DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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La paura ha nuovi orizzonti. Se una volta si temeva la morte ora a spaventare è la vita: l’incapacità di avere relazioni, la mancanza di identità e di autonomia, l’angoscia della solitudine



Carla Massi

Lo diceva Don Abbondio:
«Uno il coraggio non se lo
può dare». Un personaggio
entrato nella storia per le
sue paure. Per quelle vere e
per quelle che popolavano
la sua mente. Agli italiani, se
scremiamo la codardia, sta accadendo
proprio questo. Basta analizzare
i ritratti che gli psichiatri
fanno delle ansie e delle fobie che
arrivano nei loro studi.Nuove paure,
oggi, si rincorrono nelle teste
degli italiani. E la confusione,
nel senso della perniciosa tendenza
a confondere realtà e fantasmi,
ha preso una consistenza
tale da convincere gli psichiatri a
organizzare, sull’argomento, incontri
di studio a più voci.
Oggi a Milano si terrà un
pre-congresso della Sopsi, la Società
italiana di psicopatologia
presieduta da Carlo Altamura (il
summit si svolgerà dal 23 al 26
febbraio), per discutere delle paure
di oggi. Accompagnate da
stress, vulnerabilità emotiva e affaticamento
da crisi economica.

TERRORI INTIMI

Non si parla di una paura generalizzata
e di massa, ma di piccoli-
grandi terrori intimi che, con
estrema facilità, riescono ad impossessarsi
di corpo e mente.
Una facilità maggiore, dicono gli
specialisti, rispetto al passato.
Quando, oltre che per motivi culturali,
la paura doveva essere toccata,
conosciuta, battuta.
«Un tempo non troppo lontano
dominava la paura della morte -
spiega Alberto Siracusano, ordinario
di Psichiatria all’università
Tor Vergata di Roma, che presenterà
una relazione proprio su
queste nuove emozioni - ora domina
quella della vita. Oggi tormenta
la paura della paura. Già
nota ai tempi di Giulio Cesare.
Sua moglie Calpurnia aveva messo
in guardia ilmarito, la sera prima
dell’omicidio, raccontandogli
di una premonizione sulla cospirazione
ai suoi danni. Ma Cesare
aveva risposto: “Non dobbiamo
aver paura della paura”. Nel
2015 ci troviamo a fronteggiare
questa condizione». Capace di generare,
dicono gli psichiatri, relazioni
malate, mancanza di
identità e autonomia. Disturbi
che si trasformano
in ansia allo stato
puro.

VALORI PERDUTI

Punto di partenza: la
mancanza di certezze.
Nel pubblico e nel privato.
In famiglia e sul lavoro.
«Fino alla metà degli anni
Ottanta - spiega ancora Siracusano
- si viveva sull’onda di antiche
certezze, dal matrimonio all’impiego.
Parlo di valori. Oggi è
difficile sentirsi appartenenti ad
una comunità, ad un gruppo. Certo
si appartiene ad una società
globale ma manca la definizione
di identità. Condizione che fa perdere
l’equilibrio e, nei più vulnerabili,
si declina in crisi d’ansia e
di depressione». Da qui la paura
di non riuscire a sapere “chi sei”.
Dietro la relazione tormentata
c’è il dolore (ancora paura) di entrare
in contatto con gli altri. Aggravato
dalla scomparsa sempre
più generalizzata del «freno morale
». Nel senso che, davanti ad
una difficoltà (come un amore finito),
si arriva frequentemente all’omicidio,
alla strage di famiglia.
Il terrore di soffrire da una parte,
mentre dall’altra c’è l’infantile capacità
a tenere le relazioni.

GLI ADOLESCENTI

«Una condizione che troviamo in
tanti uomini e tante donne che
chiedono aiuto quando la situazione
è già diventata dramma -
aggiunge Siracusano - Le persone
non riescono a mantenere i
rapporti, non distinguono l’impulso
dal desiderio, ma rifiutano
la conoscenza di sé. La riflessione,
il pensiero. E’ finita anche
l’abitudine ad insegnare come,
da giovani e da adulti, si costruiscono
i rapporti con tutto quello
che è intorno a noi. Adesso no.
Adesso si cresce, attraverso una
finta autonomia che si infrange
al primo ostacolo. Pensiamo agli
adolescenti, ma anche ai giovani
adulti, costruiti a modello di internet,
che si sgretolano al primo
soffio di vento. Come si deve far
fronte ad un problema questo diventa
trauma».

VISIONI APOCALITTICHE

Paura di non avere un profilo, paura
delle relazioni, paura di non
avere identità, paura di guardarsi
dentro, paura di restare soli aggrappati
ai “mi piace”. Droga, gioco,
bulimia, anoressia e alcol come
tentativo per «definire il proprio
sé ed essere identificato».
Una condizione generale di timore
capace di moltiplicare i disturbi
d’ansia che si palesano con diverse
manifestazioni, sempre più
frequenti. Dall’impossibilità a
stare in un luogo aperto come è
l’agorafobia, al disturbo ossessivo
compulsivo. «Un groviglio,
spesso non raccontato - conclude
lo psichiatra - di paure e visioni
apocalittiche che prendono la via
del disagio».


Il Messaggero 4 febbraio 2015


Famiglia, la trappola della nuova psicologia


Rassegna stampa - Centro Cattolico di Documentazione di Marina di Pisa
Che in tal modo si usi di fatto una bimba come "cavia" per un esperimento familiare dei cui esiti nessuno può avere certezza, è tema che sembra non aver sfiorato la mente dei giudici. Ma possiamo anche arrivare a capirli (!), dato che oramai molti psicologi (forse non proprio tutti, ma certamente tanti) si muovono nel loro stesso senso, invocando per di più l’autorevolezza di rispettabili società scientifiche, come l’American Psychological Association, da vari anni attestata nella difesa della «normalità» delle coppie omosessuali.
In Italia, poi, si ama sempre esagerare: la rivista «Infanzia e adolescenza», nel suo ultimo numero, dà addirittura notizia di recenti ricerche, che riscontrerebbero maggiore disponibilità, nei confronti dei figli, delle coppie omosessuali rispetto a quelle eterosessuali...
Dobbiamo fidarci degli psicologi? Le loro ricerche e le loro teorie sull’omosessualità sono davvero attendibili? Che rilievo dobbiamo dare a quella minoranza di psicologi (perché certamente di minoranza si tratta) che continuano a sostenere che l’omosessualità è un disturbo della personalità, un «disordine oggettivo» (secondo il lessico del Magistero della Chiesa) e che i bambini hanno il diritto di crescere con un papà e una mamma, perché questa è la configurazione ottimale della famiglia?
In breve: dobbiamo o no attivare petizioni, procedere a raccolte di firme, promuovere battaglie culturali contro i movimenti che in nome della psicologia (e quindi della scienza!) accusano di pregiudizio coloro che non sono convinti del carattere antropologicamente rilevante della differenza sessuale?
Cerchiamo di mettere bene a fuoco tale questione, che va molto al di là del pur rilevante caso della bimba di Bologna. E non cadiamo nella trappola di considerarla eminentemente psicologica. Nei suoi elementi essenziali, infatti, non si tratta di una questione psicologica, ma antropologica e giuridica. Quindi, non è agli psicologi che spetta l’ultima parola. Se affidiamo la questione alla psicologia, e non all’antropologia, come è invece giusto fare, cadiamo in una trappola da cui non riusciremo più a liberarci.
È probabile che molti psicologi (soprattutto i più arroganti) non siano in grado di percepire la differenza che si dà tra le due prospettive: per loro la psicologia assorbe l’antropologia, e dovrebbe quindi dettarne i confini (e per di più con autorevolezza scientifica). È una pretesa indebita, una variante del solito e monotono riduttivismo scientistico, quello per il quale l’uomo «non è altro che» politica, economia, fisiologia, alimentazione, storia, cultura, ragione, corpo… o anche psiche (e questo a seconda dei "gusti", cioè della prospettiva scientista che si vuole privilegiare). 
Non è così: l’uomo è tutto questo (politica, economia, alimentazione cultura, storia, ragione, corpo, psiche) e molto di più. A fronte di quegli psicologi che sostengono che la famiglia «cosiddetta naturale» rappresenta un’astrazione, va ribadito che l’indagine antropologica, quando non si lascia intimidire, mostra esattamente il contrario: la famiglia è il contrario di un’astrazione, è il luogo concretissimo, insostituibile, istituzionale dell’acquisizione dell’identità. E l’identità (con buona pace di certi psicologi) non coincide con l’io, ma con la "persona": non è concetto riduttivamente psicologico, ma umano. 
Può crescere "bene" un bambino affidato a una coppia gay? Tanti psicologi dicono di sì. Possiamo dirlo anche noi: perché mai non potrebbe? Non c’è esperienza umana, per quanto lacerante, che non possa essere occasione o presupposto di "bene": non solo i miti e le favole (che parlano addirittura del destino "regale" che può offrirsi ai bambini più infelici), ma tutta la letteratura (si pensi ai romanzi di Dickens) ripetono incessantemente che è straordinaria la forza che emerge in bimbi abbandonati, strappati all’affetto materno e familiare, rinchiusi in orfanotrofi freddi e tristissimi o perfino cresciuti nei penitenziari.
A tutti è data la possibilità di una vita "buona", perché la forza dello spirito può vincere ogni avversità. Non c’è dubbio quindi che anche i bambini affidati a una coppia gay – per di più riconosciuta dai giudici come equilibrata – possano non solo soggettivamente, ma anche oggettivamente crescere felici. Il problema che dobbiamo valutare – e che non è psicologico – è se la famiglia «cosiddetta naturale» rappresenti o no un bene antropologico da difendere e da promuovere e se queste nuove forme di affidamento familiare non siano modalità per offenderla.
Il modo giusto di difendere quel "bene" che è la famiglia non è quello di ipotizzare (con molta ragionevolezza, ma – ahimè – senza prove definitive) necessarie sventure o inevitabili sofferenze per chi cresca "senza famiglia" o in famiglie alternative, ma semplicemente quello di ribadire che solo la famiglia e il complesso dei vincoli «naturali» che da essa conseguono garantiscono l’ordine delle generazioni.
È in questo ordine che si realizza quel bene propriamente umano e personale che consiste nell’essere genitori e figli e non nel comportarsi come genitori e come figli (per quanto impeccabile questo "comportarsi" possa rivelarsi nei singoli casi). La questione, ripetiamolo ancora una volta, non è psicologica, ma antropologica: fino a quando non arriveremo a capirlo non potremo affrontarla in modo corretto e con onestà intellettuale.
Rassegna stampa - Centro Cattolico di Documentazione di Marina di Pisa -
http://www.rassegnastampa-totustuus.it/modules.php?name=News&file=article&sid=5822

