di Marina Marinetti
No, il suicidio assistito non si tocca. Si, si potrà continuare ad andare a morire in Svizzera.
Qual è la novità? Nessuna. Eppure, dopo che il referendum nel cantone di Zurigo domenica ha bocciato sia la proposta dell’Unione democratica federale, che chiedeva di rendere punibile qualsiasi forma di istigazione al suicidio, sia quella del Partito Evangelico, che proponeva di limitare l’assistenza al suicidio a chi risiede nel cantone da almeno dieci anni, nel Belpaese non s’è persa l’occasione per dar fiato alle trombe e invocare a gran voce la necessità di approvare la legge sul testamento biologico. Senza accorgersi, o magari facendo finta di non accorgersene, che il suicidio assistito non c’entra nulla con l’opportunità, o meno, di disegnare i propri personalissimi confini oltre ai quali le cure diventano accanimento terapeutico.
A quanto pare, il dettato dell’articolo 32 della Costituzione, “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”, non basta. E il richiamo al “rispetto della persona umana” per qualcuno è troppo generico. Ma c’è davvero bisogno di una legge per stabilirlo, o sarebbe più opportuna un’iniezione di buon senso? Anche gli italiani cominciano a chiederselo: nel suo rapporto “Cultura della salute e testamento biologico” l’Eurispes registra un calo del 4, 2% dei sostenitori del testamento biologico (dall’81, 4% degli intervistati nel 2010 al 77, 2% del 2011) a fronte di un netto aumento dei contrari, saliti dal 3, 3% al 14, 2%. E anche sull’eutanasia aumenta il fonte del no (dal 21, 7 al 24, 2%) e diminuisce quello dei sostenitori (dal 67, 4% al 66, 2%).
Tra un dibattito e un sondaggio, invocando l’eutanasia come soluzione all’accanimento terapeutico, si confondono le acque e si fa apparire l’Italia indietro anni luce rispetto alla più civile Svizzera, dove il suicidio assistito è ammesso sin dal 1941. Anche se pure nella Confederazione, a voler guardare la realtà dei fatti, il dibattito è sempre vivo: prova ne sono i quesiti posti dai due partiti di ispirazione protestante. Ma il governo federale, che sarebbe intenzionato a stringere le maglie, dovrà accontentarsi dei paletti già in vigore. Quali? Prima di tutto la motivazione, che, stando al diritto elvetico, non deve essere egoistica. Certo, ci piacerebbe sapere in base a quali criteri si possa valutare il grado di altruismo di una decisione del genere, ma non è questa la sede per effettuare un’indagine in tal senso.
In secondo luogo, l’unica modalità di suicidio ammessa nella Confederazione è quella passiva: il medico procura il cocktail letale, ma non può somministrarlo altrimenti commette reato. È il paziente - termine quanto mai inappropriato, considerato l’esito della cura - ad assumerlo autonomamente. Prende il bicchiere, beve un sorso, in tre minuti si addormenta. E nel giro di cinque è tutto finito. Anche in Lussemburgo, Olanda e Belgio è il paziente a dover compiere materialmente l’atto. Il medico assiste e basta. Ma che senso ha rivolgere un servizio simile a malati terminali che non hanno la possibilità di sollevarlo, quel bicchiere? Svezia, Danimarca, Germania e Spagna non fanno la distinzione e ammettono l’eutanasia anche nella sua forma attiva.
E in Italia? Se c’è, non si dice. Che qualche angelo della morte ogni tanto si aggiri in corsia è cosa più facile a dirsi che a dimostrarsi. E nessuno, in coscienza, può giudicare chi, dopo un travagliato percorso di dubbio e sofferenza, sceglie la morte invocandola come soluzione. Anche perché il suicidio, contrariamente a quanto si crede, in Italia non è reato. Lo sono invece l’istigazione al suicidio e l’aiuto al suicidio, puniti dall’articolo 580 del Codice Penale con la reclusione da cinque a dodici anni. In caso di un’eventuale eutanasia, il delinquente è il medico (o l’infermiere, l’amico, il parente), non il malato.
Dei 2. 828 suicidi registrati in Italia nel 2008 dall’Istat - ebbene sì, si fanno statistiche anche su questo, divise per età, sesso e provincia - non è dato sapere quanti fossero malati terminali o incurabili. Ma chi parla di “turismo della morte” gridando allo scandalo, alla non-notizia che la Dignitas, una della due associazioni zurighesi che praticano l’assistenza al suicidio, offre il servizio anche agli stranieri, fa male i suoi conti. Gli italiani che hanno scelto questa via, fino ad ora, sono stati 19. No, non nel 2010: dalla fondazione dell’associazione, nel 1998. Un po’ poco per parlare di “turismo della morte”. E in tutto?
In 13 anni di attività la Dignitas ha “assistito” 1. 138 persone. E gran parte degli stranieri che vi sono rivolti provenivano da paesi dove l’eutanasia non è affatto illegale: i 592 tedeschi, i 16 spagnoli, i 18 statunitensi hanno solamente scelto un diverso luogo, forse anche una diversa modalità, per morire. Gli svizzeri, invece? Sono circa 250 l’anno, perlopiù anziani intorno ai 76 anni. Molti, forse troppi per chi, dagli anziani, anche se invalidi e sofferenti, si aspetta una rassegnata accettazione della fine che verrà. Da sola.
Il vero problema, forse, non è l’eutanasia, né l’offerta del servizio anche a chi non potrebbe praticarlo, almeno non con le stesse modalità nel proprio paese. Il vero problema è l’impressionante predisposizione al suicidio che c’è in Svizzera: qui, ogni anno, sono circa 1. 400 le persone che si tolgono la vita. Sono tante. In Italia, sono il doppio, dirà qualcuno. Ma l’Italia ha più di 60 milioni di abitanti, mentre la svizzera non arriva neppure a sfiorare gli 8 milioni. E allora? C’è qualcosa che non va. Suicidarsi non è un delitto. Ma perché dev’essere difeso come un diritto?