maria, egli fa il grande balzo indietro, dal tempo all’eternità: “In principio era il Verbo”. Lo stesso fa a proposito dell’amore. Tutti gli altri, compreso Paolo, hanno parlato dell’amore di Dio manifestatosi nella storia e culminato nella morte di Cristo; lui risale a oltre la storia. Non ci presenta solo un Dio che ama, ma un Dio che è amore. “In principio era l’amore, l’amore era presso Dio e l’amore era Dio”: così possiamo sciogliere la sua affermazione: “Dio è amore” (1Gv 4,10).
Di essa Agostino ha scritto: “Se non ci fosse, in tutta questa Lettera e in tutte le pagine della Scrittura, nessun elogio dell’amore all’infuori di questa sola parola, cioè che Dio è amore, non dovremmo chiedere di più”[2]. Tutta la Bibbia non fa che “narrare l’amore di Dio”[3].Questa è la notizia che sostiene e spiega tutte le altre. Si discute a non finire, e non solo da oggi, se esiste Dio; ma io credo che la cosa più importante non sia sapere se Dio esiste, ma se è amore[4]. Se, per ipotesi, egli esistesse ma non fosse amore, ci sarebbe più da temere che da gioire per la sua esistenza, come infatti è avvenuto presso diversi popoli e civiltà. La fede cristiana ci assicura proprio su questo: Dio esiste ed è amore!
Il punto di partenza del nostro viaggio è la Trinità. Perché i cristiani credono nella Trinità? La risposta è: perché credono che Dio è amore. Là dove Dio è concepito come Legge suprema o Potere supremo non c’è evidentemente bisogno di una pluralità di persone e per questo non si capisce la Trinità. Il diritto e il potere possono essere esercitati da una sola persona, l’amore no.
Non c’è amore che non sia amore di qualcosa o di qualcuno, come –dice il filosofo Husserl - non c’è conoscenza che non sia conoscenza di qualcosa. Chi ama Dio per essere definito amore? L’umanità? Ma gli uomini esistono solo da alcuni milioni di anni; prima di allora, chi amava Dio per essere definito amore? Non può aver cominciato ad essere amore a un certo punto del tempo, perché Dio non può cambiare la sua essenza. Il cosmo? Ma l’universo esiste da alcuni miliardi di anni; prima, chi amava Dio per potersi definire amore? Non possiamo dire: amava se stesso, perché amare se stessi non è amore, ma egoismo o, come dicono gli psicologi, narcisismo.
Ed ecco la risposta della rivelazione cristiana che la Chiesa ha raccolto da Cristo e ha esplicitata nel suo credo. Dio è amore in se stesso, prima del tempo, perché da sempre ha in se stesso un Figlio, il Verbo, che ama di un amore infinito che è lo Spirito Santo. In ogni amore ci sono sempre tre realtà o soggetti: uno che ama, uno che è amato e l’amore che li unisce.
2. L’amore di Dio nella creazione
Quando questo amore fontale si dispiega nel tempo, abbiamo la storia della salvezza. La prima tappa di essa è la creazione. L’amore è, per sua natura, “diffusivum sui”, cioè tende a comunicarsi”. Siccome “l’agire segue l’essere”, essendo amore, Dio crea per amore. “Perché ci ha creati Dio?”: così suonava la seconda domanda del catechismo di una volta, e la risposta era: “Per conoscerlo, amarlo e servirlo in questa vita e goderlo poi nell’altra in paradiso”. Risposta ineccepibile, ma parziale. Essa risponde alla domanda sulla causa finale: “per quale scopo, a che fine ci ha creati Dio”; non risponde alla domanda sulla causa causante: “perché ci ha creati, che cosa lo ha spinto a crearci”. A questa domanda non si deve rispondere: “perché lo amassimo”, ma “perché ci amava”.
Secondo la teologia rabbinica, fatta propria dal Santo Padre nel suo ultimo libro su Gesù, “il cosmo viene creato non perché ci siano molteplici astri e tante altre cose, ma perché ci sia uno spazio per l’’alleanza’, il ‘sì’ dell’amore tra Dio e l’uomo che gli risponde”[5]. La creazione è in vista del dialogo d’amore di Dio con le sue creature.