Il “sorpasso” femminile

DI Claudio Risé
Tratto da Il Mattino di Napoli del 27 settembre 2010
Tramite il blog di Claudio Risé

Nelle ultime settimane i maggiori settimanali del mondo, e molti quotidiani, hanno fatto copertine e grandi pagine sulla fine del maschio e l’inevitabile supremazia femminile.

La ragione: i recenti dati americani secondo cui le donne hanno superato gli uomini nei dottorati di ricerca, nell’occupazione, e, per le giovani sotto ai 30 anni, anche nelle retribuzioni. Dati importanti. Ma è giusto farne il bollettino della vittoria? Soprattutto: c’è mai stata una guerra tra uomini e donne?

Cominciamo da qui, anche perché non si sa chi ci guadagni nel trasformare un cambiamento sociale in un conflitto. Quello che è certo è che a votare tutte le leggi fatte negli ultimi anni a favore delle donne (quote rosa, parità nel lavoro, tutele nelle separazioni, divorzio), sono stati parlamenti a larga maggioranza maschile. Che non erano obbligati a farlo da rivolte sociali: hanno promulgato queste leggi perché pensavano che fossero giuste. E, probabilmente, anche perché volevano essere rieletti: la maggioranza dei votanti Usa, infatti, è femminile.

Quanto sta accadendo, quindi, non è il risultato di una guerra tra i due sessi, ma di un consenso tra essi sull’opportunità, per tutti, di una piena parificazione tra maschi e femmine. È meno «da copertina» di una guerra, ma forse più equilibrato.

Questa trasformazione, prodotta dal consenso tra uomini e donne che desideravano un cambiamento nella situazione, ci può anche aiutare a capire cosa sta veramente accadendo. Ad esempio il «sorpasso» delle donne nel numero dei ricercatori, o degli occupati, forse non prelude a quel futuro di uomini regrediti verso la condizione servile o l´analfabetismo descritto in molti articoli, ma semplicemente rispecchia il fatto che le femmine americane sono più numerose dei maschi.

La maggior ricchezza invece della popolazione femminile non è certo una novità: gli uomini muoiono circa 7 anni prima delle donne, e anche dalle statistiche finanziarie è noto che il gruppo sociale costituito dalle vedove è particolarmente ricco. Questo dato, di cui nell’attuale dibattito non si parla affatto, ci aiuta a capire un aspetto importante per la comprensione di questi dati: la supremazia ha dei costi che il maschio (in America ma anche altrove), non vuole più pagare. E´anche per questo che non si è fatto molto pregare nel promuovere le leggi e i dispositivi che miglioravano la condizione femminile.

Essere uomini ha significato per secoli andare in guerra (accade ancora), provvedere alla famiglia, competere nella società, morire prima, gareggiare con gli altri maschi per la propria compagna: una sfibrante condizione di lotta col resto del mondo che l’uomo di oggi non è più motivato a sostenere. Tranne quando, come nei Paesi ancora relativamente poveri vi sia spinto dalla fame, o dalle convinzioni religiose, come accade in molte fra le diverse culture islamiche.

Del resto era stato il maschio occidentale, ancora prima della donna, a denunciare (fin dall’Illuminismo, e poi col pensiero libertario, anti e post coloniale) come la condizione di «padrone del mondo», oltre che ingiusta verso gli altri, fosse fonte di infelicità per chi se l’assumeva. È già molto difficile (questo fu il pensiero - prevalentemente maschile - del secolo scorso), diventare padroni di sé, figuriamoci degli altri.

Il «sorpasso» rivela dunque (oltre che una condizione demografica), una tendenza in atto da tempo in Occidente, e che ha ispirato la legislazione nell’ultimo secolo: il maschio non vuole più portare il peso del mondo. Anche per campare più a lungo, e con maggiore tranquillità.

Tutti matti?

Sta per uscire (è programmata per il 2013) la 5a edizione del SMD, la "bibbia" che clasifica le malattie mentali , e già da ora è polemica, perché i termini per identificare una malattia sono ancor più ampi di prima e molti che sono semplicemente "tristi" o "timidi" rischiano di essere etichettati come "malati mentali" con tutte le Journal coverconseguenze immaginabili. Le ditte produttrici di farmaci ringrazieranno. Ma questo ha una spiegazione, se la malattia mentale è diventata un fatto sogettivo, per cui il pedofilo se "sta bene con se stesso" potrebbe non essere più un malato mentale, mentre la donna triste è automaticamente malata e per questo può abotire...
Tutto un
numero di Journal of Mental Health è free online e spiega bene queste novità.
postato da: carlobellieni

Quell'abbraccio inconcepibile Per lo psicanalista Binasco dietro l’attacco alla Chiesa c’è l’incapacità di comprendere il sacerdote e l'uomo

Laura Borselli

Per lo psicanalista Binasco dietro l’attacco alla Chiesa c’è l’incapacità di comprendere il sacerdote e, al fondo, «l’uomo stesso come rapporto con qualcosa che va al di là dei suoi antecedenti sociali e biologici»

