I dieci giusti-giustificati dall’unico Giusto,
la piccola comunità “appiglio di Dio” per salvare le città del terzo millennio.
La missione Ad Gentes della Chiesa in un mondo che legittima il male per difendersene: germe di bene per far realmente vivere e sopravvivere le nostre città e per salvarci da questa amarezza interiore che è l’assenza di Dio
La mattina di Pasqua i lettori di Repubblica, come di consueto, hanno potuto leggere l’omelia laica del fondatore Eugenio Scalfari. In essa raccontava di risurrezioni. Quella riguardante Gesù si concludeva così: “In questa fine del viaggio e della storia il male avrà cessato di esistere, non ci sono né purgatorio né inferno, ma soltanto paradiso, senza tempo e senza luogo”. Tanto per dire che la vita, secondo i cristiani, finisce comunque a tarallucci e vino. Morte, giudizio, Paradiso, inferno e purgatorio? Dissolti in una centrifugata di lavatrice. Poi passava in rassegna l’epoca della modernità, nella quale “non esistono né il male né il bene, non esiste il peccato”. E’ l’epoca che ha cancellato la metafisica, lo sguardo trascendente, dove ogni essere vivente “è dominato dalla natura dei suoi istinti e vive in perfetta innocenza”. L’uomo, unica specie dotata di pensiero, è animato “da due forme di amore: quello verso se stessi e quello verso gli altri”. Un terzo amore li sovrasta, ed è “quello verso la vita e il solo peccato pensabile è quello contro la vita, la sua dignità, la sua libertà. Non una vita idealizzata, ma una vita storicamente determinata dagli istinti che si misurano, si combattono, si trascendono, si trasfigurano, diventando passioni e sentimenti analizzati dalla lente della ragione, cioè del pensiero che pensa se stesso e che si vede vivere”. Esso è “una fabbrica di illusioni che ci aiutano durante il viaggio, di speranze che alimentano la nostra energia vitale, di architetture morali indispensabili a tutelare la nostra socievolezza”. Dal pensiero la morale. Così gli uomini costruiscono “regole morali che consentono la convivenza in quel dato contesto storico”. Al tramonto di un’epoca “finisce anche una morale, si verifica una rivoluzione che smantella la vecchia architettura per costruirne un'altra affinché la vita possa proseguire alimentata e incanalata da nuovi limiti, da nuove correnti, da nuove sorgenti”. Il tempo stesso è una categoria inventata dall’uomo per adagiarvi le nuove architetture morali; infatti “non c'è fine perché non c'è principio. Non c'è altro senso fuorché la vita che la nostra specie è in grado di raccontare, interpretare, trasfigurare, inventare. Il tempo morirà con noi. La morale morirà con noi”. Una risurrezione che in fondo è la costruzione di una morale nuova sulle ceneri della vecchia, ormai defunta. E’ questa la speranza offerta da Scalfari ai suoi lettori, la ragione ultima di vivere, liberare il proprio cervello da qualsiasi sedimento oggettivo e trascendente perché possa leggere e intercettare il fluire dei nuovi bisogni e desideri che sorgono dalla “caverna dove abitano i nostri istinti, le nostre più segrete pulsioni e la nostra energia vitale”. Pensare una nuova morale che vesta i nuovi istinti, allargando senza limiti il perimetro del lecito e del giusto, assecondando le cosiddette rinnovate “sensibilità” di stagione. Laddove si cancella il peccato e la distinzione oggettiva del bene e del male nulla è precluso. La grande indignazione per la pedofilia si tramuterà in legittimazione, non vi è alcun dubbio, così come è stato per il divorzio, l’aborto, la selezione eugenetica. Ci troviamo in un’epoca di transizione, si celebra la memoria dell’Olocausto e dei campi di sterminio nello stesso momento in cui si selezionano gli embrioni “guasti”, secondo le vecchie ma sempre buone istruzioni di Mengele. Stiamo attraversando il confine e Scalfari ammonisce a non dimenticare i risultati raggiunti dalla modernità: “Quando si rifiuta di ricordare il passato non si può costruire il futuro, si vive schiacciati da un eterno presente come gli animali che vivono infatti fuori del tempo. Quando si smonta un'architettura morale senza costruirne un'altra il fiume della vita cessa di scorrere diventando imputridita palude. A questa sorte dobbiamo ribellarci, questo pericolo dobbiamo scongiurare”. Non ci si può permettere il lusso di fermare il flusso della “civiltà” che deve risorgere quale morale pienamente e definitivamente legittimata. Occorre ribellarsi e scongiurare il pericolo che, ad esempio, i matrimoni gay e le relative adozioni di figli, restino impantanati nella palude imputridita del vecchio ordine morale ormai morto. Semplificando, ma non troppo: il male grava come un macigno, ce lo sentiamo