Come è lontana, su questo punto, la visione cristiana dell’origine dell’universo da quella dello scientismo ateo ricordato in Avvento! Una delle sofferenze più profonde per un giovane o una ragazza è scoprire un giorno di essere al mondo per caso, non voluti, non attesi, magari per uno sbaglio dei genitori. Un certo scientismo ateo sembra impegnato a infliggere questo tipo di sofferenza all’umanità intera. Nessuno saprebbe convincerci del fatto che noi siamo stati creati per amore, meglio di come lo fa santa Caterina da Siena in una sua infuocata preghiera alla Trinità:
“Come creasti, dunque, o Padre eterno, questa tua creatura? […]. Il fuoco ti costrinse. O amore ineffabile, benché nel lume tuo tu vedessi tutte le iniquità, che la tua creatura doveva commettere contro la tua infinita bontà, tu facesti vista quasi di non vedere, ma fermasti l’occhio nella bellezza della tua creatura, della quale tu, come pazzo ed ebbro d’amore, t’innamorasti e per amore la traesti da te, dandole l’essere all’immagine e similitudine tua. Tu, verità eterna, hai dichiarato a me la verità tua, cioè che l’amore ti costrinse a crearla”.
Questo non è solo agape, amore di misericordia, di donazione e di discesa; è anche eros e allo stato puro; è attrazione verso l’oggetto del proprio amore, stima e fascino della sua bellezza.
3. L’amore di Dio nella rivelazione
La seconda tappa dell’amore di Dio è la rivelazione, la Scrittura. Dio ci parla del suo amore soprattutto nei profeti. Dice in Osea: “Quando Israele era fanciullo, io lo amai […]. Io insegnai a Efraim a camminare, sorreggendolo per le braccia[…]. Io li attiravo con corde umane, con legami d'amore; ero per loro come chi solleva il giogo dalle mascelle, e porgevo loro dolcemente da mangiare […]. Come farei a lasciarti, o Efraim? […] Il mio cuore si commuove tutto dentro di me, tutte le mie compassioni si accendono.” (Os 11, 1-4).
Ritroviamo questo stesso linguaggio in Isaia: “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il frutto delle sue viscere?” (Is 49, 15) e in Geremia: “Efraim è il figlio che amo, il mio bambino, il mio incanto! Ogni volta che lo riprendo mi ricordo di ciò, mi si commuovono le viscere e cedo alla compassione” (Ger 31, 20).
In questi oracoli, l’amore di Dio si esprime contemporaneamente come amore paterno e materno. L’amore paterno è fatto di stimolo e di sollecitudine; il padre vuol far crescere il figlio e portarlo alla piena maturità. Per questo lo corregge e difficilmente lo loda in sua presenza, per paura che si creda arrivato e che non progredisca più. L’amore materno invece è fatto di accoglienza e di tenerezza; è un amore “viscerale”; parte dalle profonde fibre dell’essere della madre, là dove la creatura si è formata, e di lì afferra tutta la sua persona facendola “fremere di compassione”.
Nell’ambito umano, questi due tipi di amore – virile e materno – sono sempre, più o meno nettamente, ripartiti. Il filosofo Seneca diceva: “Non vedi come è diversa la maniera di voler bene dei padri e delle madri? I padri svegliano presto i figli perché si mettano allo studio, non permettono loro di starsene oziosi e li fanno grondare di sudore e talvolta anche di lacrime. Le madri invece se li coccolano in grembo e se li tengono vicini ed evitano di contrariarli, di farli piangere e di farli faticare”[6]. Mentre però il Dio del filosofo pagano ha verso gli uomini solo “l’animo di un padre che ama senza debolezza” (sono parole sue), il Dio biblico ha anche l’animo di una madre che ama “con debolezza”.
L’uomo conosce per esperienza un altro tipo di amore, quello di cui si dice che è “forte come la morte e che le sue vampe sono vampe di fuoco” (cf Ct 8, 6), e anche a questo tipo di amore Dio ha fatto ricorso, nella Bibbia, per darci un’idea del suo appassionato amore per noi. Tutte le fasi e le vicissitudini dell’amore sponsale sono evocate e utilizzate a questo scopo: l’incanto dell’amore allo stato nascente nel fidanzamento (cf Ger 2, 2); la pienezza della gioia del giorno delle nozze (cf Is 62, 5); il dramma della rottura (cf Os 2, 4 ss) e infine la rinascita, piena di speranza, dell’antico vincolo (cf Os 2, 16; Is 54, 8).