Ci saranno ancora sacerdoti nel futuro della Chiesa? Il sottotitolo del bel libro di don Massimo Camisasca (Padre, San Paolo, 215 pagine, 16 euro), corre come un brivido lungo la schiena quando su una prima pagina dopo l’altra si rincorrono accuse, rivelazioni vere o presunte di casi di pedofilia imputabili a sacerdoti. Stigmatizzazione di silenzi, imprudenti quando non colpevoli, di vescovi ed alti prelati. Nell’accorata lettera pastorale ai cattolici d’Irlanda Benedetto XVI ha parlato di «sgomento», di un «senso di tradimento» che il pontefice non appena comprende, ma condivide col suo gregge offeso da pastori che hanno «violato la santità del sacramento». Non basta, tuonano voci come quella del teologo svizzero Hans Küng, doveva esserci un “mea culpa”, un azzeramento dei vertici della Chiesa e, richiesta immancabile nel pensiero dell’ex compagno di studi di Joseph Ratzinger, la riconsiderazione del celibato sacerdotale. Prima un “tonacapulitismo” in grande stile, poi la riscrittura delle regole del gioco. «A parte il fatto che non ci sono dati che ci portino a dire che far sposare i preti sarebbe una soluzione, l’obiezione è anche di tipo logico. Non siamo sempre lì a dire che nella nostra civiltà il matrimonio è in crisi? E allora che senso ha proporre come rimedio una realtà antropologicamente in crisi?». Una provocazione, quella di Mario Binasco, psicanalista e docente di psicopatologia dei legami famigliari presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia, che non tralascia di spalancare una prospettiva più ampia rispetto alla tormenta che mentre travolge la Chiesa dice qualcosa su di essa, sulla figura del sacerdote, sulla società.
«Quando si vuol distruggere la religione – ha scritto il curato d’Ars – si comincia con l’attaccare il sacerdote, perché là dove non c’è più il sacerdote, non c’è più sacrificio né religione». Parole che suonano quanto mai profetiche quando, parallela alla richiesta di giustizia e di “pulizia”, sembra emergere una incomprensione profonda: quella per la figura del prete. «Sicuramente – riprende Mario Binasco – al fondo del doloroso attacco che stiamo vivendo c’è un’incomprensione per la figura del sacerdote, ma ancora più al fondo per quell’essere impossibile e in-comprensibile dalla mentalità umana che è l’uomo stesso. Paradossalmente l’epoca dell’individualismo è quella che meno conosce l’uomo. Si mutila la realtà dell’essere umano, volendo sapere di essa soltanto ciò che è compatibile con l’ideologia della società democratica, per esempio i diritti. Il fatto che l’essere umano sia qualcosa che trascende questi elementi è una cosa che non deve più interessare. Ecco allora che quei luoghi di esperienza, che ancora esistono, in cui necessariamente emerge il rapporto dell’uomo con qualcosa che è al di là dei suoi antecedenti sociali e biologici diventano incomprensibili. E la Chiesa è a tutti gli effetti uno di questi luoghi. Un altro è la famiglia, e un altro ancora è la cura psicoanalitica». Non è un caso che il passaggio più alto e anche più contestato della lettera del Papa ai cattolici d’Irlanda sia quello rivolto ai religiosi colpevoli degli abusi: «Riconoscete apertamente la vostra colpa, sottomettetevi alle esigenze della giustizia, ma non disperate della misericordia di Dio». Per i sacerdoti, così come per tutti gli uomini, la Chiesa non rinuncia al ruolo appassionato di madre.

Una pretesa pazzesca
Una pretesa “scandalosa”, anche quando si accompagna a una richiesta di purificazione, perché non mette in discussione la figura del sacerdote. Colui che, ha detto Benedetto XVI nell’udienza del mercoledì della scorsa settimana, trae la sua «forza profetica nel non essere mai omologato né omologabile, ad alcuna cultura o mentalità dominante, ma nel mostrare l’unica novità capace di operare un autentico e profondo rinnovamento dell’uomo, cioè che Cristo è il Vivente, è il Dio vicino, il Dio che opera nella vita e per la vita del mondo e ci dona la verità, il modo di vivere».
Non stupisce che oggi osservati speciali siano i seminari. La prova di purificazione che Dio fa vivere alla Chiesa la spinge anche a guardare dentro i cammini educativi che conducono al sacerdozio e che, evidentemente, hanno rivelato in tanti casi un’inadeguatezza nell’affronto di problemi relativi alla maturità affettiva. Quella dimensione che da un educatore come don Massimo Camisasca, superiore della Fraternità sacerdotale San Carlo Borromeo, è indicata come una componente fondamentale della vita del sacerdote. Una tradizione sapiente e antica ci fa chiamare “padre” il sacerdote, a indicare la chiamata del prete a una paternità spirituale verso il suo popolo, ma a sua volta nessuno può essere padre se non ha un padre. Scrive Camisasca: «È necessario che i vescovi tornino a vivere con i seminaristi o dedichino loro almeno una parte importante del loro tempo, che scelgano di vivere la vita comune con alcuni preti, come hanno fatto grandi vescovi del passato. Penso a sant’Agostino o a san Carlo Borromeo. La divaricazione tra la figura del padre e quella dell’autorità è stata ed è un danno per la Chiesa». Paternità, amicizia, rapporto umano. È lecito domandarsi se per queste dimensioni centrali nell’azione pastorale del sacerdote, nonché nella sua vocazione, ci sarà spazio in un futuro in cui in nome di cautele e sospetti una carezza potrebbe far gridare all’abuso. Lo spettro è quello di uno scivolone sessuofobo, un obolo pagato a una mentalità quasi “manipulitista” che in tutto ciò che è rapporto e coinvolgimento vede qualcosa di sospetto. Come se il cristianesimo potesse essere un contratto e non un incontro e un rapporto continuo, come quel legame solido e amoroso che l’Antico Testamento tratteggia con incredibile passione tra Dio e il popolo di Israele. «Io ti ho amato di amore eterno/ per questo ti conservo ancora pietà» (Geremia, 31).
Ma per lo psicanalista Binasco lo scandalo che la Chiesa sta vivendo e gli attacchi a cui è sottoposta dicono molto anche della concezione dell’affettività e della sessualità di cui la nostra società è imbevuta. «Tutti dicono che la pedofilia è un orrore, ma nessuno osa domandarsi perché lo è. E nessuno se lo domanda perché per affermare ragionevolmente che c’è qualcosa di male nella pedofilia bisognerebbe porsi una domanda seria sulla sessualità nell’insieme del problema umano. Prendere atto che i legami tra le persone non tengono se sono solo di uso e consumo».
Quando tutti gli sforzi sono improntati a separare agape ed eros e a fare della sessualità qualcosa di «piacevole e innocuo», come ha scritto papa Ratzinger nell’enciclica Deus Caritas Est, si crea una sorta di cortocircuito. «Oggi – riprende Binasco – viviamo una grande confusione rispetto all’amore che comincia con un’accezione perversa del desiderio. Esso viene “misurato”, cioè identificato con l’oggetto che apparentemente lo suscita, come nella pubblicità. Va da sé allora che quei desideri per cui non si può indicare un oggetto di godimento, non si può mostrare il prodotto non sono “commerciabili”. Per cui tutto ciò che attiene all’amore e al legame tra le persone diventa “non parlabile”. Questo ha modificato anche il concetto di pudore: del sesso tutto si vede e si deve vedere, c’è una spinta folle a scoprire. Invece ad essere diventato materia di vergogna e di pudore sono i sentimenti di tipo amoroso. Per questo quando sento dire che la Chiesa per aprirsi al mondo deve “rivalutare la sessualità” resto interdetto: perché per il mondo di oggi la sessualità è il problema stesso di cui viene venduta come soluzione».

Una logica incomprensibile
In questa concezione a restare censurato è proprio ciò che nella prima enciclica del suo pontificato Benedetto XVI andava scrivendo: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva». Come ha ribadito papa Ratzinger nell’omelia pronunciata giovedì scorso, nella Messa celebrata in Vaticano con i membri della Pontificia commissione biblica, è questo “nuovo orizzonte” – questa “vita” che nasce da un incontro umano, non da un consenso politico o da una dottrina “aggiornata coi tempi” – il vero obbiettivo della «sottile aggressione contro la Chiesa, o anche meno sottile». Ma è proprio «sotto gli attacchi del mondo che ci parlano dei nostri peccati», ha aggiunto il Papa, che «noi vediamo che poter far penitenza è grazia, è rinnovamento, è opera della misericordia divina».
Ci saranno ancora sacerdoti nel futuro della Chiesa? Sì, se Dio vuole, risponde la logica petrina. Poiché, ha osservato il Papa, se «le dittature sono state sempre contro questa obbedienza a Dio», se «esistono forme sottili di dittature, un conformismo, per cui diventa obbligatorio pensare come pensano tutti, agire come agiscono tutti», sotto tutte le dittature e dentro ogni conformismo, l’esistenza stessa di uomini che continuano ad abbracciare il celibato e la vita sacerdotale rimane il richiamo più normale e radicale a riconoscere Dio. Che «è sempre l’atto della liberazione nel quale arriva la libertà di Cristo a noi».

Bimbi obesi, la cura si chiama affetto. di Claudio Risé

Tratto da Il Mattino di Napoli del 19 aprile 2010
Tramite il blog di Claudio Risé

Uno dei segni più chiari dell’amore per i bambini è l’attenzione dei genitori a che mangino cose buone, che non fanno male, ed in quantità equilibrata, né poco né troppo.