addosso, ci assedia da ogni angolo, mentre i media grondano sangue innocente; contro di esso non possiamo nulla e quindi lo aboliamo per “anacronismo”, assorbendolo e legittimandolo a poco a poco in nuove e più comode e spaziose architetture morali, che disegnano nuovi limiti, liberano nuove correnti, schiudono nuove sorgenti. L’antiproibizionismo nel campo degli stupefacenti radica qui le proprie ragioni. Siamo impotenti di fronte al male e quindi ne sbianchettiamo l’origine, derubrichiamo il peccato come un’invenzione strategica della Chiesa imperialista e opprimente, e lo riqualifichiamo come istinto, pulsione, energia vitale da incanalare secondo i bozzetti disegnati dal pensiero unico e dominante della nuova era. E’ la riedizione del bel “sol dell’avvenir” che avrebbe dovuto sorgere dalla rossa primavera. Abbandonata l’idea dell’abolizione del male a mano armata si ritorna all’usato sicuro, il neo-illuminismo di impronta massonica che fagocita il Cielo per governare la terra. Nelle parole di Scalfari si intuiscono i profili di Rousseau, Voltaire e compagnia illuminata: il pensiero pensa se stesso e costruisce sogni buoni per il viaggio della vita, una sniffata di cocaina e via con desideri, affetti e istinti spendibili ad ogni latitudine dell’umana libidine. Sodoma, e Gomorra che piace alla gente che pensa.
Sodoma, la città nuova e vecchia come il mondo, la città progettata dagli architetti della nuova morale che si staglia all’orizzonte. Sodoma, la città della vita determinata dagli istinti. Sodoma e Gomorra, le città malate, preda del male che aveva soggiogato ogni germe di bene, il male assoluto divenuto unica legge. In una recente catechesi Benedetto XVI diceva proprio a proposito di queste città: “Il male non può essere accettato, deve essere segnalato e distrutto attraverso la punizione: la distruzione di Sodoma aveva appunto questa funzione. Ma il Signore non vuole la morte del malvagio, ma che si converta e viva; il suo desiderio è sempre quello di perdonare, salvare, dare vita, trasformare il male in bene”. Il male esiste, i suoi effetti devastanti piagano la nostra storia. Girarsi dall’altra parte e far finta di nulla indignandosi ipocritamente e ideologicamente solo per alcuni dei suoi effetti è l’eutanasia della ragione. Occultare il peccato conduce sempre e solo a giustiziare il peccatore, dimenticando che l’innocente di oggi è il colpevole di domani; e oggi quanti piccoli Robespierre crescono accecati d’illusione. Il Papa invece ci indica l’unico cammino per la salvezza, l’autentica risurrezione dal male e dalla morte sua figlia primogenita. Lo ritrova nell’episodio della preghiera di Abramo che intercedeva presso Dio per scongiurare la distruzione di Sodoma e Gomorra: “Con la sua supplica, Abramo sta prestando la propria voce, ma anche il proprio cuore, alla volontà divina: il desiderio di Dio è misericordia, amore e volontà di salvezza, e questo desiderio di Dio ha trovato in Abramo e nella sua preghiera la possibilità di manifestarsi in modo concreto all’interno della storia degli uomini, per essere presente dove c’è bisogno di grazia”. Abramo osa con Dio e gli chiede di risparmiare le città se vi fossero trovati almeno alcuni giusti. E’ il capovolgimento di ogni giustizia umana, soprattutto di quella che, abbandonando il concetto di peccato, per proteggersi dal male, distrugge i peccatori: “la richiesta di Abramo è ancora più seria e più profonda, perché non si limita a domandare la salvezza per gli innocenti. Abramo chiede il perdono per tutta la città e lo fa appellandosi alla giustizia di Dio; dice, infatti, al Signore: «E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai giusti che vi si trovano?». Così facendo, mette in gioco una nuova idea di giustizia: non quella che si limita a punire i colpevoli, come fanno gli uomini, ma una giustizia diversa, divina, che cerca il bene e lo crea attraverso il perdono che trasforma il peccatore, lo converte e lo salva. Con la sua preghiera, dunque, Abramo non invoca una giustizia meramente retributiva, ma un intervento di salvezza che, tenendo conto degli innocenti, liberi dalla colpa anche gli empi, perdonandoli. Il pensiero di Abramo, che sembra quasi paradossale, si potrebbe sintetizzare così: ovviamente non si possono trattare gli innocenti come i colpevoli, questo sarebbe ingiusto, bisogna invece trattare i colpevoli come gli innocenti, mettendo in atto una giustizia "superiore",offrendo loro una possibilità di salvezza, perché se i malfattori accettano il perdono di Dio e confessano la colpa lasciandosi salvare, non continueranno più a fare il male, diventeranno anch’essi giusti, senza più necessità di essere