DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

"Il mio petto come altare": ricordi di un sacerdote perseguitato nell'Unione Sovietica



Roma,  (Zenit.orgFederico Cenci | 80 hits

Lo scorso 9 novembre si è celebrato il 25° anniversario della caduta del Muro di Berlino, orribile bastione grigio che fendeva il cuore dell’Europa. In sua eredità restano oggi alcuni frammenti di cemento nella capitale tedesca e le testimonianze di chi fu personalmente coinvolto dall’esasperazione ideologica di quei decenni di odio. La battaglia organizzata dal comunismo internazionale contro il cristianesimo è uno degli aspetti più atroci del Novecento, che si rivela in tutto il suo realismo scorrendo la lunga lista di martiri, comprendente migliaia tra preti diocesani e religiosi, tra laici e seminaristi, oltre a un centinaio di vescovi e a quattro cardinali.
Il racconto che mons. Sigitas Tamkevičius, oggi vescovo di Kaunas (Lituania), ha rivolto a José Miguel Cejas nel libro El baile tras la tormenta (Il ballo dopo la tempesta), offre un prezioso spaccato sulla realtà di un prete nell’Unione Sovietica. Il sito Alfa y Omega ne ha proposto uno stralcio, relativo all’arresto, al conseguente interrogatorio e alla detenzione dell’allora padre Sigitas.
Il sacerdote gesuita fu fermato dalle autorità sovietiche insieme ad altri suoi confratelli nel 1983. “Salendo sulla camionetta del Kgb, mi invase un sudore freddo - confida mons. Tamkevičius -. I sotterranei del carcere, con i corridoi stretti, i soffitti alti, male illuminati da lampadine fioche, con macchie di umidità e crepe, non invitavano alla serenità”.
Dinanzi a un austero funzionario e con una luce accecante puntata sugli occhi, l’attuale arcivescovo fornì le sue generalità, le quali non lasciarono agli agenti alcun dubbio: “Caspita! È Sigitas, del Comitato per la Difesa dei Credenti, che fa propaganda antisovietica contro lo Stato!”, esclamarono. Ciò che in realtà interessava loro - rivela oggi l’arcivescovo - non era la sua partecipazione al Comitato, quanto la pubblicazione della rivista La Cronaca della Chiesa Cattolica in Lituania, un bollettino guidato da Tamkevičius con altri quattro sacerdoti e spedito all’estero.
Obiettivo di questa pubblicazione - concertato con il vescovo mons. Vicentas Sladkevičius - era informare il mondo sulle vessazioni cui erano sottoposti gli ecclesiastici e i praticanti cattolici in Unione Sovietica. Proibite catechesi e conferenze, veniva soffocato ogni anelito di evangelizzazione. Durante le Messe, poi, era sempre presente qualche spia del Governo che prendeva appunti sulle omelie e controllava che tra i presenti non vi fosse nessuno oltre agli anziani abituali.
Denunciare questa realtà oltre la Cortina di ferro evidentemente preoccupava i funzionari comunisti. Come racconta mons. Tamkevičius, “otto agenti iniziarono a interrogarmi un giorno sì e un giorno no. Non potevo immaginare che quell'interrogatorio si sarebbe protratto per sei mesi!”. Un lungo periodo durante il quale - aggiunge il presule - “Dio mi ha dato la forza di non tradire nessuno (…), neanche nei momenti di maggiore debolezza”.
L’arcivescovo spiega che in molti, ascoltando la sua testimonianza, gli chiedono come gli sia stato possibile resistere. Ad ognuno di loro, egli spiega che il merito non va attribuito alle sue forze. È nella sua perseveranza nella fede, piuttosto, che si trova il segreto della salvezza di mons. Tamkevičius.
Sebbene confinato nell’anfratto nascosto di una cella, privato di tutto, questo prete indefesso riuscì lo stesso ad assolvere il suo ministero di celebrare l’Eucaristia. “In carcere sono riuscito a comprare un po’ di pane e ho verificato che fosse di frumento - racconta -. Mi mancava solo il vino; in una lettera ho chiesto alla mia famiglia uva passa secca. Da allora in poi, dovevo solo trovare un buon momento, sapendo che il mio compagno di cella, come accadeva in genere, era un criminale comune al quale promettevano di ridurre la pena se avesse fornito qualche informazione compromettente su di me”.
Buon momento che si verificava quando il suo compagno di cella si addormentava. A quel punto il sacerdote, dando le spalle alla porta, disponeva l’astuccio degli occhiali sul tavolo e ci collocava un pezzo di pane e un piccolo recipiente con uva passa. Dopo di che, raccoglieva quest’uva e iniziava a spremerla tra le dita fino a ottenere qualche goccia di vino che, in casi eccezionali, è valida per celebrare l’Eucaristia.
Eccezionale era anche la gioia che pervadeva l’animo di mons. Tamkevičius in quei momenti. “Sperimentavo una gioia maggiore di quella che avevo provato la prima volta che avevo celebrato la Messa nella cattedrale di Kaunas”. L’arcivescovo è convinto che fosse dovuto al fatto che “Dio mi confortava e mi consolava”; presenza che era “al mio fianco, in modo ineffabile”.
Di qui la sua “forza speciale”, scudo vitale capace di respingere ogni tentazione di sconforto. L’arcivescovo ricorda che talvolta, per fuggire il pericolo che uno sguardo del suo compagno di cella potesse beffarlo, doveva celebrare steso sul letto, a notte fonda: “con le Sacre Specie sul mio letto, trasformato in altare”. Ricordi, quelli di mons. Tamkevičius, che rappresentano un ritaglio di quel periodo di persecuzione anticristiana, durante il quale tuttavia “le braccia di Gesù mi sostenevano”.