Da questo punto di vista (e da altri), non sembra che l’Occidente ami davvero i suoi figli.Dovunque infatti, in Europa e Nord America una buona percentuale di loro è soprappeso, quando non obesa, perché mangia troppo, e male. Un’abitudine che rischia di ridurre di molto (circa il 30%), il loro potenziale di vita.In Italia, un quarto degli allievi di terza elementare è sovrappeso, e più della metà di questi sono obesi.Nell’insieme della popolazione infantile, uno su tre ha problemi derivanti da alimentazione eccessiva, e di cattiva qualità.Come mai i bambini sono così voraci, e scelgono così male i loro cibi? E perché noi non li aiutiamo a mangiare meglio?I due problemi sono legati tra loro, e la loro origine è comune, ed è legata al sentimento. Nell’iperalimentazione dei bambini (come in quella degli adulti), c’è una forte componente affettiva: i bambini (come gli adulti) mangiano troppo quando non si sentono sufficientemente e/o adeguatamente amati. Ciò li spinge anche a mangiare male, e a prediligere quei cibi, come le merendine e gli snack più pericolosi, ricchi di zuccheri, grassi, e sostanze euforizzanti, che “alzano” il tono dell’umore e creano dipendenza: senza di loro il bambino diventa triste e appare privo di energia.È il toxic child, il bambino tossico, dipendente fin da piccolo dalle sostanze e additivi di cui è sapientemente farcita l’alimentazione industriale fast food. Di lui si sta occupando l’attuale Amministrazione americana del Presidente Obama per cambiarne le abitudini alimentari e diminuire così l’enorme spesa sanitaria derivante dalla diffusione del diabete e delle malattie cardiovascolari fin dalla giovinezza, forse la conseguenza più vistosa di questo mangiar troppo, e male.D’altra parte, una delle prime manifestazioni dell’amore per i figli, presente anche fra gli animali (i quali sono peraltro aiutati da una più forte capacità istintiva nell’evitare i veleni), è appunto la cura nell’insegnare ai piccoli a mangiare bene, e nella misura giusta.È dunque per insufficienza di affetto verso di loro che i ragazzini mangiano troppo, e per la stessa ragione gli adulti si occupano poco e male del cibo dei figli: un circolo vizioso che non aiuta certo a migliorare la situazione.L’affettività, scarsa e di qualità scadente, della società postindustriale spinge tutti, giovani e adulti, a cercare di “compensare” la frustrazione emotiva con molto cibo consolatorio e immediatamente eccitante, senza però migliorare la qualità dei propri rapporti affettivi, cosa che ci chiederebbe di ingozzarci meno e concentrarci di più sull’ascolto dell’altro.Questa insufficiente presenza di cuore da parte degli adulti verso di loro rischia di portare i ragazzini, quando saranno più grandi a problemi di insufficienza cardiaca. Così come la lentezza e debolezza dell’attenzione dei grandi rischia di produrre nei ragazzi, quando saranno cresciuti, problemi circolatori e diabete: eccessi di grassi e zuccheri e difficoltà ad assimilarli e trasformarli.È il problema delle società avanzate, dell’Occidente: troppo grasso cattivo, ed eccessiva zuccherosità, nello stile di vita e nelle relazioni. Per mascherarne la sostanziale aridità affettiva, la mancanza di passioni e autentiche tensioni, capaci di trasformare l’abbondanza in energia.Un problema alimentare, che nasce da un deficit affettivo, e produce una condizione esistenziale. Poco piacevole, e pericolosa.






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Uno psichiatra condivide le tesi del Card. Bertone

MARCO TOSATTI

L’esperto psichiatra statunitense Richard Fitzgibbons, specialista nel trattamento dei sacerdoti che hanno commesso abusi contro i minori, ha spiegato che il segretariO di Stato, il cardinale Tarcisio Bertone, avrebbe ragione nel collegare pedofilia e omosessualità. Lo afferma l’agenzia di lingua spagnola ACI Prensa che lo ha intervistato. “Le affermazioni del cardinale Bertone si appoggiano totalmente sullo studio John Jay – ha detto – e nell’esperienza clinica. Di fatto, tutti i sacerdoti che ho trattato che sono coinvolti sessualmente con minori erano stati protagonisti in precedenza in relazioni omosessuali adulte”. Dal 1988 questo psichiatra è stato direttore del Comprehensive Counseling Center a West Conshohocken, Pennsilvanya, ed è attualmente consultore della Congregazione del Clero. In un documento che ha scritto ai vescovi nel 2002, il dr. Fitzgibbons spiegò che nei sacerdoi con questi problemi si poteva avvertire “un dolore emotivo profondo” nella loro infanzia, problemi nella loro relazione con il padre, rigetto dei loro simili, mancanza di fiducia maschile, e un’autostime povera. Queste esperienze, segnalava, facevano sì che i sacerdoti dirigessero la loro tristezza e amarezza contro la Chiesa, i suoi insegnamenti nella morale sessuale e il Magistero. Il documento affermava che questo tipo di sacerdoti coinvolti negli abusi su minori “negano con frequenza il peccato nella loro vita. Con frequenza rifiutano di esaminare la loro coscienza, accettare gli insegnamenti della Chiesa in temi morali come guida delle loro azioni, e si rifiutano di confessarsi regolarmente”. Una caratteristica negativa di questi presbiteri, dice l'esperto psichiatra, è che “rifiutano anche di cercare una direzione spirituale o cercano un direttore spirituale o un confessore che apertamente sia in contrasto con gli insegnamenti morali o di sessualità della Chiesa”. A una domanda di ACI Prensa su nuovi dati emersi dopo la pubblicazione di questo documento, il dr. Fitzgibbons ha sottolineato il problema del narcisismo: “questa debolezza epidemica della personalità in Occidente predispone gli individui a ira eccessiva, all’autoadorazione, alla ribellione contro Dio e la Chiesa particolarmente in relazione alla morale sessuale”.



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Come imparare dai fallimenti. di Claudio Risé

Tratto da Il Mattino di Napoli del 29 marzo 2010
Tramite il blog di Claudio Risé

Nei giorni verso Pasqua, in tempi più attenti all’interiorità, ci si dedicava a meditazioni e riflessioni particolari. La più praticata aveva il suo apice nel venerdì santo, e riguardava il fallimento.

Oggi perdere, fallire, è considerato solo un errore. Siamo una società (e una cultura), acquisitiva, convinta che tutto avvenga attraverso nuove conquiste e mai per perdite, sconfitte.

Eppure la personalità, gli Stati, ed ogni organismo, crescono anche con gli sbagli e i fallimenti.

Il più clamoroso dei quali viene appunto celebrato nel venerdì di Pasqua.

Quel giorno Gesù viene condannato alla morte dei ladri: la croce; è umiliato e ucciso; abbandonato dai discepoli e dallo stesso Padre che era venuto ad annunciare. Non ha né liberato Israele, né è stato riconosciuto dagli ebrei, che anzi l’hanno messo a morte. Ha fallito, e la via crucis, un percorso che è rimasto fino ad oggi al centro delle devozione cristiana, è la celebrazione di quel fallimento. Attraverso il quale anche il figlio di Dio deve passare per poi risorgere, a Pasqua.

Questa vicenda, al centro delle meditazioni del tempo di Quaresima e Pasqua, ha un grande interesse psicologico anche oggi, per spiriti laici e non credenti. È proprio quando ci dimentichiamo, infatti, del passaggio amaro del fallimento, che incorriamo poi nei disastri più difficili da rimediare.

Ogni volta che l’economia ha creduto di poter evitare il ciclo depressivo (il ristagno e la discesa dei guadagni e dei corsi di Borsa), è entrata in crisi solo lentamente rimediabili: e noi siamo in una di quelle. Ogni volta che un impero ha creduto nella propria eternità, è poi franato miseramente, anche in tempi rapidi.

Soprattutto però, come si ripeteva negli esercizi del venerdì di passione, è a livello psicologico che l’insegnamento della sconfitta e della perdita dà i suoi frutti più preziosi.

La formazione della personalità è una sequela di perdite. Il bimbo deve lasciare l’infanzia per diventare adolescente; poi anche l’adolescenza dovrà essere abbandonata per diventare giovani; quindi la giovinezza verrà persa per ottenere la maturità, e così fino alla fine.

Se si pretende di aggirare il dolore della perdita, la nuova condizione psicologica non verrà mai veramente raggiunta, e avremo quell’ibrido di adulto infantilizzato e capriccioso che domina le cronache e la vita quotidiana di oggi. Anche il fallimento degli attaccamenti affettivi, la morte dei genitori, le crisi o i lutti matrimoniali, vengono sempre più spesso diluite o esorcizzate non lasciando più la casa familiare e magari non sposandosi più: ma sono rimedi scadenti, che non mettono davvero al riparo dal dolore e dalla solitudine, ma in compenso impediscono di vivere con pienezza.