L’amore sponsale è, fondamentalmente, un amore di desiderio e di scelta. Se è vero, perciò, che l’uomo desidera Dio, è vero, misteriosamente, anche il contrario e cioè che Dio desidera l’uomo, vuole e stima il suo amore, gioisce per esso “come gioisce lo sposo per la sposa” (Is 62,5)!
Come fa notare il Santo Padre nella “Deus caritas est”, la metafora nuziale che attraversa quasi tutta la Bibbia ed ispira il linguaggio dell’“alleanza”, è la migliore riprova che anche l’amore di Dio per noi è eros e agape, è dare e cercare insieme. Non lo si può ridurre a sola misericordia, a un “fare la carità” all’uomo, nel senso più rimpicciolito del termine.
4. L’amore di Dio nell’incarnazione
Arriviamo così alla tappa culminante dell’amore di Dio, l’incarnazione: “Così Dio ha amato il mondo da dare per esso il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16). Di fronte all’incarnazione si pone la stessa domanda che ci siamo posti per la creazione. Perché Dio si è fatto uomo? Cur Deus homo? Per molto tempo la risposta è stata: per redimerci dal peccato. Duns Scoto approfondì questa risposta, facendo dell’amore il motivo fondamentale dell’incarnazione, come di tutte le altre opere ad extra della Trinità.
Dio, dice Scoto, per prima cosa, ama se stesso; in secondo luogo, vuole che ci siano altri esseri che lo amano (“secundo vult alios habere condiligentes”). Se decide l’incarnazione è perché ci sia un altro essere che lo ama con l’amore più grande possibile fuori di lui[7]. L’incarnazione avrebbe dunque avuto luogo anche se Adamo non avesse peccato. Cristo è il primo pensato e il primo voluto, il “primogenito della creazione” (Col 1,15), non la soluzione a un problema intervenuto in seguito con il peccato di Adamo.
Ma anche la risposta di Scoto è parziale e va completata in base a ciò che dell’amore di Dio ci dice la Scrittura. Dio ha voluto l’incarnazione del Figlio, non solo per avere qualcuno fuori di sé che lo amasse in modo degno di sé, ma anche e soprattutto per aver fuori di sé qualcuno da amare in modo degno di sé! E questi è il Figlio fatto uomo, in cui il Padre “trova tutta la sua compiacenza” e con lui tutti noi resi “figli nel Figlio”.
Cristo è la prova suprema dell’amore di Dio per l’uomo non solo in senso oggettivo, alla maniera di un pegno inanimato che si da a qualcuno del proprio amore; lo è in senso anche soggettivo. In altre parole, non è solo la prova dell’amore di Dio, ma è l’amore stesso di Dio che ha assunto una forma umana per potere amare ed essere amato dall’interno della nostra situazione. In principio era l’amore e “l’amore si è fatto carne”: così un antichissimo scritto cristiano, parafrasa le parole del Prologo di Giovanni[8].
San Paolo conia una espressione apposita per questa nuova modalità dell’amore di Dio, lo chiama “l’amore di Dio che è in Cristo Gesù” (Rom 8, 39). Se, come si diceva la volta scorsa, ogni nostro amore per Dio deve ormai esprimersi concretamente in amore per Cristo, è perché ogni amore di Dio per noi si è, prima, espresso e raccolto in Cristo.
5. L’amore di Dio effuso nei cuori
La storia dell’amore di Dio non termina con la Pasqua di Cristo, ma si prolunga nella Pentecoste che rende presente e operante “l’amore di Dio in Cristo Gesù” fino alla fine del mondo. Non siamo costretti, perciò, a vivere solo del ricordo dell’amore di Dio, come di una cosa passata. “L’amore di Dio è stato effuso nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo che ci è stato donato” (Rom 5,5).
