Tratto da Avvenire del 18 ottobre 2009
Nel cuore della zona rossa, a L’Aquila, dove i militari sbarrano con fermezza l’ingresso e i palazzi mostrano crepe nere come ferite, sono rimaste in quattro.
Quattro suore di clausura. La anziana badessa del monastero benedettino di san Basilio, suor Margherita, non ha voluto abbandonare la sua casa; con tre sorelle è rimasta, per tetto una capanna di legno alzata dai volontari nel cortile. E un’altra, suor Agnese, è anche più anziana della badessa. E su L’Aquila scende di notte ormai il gran freddo dell’Abruzzo, il freddo duro di quelle montagne aspre attorno.
Ma le quattro benedettine, ostinatamente fedeli alle mura spaccate, al campanile crollato, alla cappella scoperchiata come dalla mano di un furioso nemico, restano. Hanno ripreso a vivere nell’orto, nei pochi metri quadri della baracca di legno. Restaurano i mobili recuperati fra le macerie.
In una stanza al pianterreno del convento pregano e ascoltano la messa; in fondo, appeso al muro, il crocefisso sta a guardarle.
Una delle suore, la più giovane, alla cronista (che ne scrive nelle pagine interne) dice: «Ho riscoperto in questi mesi il senso dell’abito che indosso». Un’altra: «In questa sofferenza che ci circonda vedo ovunque il volto di Cristo». Un’altra ancora, clarissa nel distrutto convento di Paganica, ha fatto in questi giorni la sua professione definitiva. E a chi chiede alle sue consorelle dov’era Dio, quella notte, loro rispondono: «Accanto alla gente. Con noi, nel dolore».
È una fede ostinata, abbarbicata a queste pietre come certe case del Gran Sasso, aggrappate agli erti pendii, quella che, quasi non vista, riluce fra le macerie del L’Aquila. La tenacia delle benedettine nel non abbandonare il proprio monastero, quel monastero in cui sono entrate fanciulle, sembra la metafora di una promessa nuziale mantenuta. La casa scelta nella giovinezza, che non si abbandona; nemmeno quando un terremoto l’ha squarciata; ci si accampa in un angolo, si strappano ai detriti le povere cose superstiti. Il crocefisso è là, sul suo muro; c’è, dunque, l’essenziale; fedelmente, si resta. Mostrando a chi è giovane, a chi è cresciuto in tempi di brevi promesse e fedeltà precarie, cosa vuol dire, quando dice «per sempre».
E quell’altra sorella, che nelle sue giornate fra la gente del L’Aquila dice di «riconoscere ovunque il volto di Cristo»? A noi abituati a non guardarci se non per i vestiti che indossiamo, a non ascoltarci nel rumore in cui siamo costantemente immersi, a sognare magari una telecamera che ci riprenda, per sentirci 'qualcuno', questa suora dice che ora, nella sofferenza, sa riconoscere in ognuno il volto di Cristo. Che è quello che diceva Madre Teresa, quando ai giornalisti tentava faticosamente di spiegare perché faceva quel che faceva: perché in ogni disgraziato di Calcutta riconosceva, appena dissimulato, il volto di Cristo. (I giornalisti, spesso, non capivano). La fedeltà per sempre, e quello sguardo che attraversa le apparenze e permette di vedere l’altro, davvero. Questo ha lasciato a queste suore abruzzesi il nemico che con un fragore di apocalisse ne ha infranto le chiese, e crepato malignamente i muri dei vecchi conventi, lasciandovi tracce profonde come cicatrici. Ma forse allora è vero, come scrisse Emmanuel Mounier, che «Dio passa attraverso le ferite». Che là dove si spezza la nostra pace, e benessere, e soddisfatto equilibrio, là sta la porta dove l’Altro da noi può passare. Se gli si lascia un varco.
Se non ci si arrocca in difesa, o nella rabbia, Dio può passare. E tutta l’Aquila, e le tendopoli, e anche le case nuove dove però qualcuno manca per sempre, sono una breccia, una grande ferita a cielo aperto. Ma in quei monasteri, e altrove, in tante case di gente di cui non sapremo mai nulla, chissà chi, attraverso quella ferita, è passato.