Secondo l’immagine cristiana, che ha poi ispirato l’intera epoca moderna, è soltanto accettando di mettersi al centro della croce, in questa dolorosa posizione tra terra e cielo, diventando un sanguinante centro del mondo, che l’uomo può poi risorgere e realizzare sé stesso.

Ogni rinascita, crescita, cambiamento, passa per l’esperienza della croce, del fallimento. Il che dal punto di vista psicologico significa che ogni fallimento, ogni clamorosa perdita, non deve essere accantonata o travestita, ma va invece messa al centro della nostra vita, e contemplata con serietà e attenzione.

Solo così possiamo imparare dai nostri errori, e rinascere. Lezione indispensabile, questa, anche per gli educatori, genitori e insegnanti, oggi impegnati nell’indorare ai ragazzi le pillole dei loro sbagli.

Rimettiamo la croce al suo posto onorato, e ne avremo finalmente meno paura.

Tutti «bipolari» dopo i casi celebri

Confessioni di vip come Mel Gibson e Robbie Williams hanno conferito un alone «glamour» alla malattia
e scatenano una corsa all'auto-diagnosi

GRAN BRETAGNA

Tutti «bipolari» dopo i casi celebri

Confessioni di vip come Mel Gibson e Robbie Williams hanno conferito un alone «glamour» alla malattia
e scatenano una corsa all'auto-diagnosi

Robbie Willams
Robbie Willams
ROMA - Si allunga la lista dei vip che confessano di soffrire di disordine bipolare. Ma le parole di attori come Stephen Fry, Carrie Fisher e Mel Gibson, e cantanti come Robbie Williams - che sicuramente hanno contribuito a far conoscere un problema di salute mentale ancora poco noto al grande pubblico - hanno avuto un inatteso effetto collaterale. Secondo alcuni psichiatri, infatti, queste confessioni hanno regalato un'aura di glamour e creatività alla patologia. Risultato? Almeno in Gran Bretagna i medici di famiglia e gli psichiatri sarebbero bombardati da persone che chiedono di farsi controllare, con in mente già ben chiara la diagnosi: pensano infatti di soffrire di disordine bipolare. A lanciare l'allarme sono due psichiatri del servizio sanitario britannico, Diana Chan e Lester Sireling, che lavorano in un centro di salute mentale territoriale a North London. Ma perchè all'improvviso dei cittadini perfettamente sani dovrebbero voler essere etichettati come «malati», oltretutto con un problema mentale?

ESAGERAZIONI - Secondo l'analisi dei due specialisti, ormai si confondono normali ondeggiamenti dell'umore - legati agli alti e bassi della vita - con questa condizione medica, e molti pensano di essere «un pizzico» bipolari. C'è perfino un gruppo su Facebook che sottolinea come tutti nella vita, a un certo punto, possano sperimentare questa condizione. In realtà - ricordano gli specialisti sul «Daily Mail» - il disordine bipolare è un problema serio, che spinge i pazienti in stati prolungati e violenti di euforia o depressione, alterando le loro vite.

LA MALATTIA «VERA» - Nei momenti positivi, i pazienti si sentono euforici, hanno pensieri grandiosi, sono inclini a spendere incredibili somme di denaro, a parlare «a macchinetta» e a passare intere giornate senza mangiare, o dormire. Possono vedere anche cose inesistenti, e sentire «le voci». Le depressioni che seguono sono estremamente profonde, e lasciano le «vittime» in uno stato di prostrazione che le rende abuliche e apatiche.

I RISCHI DELL'AUTO-DIAGNOSI - Insomma, questa nuova moda delle auto-diagnosi non solo è ben lontana dalla realtà, ma può portare centinaia di persone ad assumere medicinali inutili e per questo pericolosi, scrivono gli psichiatri sulla rivista del Royal College of Psychiatrists. Nello studio, intitolato non a caso « I Want To Be Bipolar, A New Phenomenon», gli specialisti notano che i camici bianchi stanno assistendo a ondate di aspiranti bipolari. Ormai questa condizione sembra aver acquisito una patina glamour, diventando quasi una «garanzia» di creatività. Secondo i dati del Nhs (Sistema sanitario Britannico) solo in Gran Bretagna circa 500 mila persone hanno una diagnosi di disordine bipolare. Ma dopo una serie di studi in materia alcuni ricercatori sospettano che negli anni si sia assistito a una sorta di «falsa epidemia». Il fenomeno delle malattie di moda ha, comunque, una lunga storia. Per restare in GB, ai tempi della regina Vittoria la melanconia era associata a emozioni e tormenti spia di una sensibilità superiore al normale. Oggi il disordine bipolare fa rima con la creatività. Così, testimonia anche il medico di famiglia di Glasgow, Des Spence, «vediamo molte aspiranti vittime della nuova moda. E io stesso - conclude - ho dovuto convincere un certo numero di persone che in realtà non avevano questo problema». (Fonte Agenzia Adnkronos Salute)


30 marzo 2010

Il papà è indispensabile alla crescita dei figli. di Claudio Risé

Tratto da Il Mattino di Napoli del 15 marzo 2010
Tramite il blog di Claudio Risé

Fra poco, a San Giuseppe, si festeggerà la «Festa del papà».

Le maestre, che constatano quotidianamente i guai prodotti nei figli dall’assenza del padre, di rado si azzardano a proporre pensierini o lavori sul tema, per non allargare la ferita di chi il papà non ce l’ha. Le mamme, quando tutto funziona in famiglia (ma è raro), a volte un po’ di festa la preparano, se riescono a farcela stare tra lavoro, cura dei figli, casa. Ma, festa a parte, che succede oggi a padre e paternità? Sono in molti a celebrare la prossima estinzione del padre.

È di pochi giorni fa la notizia che alla Clinica Mangiagalli di Milano, punto di osservazione significativo delle tendenze nelle nascite e nelle relazioni familiari, l’otto per cento dei neonati risulta senza papà, il quale non viene dichiarato in alcun modo.

Elena Rosci, docente di psicologia della coppia, ha spiegato che «può essere un modo scelto dalle donne per liberarsi dal compito della mediazione spesso faticosa con il partner»: espressione forbita per dire che in questo modo una mamma deve perdere meno tempo a discutere con il padre.

Il bambino, però, ci guadagna qualcosa, da questa eliminazione di una figura paterna con la quale la madre possa confrontarsi su tutta una serie di decisioni e proposte di vita che lo riguardano direttamente, e che condizioneranno fortemente la sua esistenza? Non sembra proprio, e del resto la stessa docente riconosce che così il bimbo «nasce senza un paracadute familiare, e dunque rischia di essere meno protetto, anche economicamente».

Ma il padre non è solo un portafoglio, anche se sotto questo aspetto tende a vederlo, in Italia, la giurisdizione familiare, soprattutto in caso di conflittualità tra i genitori.

A differenza della madre, nella quale il bimbo si è formato, e con la quale ha vissuto per nove mesi in una simbiosi che continua a livello psicologico per molti anni dopo la nascita, il padre è, da subito, quell’«altro da sé» col quale il bambino sperimenta il difficile esercizio del confronto e della differenza, faticoso ma indispensabile nella formazione della personalità.

Il papà è la prima persona che possa al momento giusto aiutarti ad uscire dalla fusionalità con la madre: una separazione, questa, alla quale il figlio si oppone a lungo, aiutato dalla fisiologica fatica della mamma a lasciarlo andare.

Per il figlio maschio poi, il padre è anche la non sostituibile figura che consente l’identificazione col proprio sesso e col proprio genere. Un passaggio chiave per l’equilibrio fisico e psichico, qualsiasi orientamento il figlio scelga poi per la propria sessualità.

L’irrilevanza paterna è stata accelerata dallo sviluppo economico, dalla maggiore autonomia raggiunta dalle donne attraverso il lavoro, e dallo sbiadimento di modelli maschili precedenti, spesso autoritari.

Mentre però sviluppo, lavoro femminile e abbandono dell’autoritarismo sono fenomeni positivi, la «società senza padri» (come è stata chiamata dagli anni ’70 in poi la società occidentale), non funziona.

Lo stesso italianissimo fenomeno del bamboccismo (di cui questa rubrica si è occupata anche recentemente), è strettamente legato alla fatica dei giovani di uscire dalla simbiosi con la madre e dal principio dominante del materno: la soddisfazione dei bisogni del figlio.

In tutto l’Occidente, inoltre, vediamo che i figli cresciuti in case senza padri guidano purtroppo il gruppo di testa in tutte le devianze: dalle tossicomanie ai suicidi, agli atti di violenza.