Ma cos’è questo amore che è stato riversato nel nostro cuore nel battesimo? È un sentimento di Dio per noi? Una sua benevola disposizione a nostro riguardo? Un’inclinazione? Qualcosa, cioè, di intenzionale? È molto di più; è qualcosa di reale. È, alla lettera, l’amore di Dio, cioè l’amore che circola nella Trinità tra Padre e Figlio e che nell’incarnazione ha assunto una forma umana e ora viene partecipato a noi sotto forma di “inabitazione”. “Il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14, 23).
Noi diventiamo “partecipi della natura divina” (2 Pt 1, 4), cioè partecipi dell’amore divino. Veniamo a trovarci per grazia, spiega san Giovanni della Croce, dentro il vortice d’amore che passa da sempre, nella Trinità, tra il Padre e il Figlio[9]. Meglio ancora: tra il vortice di amore che passa ora, in cielo, tra il Padre e il suo Figlio suo Gesù Cristo, risorto da morte, di cui siamo le membra.
6. Noi abbiamo creduto all’amore di Dio!
Ecco, Venerabili padri, fratelli e sorelle, questa che ho tracciato poveramente è la rivelazione oggettiva dell’amore di Dio nella storia. Adesso veniamo a noi: che faremo, che diremo dopo aver ascoltato quanto Dio ci ama? Una prima risposta è: riamare Dio! Non è, questo, il primo e più grande comandamento della legge? Sì, ma esso viene dopo. Altra risposta possibile: amarci tra noi come Dio ci ha amati! Non dice l’evangelista Giovanni che, se Dio ci ha amato, “anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri” (1Gv 4, 11)? Anche questo, viene dopo; prima c’è un’altra cosa da fare. Credere nell’amore di Dio! Dopo aver detto che “Dio è amore”, l’evangelista Giovanni esclama: “Noi abbiamo creduto all’amore che Dio ha per noi” (1 Gv 4,16).
La fede dunque. Ma qui si tratta di una fede speciale: la fede-stupore, la fede incredula (un paradosso, lo so, ma vero!), la fede che non sa capacitarsi di quello che crede, anche se lo crede. Come è possibile che Dio, sommamente felice nella sua quieta eternità, abbia avuto il desiderio non solo di crearci, ma anche di venire di persona a soffrire in mezzo a noi? Come è possibile questo? Ecco, questa è la fede-stupore, la fede che fa felici.
Il grande convertito e apologeta della fede Clive Staples Lewis (l’autore, detto per inciso, del ciclo narrativo di Narnia, portato di recenti sugli schermi) ha scritto un singolare romanzo intitolato “Le lettere di Berlicche”. Sono lettere che un diavolo anziano scrive a un diavoletto giovane e inesperto che è impegnato sulla terra a sedurre un giovane londinese appena ritornato alla pratica cristiana. Lo scopo è di istruirlo sulle mosse da fare per riuscire nell’intento. Si tratta di un moderno, finissimo trattato di morale e di ascetica, da leggere alla rovescio, cioè facendo esattamente il contrario di quello che viene suggerito.
A un certo punto l’autore ci fa assistere a una specie di discussione che si svolge tra i demoni.. Essi non possono capacitarci che il Nemico (così chiamano Dio) ami veramente “i vermi umani e desideri la loro libertà”. Sono sicuri che non può essere. Ci deve essere per forza un inganno, un trucco. Ci stiamo indagando, dicono, dal giorno che il “Nostro Padre” (così chiamano Lucifero), proprio per questo motivo, si allontanò da lui; non l’abbiamo ancora scoperto, ma un giorno ci arriveremo[10]. L’amore di Dio per le sue creature è, per essi, il mistero dei misteri. E io credo che, almeno in questo, i demoni hanno ragione.
Sembrerebbe una fede facile e piacevole; invece è forse la cosa più difficile che ci sia anche per noi creature umane. Ci crediamo noi veramente che Dio ci ama? No che non ci crediamo veramente, o almeno che non ci crediamo abbastanza! Ché se ci credessimo, subito la vita, noi stessi, le cose, gli avvenimenti, il dolore stesso, tutto si trasfigurerebbe davanti ai nostri occhi. Oggi stesso noi saremmo con lui in paradiso, perché il paradiso non è che questo: godere in pienezza dell’amore di Dio.
