DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

SOTOO: «VI RACCONTO IL MIO POPOLO». Il Giappone e la tragedia


Carlo Dignola

Il silenzio, la compostezza, nessuna rabbia. Lo tsunami ha azzerato le loro vite, ma loro non se ne andrebbero mai. Sfidano la morte su un reattore nucleare. Si inchinano davanti ai feriti prima di curarli. Perché «sentono» gli altri, e accettano la realtà. Etsuro Sotoo, scultore della Sagrada Família, ci introduce al cuore del suo Paese. Dove la dignità «è tutto»

Etsuro Sotoo, lo scultore che ha lavorato per trent’anni al completamento della Sagrada Família di Barcellona - il capolavoro di Antoni Gaudí - è giapponese. In queste settimane in Occidente siamo rimasti molto colpiti dalla tragedia che si è abbattuta sul suo popolo, che fino a ieri ci sembrava distante, per cultura e anche per sentimenti. Colpiti non solo dalla drammaticità delle notizie: vedendo le mamme giapponesi fuggire in treno da Tokyo spaventate dalle radiazioni, guardando la tenerezza con cui trattavano i loro bambini appesi al collo è come se fosse venuto in primo piano un comune destino umano che, all’improvviso, ci fa sentire molto più vicini del previsto.
«Che siamo giapponesi, africani, italiani - dice Sotoo - Dio ha messo qualcosa nel fondo del fondo del nostro cuore. Di solito noi non comprendiamo ciò che ci lega, ma quando succedono grandi tragedie come questa sentiamo che qualcuno ha messo nei nostri cuori la stessa cosa. Per questo, improvvisamente, ci scopriamo capaci di comunicare più facilmente. È come quando incontriamo la bellezza: anche in quel caso ci accorgiamo che noi uomini sentiamo tutti le cose nel medesimo modo. Se invece non ci capita qualcosa di molto tragico o di terribilmente bello, nella vita di tutti i giorni non ce ne accorgiamo: lo dimentichiamo».

Voi giapponesi, però, esprimete il dolore con una sobrietà, una compostezza che ci ha stupiti.
Quando si prova un dolore, così come quando si prova una gioia grande o quando si incontrano cose vere, le parole mancano. Di fronte a chi ha perso tutto, a chi ha visto scomparire la propria famiglia, non c’è nulla da dire. Se solo guardiamo queste persone negli occhi, comprendiamo in modo profondo il loro dolore, che non è possibile neppure esternare. Noi a volte pensiamo che tutto si possa esprimere, che debba essere espresso: non è così. Ciò che vuoi sapere, ancor prima che venga detto lo devi aver già capito.

Cos’è la dignità per un giapponese?
La dignità sei tu. Se perdi la dignità, non esisti più tu.

Questo senso profondo di ciò che sei, che sei chiamato a essere, chi te lo dà?
Chi ti ha creato. Noi esistiamo, ma senza dignità non esistiamo veramente. Anche la società, o un Paese, senza dignità non possono esistere. Questo è ciò che dice la storia. Il samurai giapponese è un uomo che consegna la sua vita intera per difendere la dignità, sua e di altri uomini, e sa come farlo. È più importante la sua dignità che la sua vita. Ma per certi versi è così, in fondo, anche per un monaco di clausura.

A proposito di samurai, a cercare di spegnere i quattro reattori della centrale di Fukushima è stato un centinaio di uomini che, volontariamente, hanno gettato sul fuoco nucleare le loro vite per salvare mezzo Giappone.
Ho seguito la storia di uno di questi operai. La sua famiglia è stata colpita dallo tsunami: la moglie e il figlio piccolo sono stati evacuati e non hanno più una casa. Lui è andato avanti a lavorare nella centrale. Un giornalista ha chiesto a quella donna: «Sa che potrebbe non rivedere più suo marito?» e lei gli ha risposto che era orgogliosa di ciò che stava facendo. È un dramma, evidentemente. Tutto il mondo spera che questi uomini sopravvivano, però quell’operaio ha messo a repentaglio la sua vita per salvare il popolo; e, nel profondo, ciò che desidera salvare è la sua famiglia. E la sua famiglia lo sa e resterà legata a lui per tutta la vita, qualunque cosa gli accada.

Nei momenti drammatici la gente impara di nuovo ad aiutarsi, non a pensare solo agli affari suoi.
Guardi, in questi giorni mi ha colpito la storia di una donna che girava, facendo chilometri e chilometri, cercando del gasolio per accendere la stufa. Aveva in casa i bambini che tremavano dal freddo. Non ha trovato molto combustibile: per la notte non basterà; e però lei fa i suoi calcoli, invece di accendere quella stufa tutta notte la accende un’ora e un’altra ora di gasolio la mette da parte per l’indomani. Così le avanza un litro di combustibile e lo divide con chi le sta vicino. Questa è l’intelligenza. L’intelligenza non è saper rubare ciò che possiede il mio prossimo, ma condividere le cose con lui. Condividere e con-vivere: questa è l’intelligenza.

È vero che per un giapponese l’“io” conta poco, che prevale il “noi”?
No, conta molto. Ma tu sei parte di una comunità, di una famiglia, parte della società: se non sei parte di qualcosa d’altro non esisti. Questa, di nuovo, è la dignità: io non posso essere me stesso senza gli altri.