Il fatto è che il padre è indispensabile. Questa recente scoperta, statistica, è il miglior regalo per la sua festa.

La Chiesa e i bambini. A proposito dello scandalo in Germania

Riportiamo, in una nostra traduzione, un articolo pubblicato lo scorso 11 febbraio sulla "Frankfurter Allgemeine Zeitung" dal direttore - psichiatra e teologo - dell'Alexianer-Krankenhaus, ospedale psichiatrico di Colonia.

di Manfred Lütz

L'abuso sessuale sui minori da parte di sacerdoti cattolici è un crimine particolarmente ripugnante. Il sacerdote, infatti, ha un ruolo paterno nei confronti del minore e quindi l'atto ha in sé qualcosa d'incestuoso.
Rischia così di andare persa la fiducia di base nella credibilità dei rapporti umani, e proprio la Chiesa non può rimanere indifferente quando in questo modo viene distrutta o gravemente scossa anche la fiducia in Dio.
Ora, nel 2002 la Conferenza episcopale tedesca ha diffuso delle direttive, in base alle quali tutte le diocesi hanno introdotto una procedura chiara. Sono stati nominati degli interlocutori per le vittime, istituiti gruppi di esperti, chiamati importanti specialisti tedeschi per le perizie. In tutto ciò non ha avuto alcuna importanza l'appartenenza religiosa degli esperti. Due anni fa, poiché erano emerse accuse contro un parroco defunto, l'arcidiocesi di Colonia si è presentata spontaneamente in pubblico per chiedere alle altre vittime di farsi avanti. Con successo. Anche l'apertura nei confronti della stampa, dimostrata ora dal direttore del Kanisiuskolleg a Berlino, segue questa linea.
Riducendo all'essenziale l'attuale agitarsi della stampa tedesca, i casi degli anni Settanta e Ottanta di cui si è venuti ora a conoscenza mostrano ancora una volta quanto siano importanti le misure prese alcuni anni fa. Non sono vere novità. Se il clamore pubblico supera ogni confine, vi sono motivi socio-psicologici. Nella nostra "società senza padre", prefigurata da Alexander Mitscherlich, e in cui tutti rifiutano i compiti di dare regole e di introdurre nella storia, compiti che Freud attribuiva al padre, alla Chiesa cattolica spetta un ruolo poco attraente. Nel vuoto lasciato dalla "assenza interna ed esterna di padri", la pubertà e la protesta cadono nel nulla.
I sessantottini avevano nel cancelliere federale dell'epoca, Kiesinger, un padre sostitutivo da libro illustrato. Oggi, i politici, sostenuti demoscopicamente, evitano qualsiasi protesta e, se necessario, sarebbero disposti a unirsi a una manifestazione di protesta contro se stessi. Anche il padre Stato non esiste più. Soprattutto, i tedeschi, devoti all'autorità, ai quali sono venuti meno per sempre i loro imperatori e le loro guide, aggirano questo vuoto e hanno trovato nella Chiesa cattolica un oggetto sostitutivo contro il quale rivolgere le proteste. Che a capo di questa Chiesa vi siano degli uomini, e a capo di tutto un Santo Padre, facilita la proiezione di tutti i conflitti non vissuti con il padre, della pubertà recuperata, di tutte le proteste non altrimenti indirizzabili, su una istituzione che riconosce delle norme e che non nega la sua identità storica.
Il sesso è il tema preferito della pubertà e, in effetti, quando si tratta di agire contro la Chiesa non di rado appare puberale il contributo ai dibattiti di persone per il resto completamente adulte. Allora, qualcuno per attaccare il celibato non esita perfino a ricorrere alla vecchia tesi macho che "il sesso è necessario". Soprattutto, però, per noi tedeschi la Chiesa cattolica è adattissima a dispensarci dalle nostre responsabilità storiche. Quando Papa Giovanni Paolo ii, allo Yad Vashem, trovò parole commoventi che suscitarono profonda impressione in Israele, ma anche in America, furono soprattutto i tedeschi a criticarlo perché avrebbe dovuto scusarsi in modo più chiaro per la Shoah. Immaginiamo: il Papa polacco, anche lui vittima dell'occupazione tedesca, viene invitato dai tedeschi a scusarsi con maggior vigore per le colpe tedesche! Difficile est satiram non scribere.
Nel 1970 il noto sessuologo Eberhard Schorsch durante un intervento al Bundestag, senza essere contestato dichiarò: "Un bambino sano in un ambiente intatto elabora le esperienze sessuali non violente senza che abbiano conseguenze negative durature". L'ambiente di sinistra coccolava i pedofili. Nel 1969, prima di congedarsi per entrare nella Rote Armee Fraktion, Jan Carl Raspe nel suo Kursbuch elogiò la Comune ii, dove gli adulti spinsero i bambini, nonostante la loro resistenza, a tentativi di rapporti sessuali. Tra i Verdi, nel 1985 vi fu la richiesta di decriminalizzare il sesso con i bambini e nel 1989, la celebre casa editrice Deutscher Ärtzteverlag pubblicò un libro che chiedeva apertamente che venissero permessi i contatti pedosessuali. All'epoca si combatteva in particolare la morale sessuale cattolica in quanto ostacolo repressivo alla "emancipazione della sessualità infantile".
Solo alla fine degli anni Ottanta soprattutto i consultori femministi hanno giustamente spiegato che non esistono rapporti sessuali non violenti tra bambini e adulti. Tuttavia, non è sempre stato facile trovare una via di mezzo adeguata tra banalizzazione e scandalo. Poi l'ondata investì anche la Chiesa cattolica e molti suoi rappresentanti non riuscirono più a capire il mondo. Se fino a poco prima coloro che avevano sostenuto la decriminalizzazione della pedofilia li avevano messi in ridicolo per la loro morale rigida e del tutto fuori moda, improvvisamente si ritrovavano a essere loro i veri malfattori a causa del loro lassismo.
Anche nel dibattito attuale solitamente viene ignorato il contesto sociale e la Chiesa cattolica viene isolata come capro espiatorio di tutti questi sogni anormali e scandalosi del sesso infantile fatti quarant'anni fa in ambienti alternativi. I critici della Chiesa, e anche alcuni suoi rappresentanti, colgono la gradita opportunità per far suonare il solito disco: la colpa è delle strutture ecclesiastiche, della morale sessuale, del celibato. Non è però altro che un aperto abuso degli abusi, ma soprattutto una pericolosa disinformazione che protegge i colpevoli.
La verità è che tutte le istituzioni che hanno a che fare con bambini e giovani attirano persone che cercano un contatto illecito con i minori. Ciò vale per le associazioni sportive, per le strutture di assistenza ai giovani e naturalmente anche per le Chiese. Uno dei principali esperti in Germania, Hans-Ludwig Kröber, non trova nessuna indicazione di una maggiore frequenza di casi di pedofilia tra gli insegnanti celibi rispetto agli altri. Purtroppo la scienza non ha ancora saputo sviluppare un metodo di screening che consenta di individuare tali persone. Rimane quindi solo l'osservazione responsabile e la pronta reazione in caso di anomalie. In questo le strutture della Chiesa sono perfino d'aiuto. Essa può reagire in modo più coordinato e professionale rispetto a una associazione sportiva locale. D'altro canto, se del responsabile dei giovani che ha commesso abusi in Bassa Baviera si parla solo nelle pagine della cronaca del giornale locale, quando si tratta di un parroco ci sono titoloni in tutto il Paese. Giustamente, dato che si tratta di un grave reato. Però in questo modo viene creata un'immagine distorta per quanto riguarda la frequenza.
Inoltre, la combinazione di sacralità, sessualità e volti di bambini certamente suscita sempre particolare attenzione. Qualunque cosa si possa pensare della morale sessuale cattolica, anche nei tempi della banalizzazione della pedofilia, essa era, per chiunque la rispettava, un baluardo contro l'abuso dei bambini. E citare in questo contesto il celibato è un atto particolarmente irresponsabile. In una conferenza che si è tenuta a Roma nel 2003, i principali esperti internazionali - tutti non cattolici - hanno dichiarato che non esiste un collegamento tra questo fenomeno e il celibato.
Certamente il riferimento al celibato non di rado rientra nelle menzognere strategie di discolpa di quanti commettono gli abusi. Naturalmente si favorisce la causa dei colpevoli, anche in modo non intenzionale, se ora si diventa preda di un "furore di autoflagellazione" (Kröber) e si fa rivivere la caricatura del vecchio mito dei gesuiti - segretezza, "trattamento individuale" intensivo - citandola come possibile causa. Ovviamente tutti i contatti a due possono essere strumentalizzati da quanti commettono gli abusi. Il dieci per cento degli psicoterapeuti prima o poi supera il confine dell'abuso. Ma la psicoterapia stessa non è responsabile dell'abuso, proprio come non lo è la cura delle anime ignaziana, anche quella rivolta agli scolari.
Occorre sfruttare senza paraocchi le scoperte della scienza, prendere misure protettive e preventive e cercare la trasparenza. Qualsiasi vescovo che oggi volesse ancora nascondere sotto il tappeto una qualunque cosa in questo campo dovrebbe avere perso completamente il senno. A noi tedeschi, però, bisogna augurare di trovare finalmente il coraggio di rinunciare alle solite proiezioni quando si tratta di questo tema serio e di accettare la banalizzazione degli abusi sessuali sui bambini che è stata compiuta per lungo tempo come parte della colpa di tutti noi. Si può prendere esempio da Eberhard Schorsch, che nel 1989 ha preso pubblicamente le distanze dalla sua affermazione sconsiderata del 1970.