Il mondo ha reso sempre più difficile credere nell’amore. Chi è stato tradito o ferito una volta, ha paura di amare e di essere amato, perché sa quanto fa male ritrovarsi ingannato. Sicché, si va sempre più ingrossando la schiera di coloro che non riescono a credere nell’amore di Dio; anzi, in nessun amore. Il disincanto e il cinismo è il marchio della nostra cultura secolarizzata. Sul piano personale c’è poi l’esperienza della nostra povertà e miseria che ci fa dire: “Sì, questo amore di Dio è bello, ma non è per me! Io non ne sono degno...”.
Gli uomini hanno bisogno di sapere che Dio li ama e nessuno meglio dei discepoli di Cristo è in grado di recare loro questa buona notizia. Altri, nel mondo, condividono con i cristiani il timore di Dio, la preoccupazione per la giustizia sociale e il rispetto dell’uomo, per la pace e la tolleranza; ma nessuno – dico nessuno – tra i filosofi, né tra le religioni, dice all’uomo che Dio lo ama, lo ama per primo, e lo ama con amore di misericordia e di desiderio: con eros e agape.
San Paolo ci suggerisce un metodo per applicare alla nostra concreta esistenza la luce dell’amore di Dio. Scrive: “Chi ci separerà dall'amore di Cristo? Sarà forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Ma, in tutte queste cose, noi siamo più che vincitori, in virtù di colui che ci ha amati” (Rom 8, 35-37). I pericoli e i nemici dell’amore di Dio che egli enumera sono quelli che ha, di fatto, sperimentato nella sua vita: l’angoscia, la persecuzione, la spada... (cf 2 Cor 11, 23 ss). Egli li passa in rassegna nella sua mente e constata che nessuno di essi è così forte da reggere al confronto con il pensiero dell’amore di Dio.
Siamo invitati a fare come lui: a guardare la nostra vita, così come essa si presenta, a portare a galla le paure che vi si annidano, le tristezze, le minacce, i complessi, quel difetto fisico o morale, quel ricordo penoso che ci umilia, e a esporre tutto ciò alla luce del pensiero che Dio mi ama.
Dalla sua vita personale, l’Apostolo allarga lo sguardo sul mondo che lo circonda. “Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati; né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8, 37-39). Osserva il “suo” mondo, con le potenze che lo rendevano allora minaccioso: la morte con il suo mistero, la vita presente con le sue lusinghe, le potenze astrali o quelle infernali che incutevano tanto terrore all’uomo antico.
Noi possiamo fare la stessa cosa: guardare il mondo che ci circonda e che ci fa paura. L’“altezza” e la “profondità”, sono per noi ora l’infinitamente grande in alto e l’infinitamente piccolo in basso, l’universo e l’atomo. Tutto è pronto a schiacciarci; l’uomo è debole e solo, in un universo tanto più grande di lui e divenuto, per giunta, ancora più minaccioso, in seguito alle scoperte scientifiche che ha fatto e che non riesce dominare, come ci sta drammaticamente dimostrando la vicenda dei reattori atomici di Fukushima.
Tutto può essere messo in questione, tutte le sicurezze possono venire a mancarci, ma mai questa: che Dio ci ama ed è più forte di tutto. “Il nostro aiuto è nel nome del Signore che ha fatto i cieli e la terra”.
[1] Aristotele, Metafisica, XII, 7, 1072b.
[2] S. Agostino, Trattati sulla Prima lettera di Giovanni, 7, 4.
[3] S. Agostino, De catechizandis rudibus, I, 8, 4: PL 40, 319.
[4] Cf. S. Kierkegaard, Discorsi edificanti in diverso spirito, 3: Il Vangelo delle sofferenze, IV.
[5] Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, II Parte, Libreria Editrice Vaticana, 2011, p. 93.
[6] Seneca, De Providentia, 2, 5 s.
[7] Duns Scoto, Opus Oxoniense, I,d.17, q.3, n.31; Rep., II, d.27, q. un., n.3
[8] Evangelium veritatis (dai Codici di Nag-Hammadi).
[9] Cf. S. Giovanni della Croce, Cantico spirituale A, strofa 38.
[10] C.S. Lewis, The Screwtape Letters, 1942, cap. XIX; trad. ital. Le lettere di Berlicche, Milano, Mondadori, 1998