puniti”. Il cuore di Dio guarda e mira al riscatto del malvagio, del peccatore. Per vincere il male non si tratta di renderlo inoffensivo rivestendolo dell’abito di una nuova morale. Non basta polverizzare il malvagio e, nel frattempo, legittimare quanto commesso. E’ l’assurdo profetizzato e vaticinato da Scalfari, distillato purissimo del pensiero dominante contemporaneo: l’illusione che il male non faccia più male solo perché si decide che da oggi non è più male, visto che ormai così fan tutti, grazie alla distruzione di ogni argine… E’ come prendere una pasticca di arsenico, convincersi che sia una vitamina ricostituente, e mandarla giù. Il Papa è lucido e ci schiude la mente perché non resti impigliata nei sofismi dei cattivi maestri: “Certo Sodoma è una grande città, cinquanta giusti sembrano poca cosa, ma la giustizia di Dio e il suo perdono non sono forse la manifestazione della forza del bene, anche se sembra più piccolo e più debole del male? La distruzione di Sodoma doveva fermare il male presente nella città, ma Abramo sa che Dio ha altri modi e altri mezzi per mettere argini alla diffusione del male. È il perdono che interrompe la spirale del peccato, e Abramo, nel suo dialogo con Dio, si appella esattamente a questo. E quando il Signore accetta di perdonare la città se vi troverà i cinquanta giusti, la sua preghiera di intercessione comincia a scendere verso gli abissi della misericordia divina… E più piccolo diventa il numero, più grande si svela e si manifesta la misericordia di Dio, che ascolta con pazienza la preghiera, l’accoglie e ripete ad ogni supplica: «perdonerò, … non distruggerò, … non farò. Così, per l’intercessione di Abramo, Sodoma potrà essere salva, se in essa si troveranno anche solamente dieci innocenti”. Dieci innocenti, il numero minimo legale per la preghiera ebraica, il nucleo di una comunità. Dieci giusti per la salvezza di Sodoma e Gomorra. Altro che nuova morale che, legittimando il male, giustifichi tutti i malvagi. Salvezza che odora di morte, inganno e perversione. Dieci giusti, “un numero esiguo, una piccola particella di bene da cui partire per salvare un grande male”, ma non vi sono nemmeno loro. E le città furono distrutte. “Una distruzione paradossalmente testimoniata come necessaria proprio dalla preghiera d’intercessione di Abramo. Il Signore era disposto a perdonare, desiderava farlo, ma le città erano chiuse in un male totalizzante e paralizzante, senza neppure pochi innocenti da cui partire per trasformare il male in bene. Perché è proprio questo il cammino della salvezza che anche Abramo chiedeva: essere salvati non vuol dire semplicemente sfuggire alla punizione, ma essere liberati dal male che ci abita. Non è il castigo che deve essere eliminato, ma il peccato, quel rifiuto di Dio e dell’amore che porta già in sé il castigo”.
Liberazione dunque e non omologazione, e la differenza è abissale! “È da questa tristezza e amarezza che il Signore vuole salvare l’uomo liberandolo dal peccato”. Il male rende tristi e la vita incappucciata da sogni e ideologie che craccano cervello e cuore è fiele puro. Ma la vita è stata donata per essere gustata e vissuta in pienezza, come un ponte lanciato verso il Cielo della gioia pura ed eterna. E le città di questa generazione, come quelle di ogni altra epoca, sono chiuse in un male totalizzante e paralizzante, ed hanno bisogno “di una trasformazione dall’interno, di un qualche appiglio di bene, un inizio da cui partire per tramutare il male in bene, l’odio in amore, la vendetta in perdono. Per questo i giusti devono essere dentro la città, e Abramo continuamente ripete: «forse là se ne troveranno …». «Là»: è dentro la realtà malata che deve esserci quel germe di bene che può risanare e ridare la vita. E’ una parola rivolta anche a noi: che nelle nostre città si trovi il germe di bene; che facciamo di tutto perché siano non solo dieci i giusti, per far realmente vivere e sopravvivere le nostre città e per salvarci da questa amarezza interiore che è l’assenza di Dio”. Il male è l’assenza d’amore, assenza di Dio, morte dell’anima prima che della carne. Questa assenza è stata colmata definitivamente dalla sovrabbondante misericordia di Dio: è stato infatti necessario “che Dio stesso diventasse quel giusto. E questo è il mistero dell’Incarnazione: per garantire un giusto Egli stesso si fa uomo. Il giusto ci sarà sempre perché è Lui. L’infinito e sorprendente amore divino sarà pienamente manifestato quando il Figlio di Dio si farà uomo, il Giusto definitivo, il perfetto Innocente, che porterà la salvezza al mondo intero morendo sulla croce, perdonando e intercedendo per coloro che «non sanno quello che fanno»”.