(©L'Osservatore Romano - 17 febbraio 2010)

Se la spiritualità si può misurare con la Tac

Il «dottore invincibile», Guglielmo di Ockham, già nel XIII secolo aveva chiaro qualcosa, che oggi è patrimonio di buona parte della scienza: «Primo: non moltiplicare gli elementi più del necessario; secondo: non considerare la pluralità se non è indispensabile; terzo: è inutile fare con più cose ciò che si può fare con meno». Il famoso rasoio, principio economico per indagare i fenomeni, senza farsi influenzare da elementi estranei e superflui.
Una posizione filosofica, che ha poi preso il nome di riduzionismo, al centro del dibattito scientifico da molti anni, in particolare per le ricerche sulla mente. I seguaci di questa scuola studiano la mente analizzandone i processi singolarmente, attraverso le leggi della fisica, come si farebbe per qualsiasi altro oggetto. Ciò è possibile riconducendo tutte le manifestazioni e le proprietà della mente alle caratteristiche fisiche del cervello: la pietra tombale sul dualismo anima e corpo, in nome della supremazia del secondo sulla prima.
E fin qui, nulla di male. Ma al di là della disputa filosofica, questo approccio alla scienza, e il conseguente modo in cui se la immagina il grande pubblico, è oggi ancora predominante. È proprio di ieri la notizia di una scoperta italiana, capofila un ricercatore dell’Istituto Scientifico «E. Medea», pubblicata sul numero di febbraio della rivista Neuron: identificate le basi neurali dell’auto-trascendenza. Lo studio evidenzia come alterazioni patologiche dei circuiti nervosi, nelle aree temporo-parietali dei due emisferi del cervello, possono causare disturbi del comportamento e del pensiero spirituale. In pratica è stato somministrato un test relativo alla percezione della trascendenza e della spiritualità ad un gruppo di 88 pazienti con tumori cerebrali, prima e dopo la rimozione chirurgica della lesione. È risultato che i pazienti cui era stata rimossa la lesione nella parte posteriore del cervello hanno ottenuto risultati migliori nei test: quindi si sono identificate le aree maggiormente associate all’aumento di auto-trascendenza.
Ecco: questo studio dice che la spiritualità è legata ad aspetti fisici, alla struttura neurale e alla percezione del nostro corpo che essa ci dà. Non è una scoperta da nulla, sia chiaro, ma dobbiamo prestare attenzione all’idea che, a volte, può uscire da notizie di questo tipo. Perché quell’idea ce la portiamo dietro a lungo.
Quando leggiamo: scoperto il gene della felicità o della matematica, trovato il neurone che ci fa sentire magri, belli, brutti... Quando leggiamo notizie così, stanno accadendo due cose. Primo: i ricercatori lanciano la bomba mediatica, alzando i toni per raccogliere notorietà e quindi poter attirare più fondi sulla loro ricerca. Scopo apprezzabile, metodo discutibile. Secondo: la scienza rimarca la sua immagine di sapere riduzionistico, per la verità non condivisa da tutti gli studiosi. Ma il rischio, per i dissidenti, è di sembrare un po’ New Age nelle loro affermazioni, quasi spiritualisti. Eppure non è così.
Il nostro cervello, infatti, opera in modo sintetico e da questo punto di vista lo affrontano molti ricercatori al mondo. Concentrarsi soltanto sugli aspetti fisici e molecolari, del resto, non permette di comprendere certe caratteristiche emergenti, che non sono conseguenze dirette di una struttura fisica, ma sono frutto di interrelazioni fra diversi livelli di complessità, dai geni fino agli aspetti cognitivi. Ogni livello introduce nuove complessità emergenti, il tutto reagisce alla parte e la modifica a sua volta; inoltre la rete nervosa affianca nuove funzioni alle antiche strutture, le integra e le fa agire in parallelo.
A questa idea complessa e molto affascinante di scienza, in grado di coniugare neurobiologia e psicoterapia, geni ed emotività, dedica le sue riflessioni anche Alberto Oliverio, ordinario di Psicobiologia alla Sapienza di Roma, nel suo libro La vita nascosta del cervello (Giunti).
«Questa complessità e concezione olistica del cervello - scrive Oliverio -, spesso ignorate quando si sostiene che esista un rapporto univoco tra una particolare struttura e una specifica funzione, sono anche all’origine del complesso intreccio tra conscio e inconscio. (...) Le neuroscienze, con i loro strumenti, ci stanno progressivamente restituendo un’immagine dei processi mentali più vicina alle descrizioni degli artisti, della poesia, del romanzo, della pittura, dove sappiamo che il non detto, ciò che non appare, è altrettanto importante e significativo di quanto appare».
«Il Giornale» del 12 febbraio 2010

Parola di scienziati: la religiosità fa bene (anche) al cervello. TONINO C ANTELMI

D obbiamo dunque dire addio alle teorie freudiane e a tutte le successive ipotesi che hanno collegato il fenomeno religioso e il desiderio di spiritualità alla psicopatologia, alla nevrosi e comunque a un presunto ' cattivo funzionamento' mentale?
Sembrerebbe proprio di sì, a giudicare da quanto emerge da uno studio dei ricercatori Agostino Girardi e Alessandra Coin della Clinica Geriatrica dell’Università di Padova, diretta dal professor Enzo
Manzato, e pubblicato sulla prestigiosa rivista Current Alzheimer Research .
Senza entrare nei dettagli dello studio, il risultato potrebbe apparire sorprendente: la religiosità, intesa come attitudine alla religione o spiritualità, rallenta la progressione della demenza di Alzheimer, una malattia, come noto, implacabile e sostanzialmente incurabile, caratterizzata dalla progressiva e inarrestabile morte dei neuroni cerebrali.
Date le caratteristiche della malattia, questo risultato non può essere spiegato come un effetto placebo, ma deve essere inteso come un fenomeno correlato con aspetti
neurobiologici. Infatti i malati di Alzheimer appartenenti al gruppo con basso livello di religiosità hanno avuto nel corso dei dodici mesi di osservazione una perdita delle capacità cognitive del 10 per cento in più rispetto a quelli con un livello di religiosità medio- alto.
Questo studio conferma analoghe ricerche: già nel 1988 Koenig aveva dimostrato un effetto protettivo della religiosità rispetto alla demenza. Secondo i ricercatori italiani, comunque, sembra essere proprio la ' religiosità interiore' il fattore in grado di rallentare la perdita cognitiva attraverso fenomeni neurobiologici specifici.
Dunque la religione e la spiritualità non soltanto non sono fenomeni patologici, come molti incauti psicologi ancora oggi tendono ad affermare, ma costituiscono persino un fattore protettivo per la salute in generale e per quella mentale in particolare.
In effetti è da circa due decenni che si vanno accumulando prove in questo senso. Nel 1999 Hummer dimostrò che coloro che
frequentano le funzioni religiose almeno una volta alla settimana hanno un’aspettativa di vita di sette anni maggiore e nel 2003 Powel rese noto che coloro che frequentano regolarmente attività religiose hanno una riduzione della mortalità del 25 per cento. Sostanzialmente, al di là dei dettagli, possiamo affermare che in vent’anni di ricerche è stato ampiamente dimostrato che la religiosità è un fattore protettivo per molte malattie, fisiche e mentali. È come se le dimensioni religiose e spirituali fossero ' proprie' del cervello e della mente umana e perciò insopprimibili: la loro inibizione avrebbe un prezzo per la salute mentale e fisica, mentre al contrario la loro attivazione sarebbe indicativa di un buon funzionamento cerebrale e mentale, e pertanto benefica per la salute. E peraltro alcune recenti osservazioni di neuroimaging
sembrano confermare questa suggestiva interpretazione, con buona pace di ogni tentativo di patologizzare l’irriducibile bisogno religioso dell’uomo di ogni tempo.






