di Andrea Tornielli
Tratto da La Stampa del 14 aprile 2011
Nei rapporti tra Santa Sede e governo cinese il barometro non segna bel tempo. Si sono conclusi ieri i lavori della commissione vaticana istituita da Benedetto XVI per studiare i problemi della Chiesa in Cina, divisa in due distinte comunità, quella ufficiale riconosciuta dal governo e quella clandestina.
All’ordine del giorno dell’incontro, al quale hanno partecipato alcuni capi dicastero della curia e vari esperti, la situazione delle diocesi e le sfide per gli oltre sedici milioni di cattolici “nelle attuali condizioni sociali e culturali”.
È significativo che proprio nei giorni dell’incontro il governo di Pechino abbia arrestato tre preti della comunità clandestina nella provincia di Hebei. Ma a impensierire gli inquilini dei sacri palazzi è soprattutto l’annuncio della scelta di 11 nuovi vescovi da insediare alla guida di altrettante comunità ufficiali. Secondo le prime notizie, alcuni di loro non hanno l’approvazione di Roma. Ci si può dunque attendere nelle prossime settimane un nuovo scontro, dopo quello avvenuto lo scorso novembre, quando è stato ordinato contro l’esplicito divieto vaticano il nuovo vescovo di Chengde. Era dal 2006 che non accadeva qualcosa di simile, le precedenti dieci ordinazioni, infatti, erano frutto di un accordo ufficioso.
Le crisi dello scorso anno (l’ordinazione illecita di novembre, e l’assemblea dei rappresentanti cattolici a Pechino per eleggere i responsabili delle organizzazioni governative che controllano la Chiesa, a dicembre), hanno provocato il gelo e duri comunicati della Segreteria di Stato contro la pretesa cinese di interferire nella vita della Chiesa. Ora sta venendo alla luce anche uno scontro interno ai sacri palazzi sulla strategia da seguire con Pechino.
Il cardinale Joseph Zen, vescovo emerito di Hong Kong, ha infatti affermato che la Chiesa in Cina è in uno “stato disastroso” a causa della durezza del regime, ma anche perché un “triumvirato” – e cioè il cardinale prefetto di Propaganda Fide, Ivan Dias, un suo minutante, e il padre Jeroom Heyndrickx, missionario di Scheut, loro consigliere – avrebbe spinto il Vaticano al compromesso con il regime cinese. Zen ha paragonato il loro atteggiamento a quello dell’Ostpolitik del cardinale Casaroli e ha lamentato che molti vescovi della Chiesa ufficiale cinese ubbidiscano “entusiasti” al governo e non al Papa. Il cardinale ha dunque attaccato direttamente un collega porporato. E ha detto che se il governo di Pechino vuole davvero un accordo deve dimostrarlo concretamente concedendo più libertà alla Chiesa e ai vescovi.
Altrettanto dura è stata la posizione dell’arcivescovo cinese Savio Hon Taifai, nuovo segretario del dicastero vaticano di Propaganda Fide, il quale, in un’intervista al quotidiano Avvenire, ha affermato che tra i vescovi della Cina “è cresciuto il numero degli opportunisti” e ha espresso riserve per le “nomine di compromesso” faticosamente ottenute negli ultimi anni dalla diplomazia pontificia. Hon ha anche detto – d’accordo con Zen – che la Chiesa clandestina ha ancora ragione di esistere. Va ricordato che Benedetto XVI aveva espresso, nella Lettera ai cattolici della Cina, l’auspicio che queste comunità, seguite da milioni di seguaci, potessero gradualmente abbandonare la condizione di clandestinità, che non va considerata normale per la vita della Chiesa.
La uscite di Zen e di Hon Taifai, seppure non rivestite del crisma dell’ufficialità, lasciano intendere che in Vaticano questa linea si vada rafforzando.