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Monignor Sigitas Tamkevičius, oggi vescovo di Kaunas (Lituania), ha visto la sua fede messa alla prova quando le autorità sovietiche lo hanno arrestato per interrogarlo. “Non ho mai pregato tanto intensamente come in quei momenti – ha confessato –. Gesù non mi ha lasciato solo”, soprattutto quando celebrava la Messa di nascosto nella sua cella. José Miguel Cejas ha raccolto la sua testimonianza nel libro El baile tras la tormenta (editrice Rialp), con racconti di dissidenti dell'URSS. 

“Ci hanno scoperto”, ho pensato quel giorno del 1983. Salendo sulla camionetta del KGB, mi invase un sudore freddo. I sotterranei del carcere, con i corridoi stretti, i soffitti alti, mal illuminati da lampadine fioche, con macchie di umidità e crepe, non invitavano alla serenità.

-"Nome?" 
-"Sigitas Tamkevičius". 
-"Professione?" 
-"Sacerdote. Gesuita". 
"Caspita! È Sigitas, del Comitato per la Difesa dei Credenti, che fa propaganda antisovietica contro lo Stato".

Sapevo che non era la mia partecipazione al Comitato a interessarli. Volevano sapere chi erano i redattori de La Cronaca della Chiesa Cattolica in Lituania, e come arrivava all'estero. L'idea della Cronaca era venuta a me e ad altri quattro sacerdoti negli anni Settanta.

Avevamo deciso di scrivere dei testi che confortassero i cattolici lituani e facessero conoscere la nostra situazione all'Occidente: non potevamo offrire catechesi né conferenze, né evangelizzare in alcun modo; nelle poche Messe permesse c'erano spie del Governo che prendevano nota delle omelie e controllavano le persone che non fossero gli anziani abituali; non si potevano costruire né riparare chiese. Informavamo di tutto questo, con il permesso del nostro vescovo Vicentas Sladkevičius, sulla Cronaca.

Otto agenti iniziarono a interrogarmi un giorno sì e un giorno no. Non potevo immaginare che quell'interrogatorio si sarebbe protratto per sei mesi! Ore e ore di domande, in una successione costante di esaminatori “buoni” e “cattivi”. Dio mi ha dato la forza di non tradire nessuno in quel periodo terribile, neanche nei momenti di maggiore debolezza.

“Non capisco come hai potuto farcela”, mi dicono a volte, pensando che abbia potuto superare tutta quella situazione grazie alle mie forze. Non è così.

In carcere sono riuscito a comprare qualche pezzo di pane e ho verificato che era fatto di frumento. Mi mancava solo il vino; in una lettera ho chiesto alla mia famiglia uva passa secca. Da allora dovevo solo trovare un buon momento, sapendo che il mio compagno di cella, come facevano in genere, era un criminale comune al quale promettevano di ridurre la pena se avesse fornito qualche informazione compromettente su di me.

Davo le spalle alla porta, con l'astuccio degli occhiali sul tavolino; un astuccio giallo di plastica dove avevo collocato un pezzo di pane e un piccolo recipiente con un po' di uva passa. Aspettavo che il compagno di cella si addormentasse e poi, lentamente, iniziavo a spremere l'uva passa tra le dita fino a ottenere qualche goccia di vino che in casi eccezionali risultava valido per celebrare l'Eucaristia.

Grazie a Dio ho una buona memoria e ricordavo le preghiere della Messa. Dopo la consacrazione, consumando il Corpo e il Sangue di Cristo, una gioia indescrivibile si impadroniva di me. Sperimentavo una gioia maggiore di quella che avevo provato la prima volta che avevo celebrato la Messa nella cattedrale di Kaunas. Dio mi confortava e mi consolava. Lo sentivo lì, al mio fianco, in modo ineffabile.

Celebrare la Messa in quelle circostanze mi dava una forza speciale, senza la quale non avrei potuto resistere. A volte dovevo celebrare steso sul letto, a notte fonda, con le Sacre Specie sul mio petto, trasformato in altare.

Non ho mai pregato tanto intensamente come in quei momenti. È stato un dono di Dio. Non gli chiedevo di liberarmi; confidavo in Lui. Le braccia di Gesù mi sostenevano; non mi ha mai lasciato solo. È sempre stato la mia Speranza.



[Traduzione a cura di Roberta Sciamplicotti]

sources: ALFA Y OMEGA