Cosa può tenere insieme un popolo con questa forza? Una tradizione?
I giapponesi, come è noto, non sono cattolici, però sanno cos’è il cuore. Conoscono l’amore. Un medico gira per i villaggi distrutti, visita i feriti negli ospedali e aiuta tutti. È gente che non ha più niente e lui non conosce nessuno di loro. Perché lo fa? È un mistero. Sfida la morte. Perché? Mistero. Però siamo uomini e lo facciamo. Questa idea di pensare agli altri, di “sentire” gli altri è nell’educazione giapponese. Osservavo questi medici volontari intervenuti dopo lo tsunami: per prima cosa salutano gli ammalati. Per quanto la situazione sia urgente e tragica, quell’inchino significa esattamente questo: pensare agli altri, perché ciò che oggi è successo a loro domani potrà succedere a me. Come io, scultore, devo chiedere permesso alla pietra prima di iniziare a scolpirla, così anche loro devono inchinarsi davanti a quegli uomini feriti e lacerati prima di curarli.

Hiroshima, Fukushima... Perché il Giappone deve sempre sperimentare per primo sulla sua pelle le paure e le rovine più atroci che il nostro mondo cova dentro di sé? Se lo è chiesto?
Perché tocca a lei viaggiare e stare sveglio a lavorare fino a tarda notte a scrivere? Perché un altro deve avere cura della sua famiglia o fraternità? Perché tocca a te. Sì, io a volte mi domando: perché i giapponesi non abbandonano il Giappone? Ci sono tutti questi tifoni, terremoti, tsunami e nonostante questo amano il loro Paese. Tutti. Io stesso, anche se vivo da molti anni in Spagna, amo il Giappone. Una madre, un padre che hanno un figlio handicappato perché non lo abbandonano? Perché lo amano. Il neonato, che non è in grado di fare niente, tutti lo amano di più. Sentiamo che è necessario.

Che cos’è la natura per voi? Non inveite contro di essa neanche quando mostra una faccia così maligna.
Se pensassimo che la natura è malvagia, non potremmo pensare che noi siamo natura. Gli occidentali considerano la natura come qualcosa da conquistare, da civilizzare. I giapponesi pensano piuttosto che se non riusciremo a convivere in armonia con la natura, non esisteremo più. Lo tsunami è un fenomeno naturale, non si tratta di cercare di opporsi ad esso: obbedendo, si può capire molto di più. La stessa tecnologia non può che avanzare insieme alla natura: se non si obbedisce alla natura non si avanza veramente. Stavo osservando in televisione una donna che da cinque giorni andava cercando la sua famiglia, girava per la città distrutta a piedi, senza acqua e senza niente, domandando di persona in persona nella speranza di ritrovarli. Questa forza da dove nasce? Questo è amore. E quando alla fine scoprirà che i suoi cari sono morti cosa potrà fare? Gridare, ribellarsi? No: accettare la realtà.

Non rischia di essere un cieco fatalismo questo, nel quale riemerge, anche in una società secolarizzata, il suo fondo shintoista?
No. Noi giapponesi sappiamo che la natura non perdona mai. La colpa è nostra che ci siamo dimenticati che è così grande e forte.

Più che fatalismo - lei dice -, è il riconoscimento di un dato di fatto: siamo niente. Cos’è allora il vostro? Realismo?
Appunto. L’unica cosa che possiamo fare è imparare dalla realtà. Bisogna obbedire alla natura e, dentro il nostro limite, fare tutto ciò che è possibile: questo è il Giappone.

Nella vostra cultura esiste l’idea di una positività ultima del reale, di qualcosa che tiene, nonostante i disastri ai quali l’uomo va inevitabilmente incontro?
La positività è quello che stiamo cercando di dire: accettare ciò che dobbiamo affrontare. L’uomo può e deve fare tutto quello che a lui è possibile, ma bisogna anche conoscere il nostro limite. Non si può sfidare frontalmente la natura. Che io sappia, l’unico occidentale che ha capito molto bene questo è stato proprio Gaudí. Ultimamente stavo pensando al fatto che noi stessi siamo natura. Ciò non significa che siamo semplicemente un pezzo di natura, eppure... La bellezza è la luce e lo splendore della verità, ma questa luce, questo splendore siamo noi uomini.

Nel momento più acuto della crisi nucleare è comparso in tv - cosa mai accaduta - l’imperatore Akihito, e ha detto al suo popolo che era venuto il momento di pregare: cosa significa per voi?
Pregare è unire, unire e celebrare. Tutti guardano insieme ciò che li ha colpiti, e condividono il dolore di chi piange.

Non è il nostro modo di pregare.
Sì, è diverso. L’imperatore è il simbolo del Giappone, tutti lo ascoltano. Quello che dice a tutti è: uniamoci. Pregare per noi fa parte dell’agire. Non puoi dire: ho pregato, sono a posto così. No, tu devi anche fare. Come ho scritto nel mio libroLa libertà verticale, appena uscito in Spagna, qualunque lavoro, se è fatto in maniera degna, è un modo di pregare.

Lei è diventato cristiano: oggi guarda a questi fatti in modo diverso?
Anche prima di diventare cristiano provavo queste cose: chi aiuta, sente come la cosa più necessaria per sé aiutare. Il malato ha bisogno del medico, certo, però il bisogno più grande è quello che sente il medico di aiutare gli altri. Tutto questo oggi lo comprendo con chiarezza grazie alla mia conversione. Se non fossi diventato cristiano non lo avrei capito.

Nella vostra cultura esiste il concetto di speranza?
Sì, esiste da sempre. La gente che è sopravvissuta allo tsunami non potrà che ripartire da lì. I giapponesi parlano molto di speranza, è una cosa naturale per chi è vivo, ma non riesce facile comprenderla davvero. A volte la speranza può essere qualcosa di un po’ materiale, o un sentimento limitato... Grazie alla mia conversione io ho capito che la speranza e la fede e la carità sono unite.



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