Il Giusto definitivo è Cristo presente nell’oggi del suo corpo, la comunità dei suoi fratelli più piccoli, i giusti perché giustificati dal suo sangue. La piccola comunità è l’argine eretto dalla sapienza di Dio di fronte allo strapotere del male. Dieci giusti, l’appiglio di Dio, la piccola comunità seminata come un germe di bene nelle città del duemila, come già i monasteri come bastioni di fede e civiltà dinanzi all’incedere barbaro al tramonto dell’Impero decadente. Dieci giusti uniti all’unico Giusto, dieci tralci stretti all’unica vite, che pregano, intercedono, celebrano, crescono nella fede, vivono nella città portando i frutti di vita eterna capaci di schiudere il Cielo a Sodoma e Gomorra, l’amore e l’unità in un mondo in armi e diviso. La loro, come quella di Abramo, è “una missione di salvezza, che deve rispondere al peccato che ha invaso la realtà dell’uomo; attraverso di loro il Signore vuole riportare l’umanità alla fede, all’obbedienza, alla giustizia”. Come Abramo sono amici di Dio che si aprono alla realtà e al bisogno del mondo essendo esattamente quello che sono, poveri, deboli, inermi discepoli amati da Dio e per questo invincibili. In loro brilla la luce della Pasqua, della vittoria definitiva di Cristo, della Giustizia che ha infranto il potere del male. Come scriveva a Diogneto l’anonimo autore del II Secolo: “ non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi aderiscono ad una corrente filosofica umana, come fanno gli altri. Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. Mettono in comune la mensa, ma non il letto. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. 9. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. Non sono conosciuti, e vengono condannati. Sono uccisi, e riprendono a vivere. Sono poveri, e fanno ricchi molti; mancano di tutto, e di tutto abbondano. Sono disprezzati, e nei disprezzi hanno gloria. Sono oltraggiati e proclamati giusti. Sono ingiuriati e benedicono; sono maltrattati ed onorano. Facendo del bene vengono puniti come malfattori; condannati gioiscono come se ricevessero la vita… coloro che li odiano non saprebbero dire il motivo dell'odio. A dirla in breve, come è l'anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani. L'anima è diffusa in tutte le parti del corpo e i cristiani nelle città della terra. L'anima abita nel corpo, ma non è del corpo; i cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo. L'anima invisibile è racchiusa in un corpo visibile; i cristiani si vedono nel mondo, ma la loro religione è invisibile. La carne odia l'anima e la combatte pur non avendo ricevuto ingiuria, perché impedisce di prendersi dei piaceri; il mondo che pur non ha avuto ingiustizia dai cristiani li odia perché si oppongono ai piaceri. L'anima ama la carne che la odia e le membra; anche i cristiani amano coloro che li odiano. L'anima è racchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; anche i cristiani sono nel mondo come in una prigione, ma essi sostengono il mondo. L'anima immortale abita in una dimora mortale; anche i cristiani vivono come stranieri tra le cose che si corrompono, aspettando l'incorruttibilità nei cieli. Maltrattata nei cibi e nelle bevande l'anima si raffina; anche i cristiani maltrattati, ogni giorno più si moltiplicano. Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare”. E’ la missione Ad Gentes, antica e nuova, la missione dell’unica Chiesa di sempre, un pugno di santi come sale, luce e lievito di una società votata alla morte, principio di vita incorruttibile seminato nella corruzione del male. Sposi e presbiteri, bambini, giovani e anziani, vedove e vergini, dieci uomini, ed il Giusto, unica speranza, unica salvezza. A nessuno di noi è lecito abbandonare il candelabro sul quale, per pura Grazia, il Signore ci ha posto. Pena, la nostra sconfitta e quella del mondo intero. Che nessuno rifiuti la missione e la primogenitura con la quale siamo stati pensati, creati, giustificati, amati ed eletti: la vita più bella, più affascinante, più grande. Dieci giusti, le nostre vite nella vita di Cristo, “un numero esiguo, una piccola particella di bene da cui partire per salvare un grande male”.
Antonello Iapicca Pbro