«La fede, un aiuto contro l’Alzheimer»
L’Università di Padova: «Chi crede sta meglio»


DA PADOVA

FRANCESCO DAL MAS

L’
Alzheimer conduce, progressivamente ma inesorabilmente, alla morte. Non ci sono ancora farmaci in grado di tamponare la malattia. Semmai, in qualche misura, la rallentano. Ma un antidoto contro la demenza senile è anche la fede, la religiosità, la convinzione nel soprannaturale. Il fatto di coltivare la speranza che la vita non si concluda con la morte, per cui non ci si lascia catturare dalla disperazione. Con un singolare valore aggiunto: chi è religioso fa pesare meno la sua disabilità su chi lo assiste. È una scoperta medico-scientifica, quindi 'laica'. Porta la firma di Agostino Girardi e Alessandra Coin, ricercatori della Clinica Geriatrica dell’Università di Padova diretta dal professor Enzo Manzato. Lo studio è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista 'Current Alzheimer Research' che, prima di riportarlo in rete ha voluto verificarlo perfino nelle virgole, per assicurarsi che i medici non si fossero lasciati prendere dalla suggestione. Che cosa hanno riscontrato?
«Che i malati di Alzheimer appartenenti al gruppo con basso livello di religiosità - sintetizzano - hanno avuto nel corso dei 12 mesi d’indagine una perdita delle capacità cognitive del 10% in più rispetto a quelli con un livello di religiosità medio-alto». Alla
clinica di Padova fanno riferimento 2 mila pazienti, che due o tre volte l’anno si fanno visitare dai 7 medici del centro. La ricerca è stata condotta su un campione di 64 pazienti affetti da Alzheimer in differenti stadi della malattia. Ammalati che sono stati monitorati per 12 mesi nella progressione della demenza, dopo che gli ammalati erano stati suddivisi in due gruppi: quelli con un basso livello di religiosità, e quelli con un moderato o alto livello di religiosità (suddivisione ottenuta grazie al Behavioral Religiosity Scale - BRS, ovvero una serie di test volti a misurare il comportamento religioso). «Le malattie neurodegenerative come il morbo di Alzheimer non sono guaribili, farmaci e condizioni particolari di vita possono solo rallentarne la progressione – spiega il professor Manzato –. È noto che gli stimoli sensoriali provenienti da una normale vita sociale rallentano il decadimento cognitivo, ma nel caso dello studio riportato sembra essere proprio la religiosità interiore quella in grado di rallentare la perdita cognitiva. Non si tratta quindi di una ritualità cui si associano determinati comportamenti sociali, bensì di una vera e propria tendenza a 'credere' in una entità spirituale». Il motivo di questa incidenza?
Sarà oggetto di un nuovo studio medico e scientifico. In clinica, infatti, si sono tentate le più diverse spiegazioni: dall’atteggiamento psicologico alla risposta degli ormoni, passando per i risvolti immunitari. «Vogliamo vederci chiaro, anche da questo punto di vista – prosegue il direttore della clinica geriatrica. Non dimentichiamo - prosegue il professor Manzato – che queste
persone hanno bisogno di familiari, infermieri o badanti che le assistano quotidianamente, e il nostro studio dimostra come questi caregivers siano sottoposti a uno stress minore quando l’ammalato sia un credente».
Conclude Manzato: «Certo, di Alzheimer non si guarisce, non allo stato attuale delle conoscenze, ma questo apre nuove possibilità per capire come influire in modo benefico sull’inesorabile decorso della demenza».

Una ricerca scientifica mostra che la religiosità rallenta la perdita cognitiva tra i malati
Analizzati 64 pazienti che sono stati suddivisi in due gruppi, in base al diverso atteggiamento verso il soprannaturale




Avvenire 27 gennaio 2010

Single e bamboccioni: in crisi è la relazione tra uomini e donne

di Claudio Risé
Tratto da Il Mattino di Napoli del 18 gennaio 2010
Tramite il blog di Claudio Risé

In qualche città italiana, cominciando da Milano, il numero delle persone che vivono da sole, i cosiddetti single, ha ormai superato quello di chi vive in coppia, o in famiglia.

In Italia, oltre un quarto delle famiglie è costituita da una sola persona. Sarebbe però affrettato spiegarlo solo con la «crisi della famiglia».

Questo fenomeno, che forse si avvia a riprodurre in Italia lo scenario di città come New York, Chicago, Boston, rappresenta tendenze assai diverse tra loro. Nell’aumento dei single compaiono varie tipologie.

Dagli immigrati regolari, che inizialmente si registrano per solito come singoli, alle donne, che vivono più a lungo e si ritrovano spesso sole dopo lunghe convivenze familiari, ad altri e diversi fenomeni.

Il nucleo più forte della singleness è però sicuramente costituito dalle aumentate difficoltà nella relazione tra uomo e donna. È a questa fatica di stare insieme che si deve il crescente numero di coppie che si lasciano: ormai circa una su due nelle zone più ricche del Paese, sempre più spesso per iniziativa della donna. Ed è ancora questa difficoltà a far sì che molti giovani (soprattutto donne), decidono di metter su casa da soli, magari dopo aver tentato una convivenza o un matrimonio non riusciti.

A tutti costoro va poi aggiunto il vero e proprio esercito di giovani che rimangono in famiglia per opportunità economiche o di «servizio» (le cure della mamma, per esempio). Sono i cosiddetti bamboccioni di cui parlano le cronache. Meno responsabili, per solito, dei veri e propri single, essi uniscono spesso alla condizione di sostanziale solitudine una forte dipendenza verso la famiglia, in particolare verso la figura materna. Sono i classici pazienti degli psicoanalisti, noti al grande pubblico dalle caricature spietate che ne fa Woody Allen in molti suoi film.

Deplorati dai ministri dell’Economia, per i quali rappresentano un peso morto, i bamboccioni sono però assai popolari, in Italia, presso alcuni giudici, che spesso condannano i padri a mantenere a vita questi figli, anche se non lavorano né si laureano. Come ha fatto di recente il Tribunale di Bergamo che ha ingiunto a un artigiano trentino di 60 anni di pagare gli alimenti alla figlia di 32 anni, fuoricorso da 8 alla facoltà di Filosofia, avuta dalla prima moglie dalla quale aveva divorziato.

Il papà, che ora provvede a una nuova famiglia, l’ha mantenuta fino a 29 anni, e poi ha smesso perché non si decideva a laurearsi (forse sperando di spingerla a farlo).

Anche questa figlia, per sentenza del Tribunale a carico del padre, fino a quando non accetterà di mantenersi da sola, fa parte del variopinto esercito single. Una massa sempre più importante nel paese, e, come abbiamo visto dai volti assai diversi. Con però qualche tratto comune. Uno, assente in qualche raro caso (come quello delle vedove, o degli immigrati in attesa di congiungersi alla famiglia in arrivo), è un livello più o meno alto di conflitto, o almeno di diffidenza, tra uomini e donne. Questo tratto è presente anche nel caso della figlia trentaduenne che fa condannare il padre: vicende simili sono spesso, anche, una tardiva vendetta a favore della madre.

Osservando bene si vede come la condizione di single si sviluppi nelle smagliature (prima ancora che della famiglia) del rapporto tra uomini e donne, che stentano a intendersi, ad amarsi, a fidarsi l’uno dell’altro.

Oggi Adamo ed Eva si allontanano dal giardino dell’Eden ognuno per conto proprio, non sapendo bene che farsene l’uno dell’altro. Con molte paure, a stento mascherate da un’affettività senza entusiasmi e senza gioia.

Come e perchè guardare il Dott. House

Cliccando su questo link ( house ) si accede ad un filmato dove Carlo Bellieni introduce al senso religioso della serie TV “House MD”, che molti ha colpito per le scene in ospedale psichiatrico. E’ un approccio breve, nuovo e stimolante, che vale la pena di seguire.

IL BOOM DI POKER ON LINE E SCOMMESSE. Se l’azzardo addormenta la passione per la sfida. Tonino Cantelmi

TONINO CANTELMI
I
l 3 per cento del Pil in Italia viene bruciato in scommesse e giochi d’azzardo. E il poker on line a dicembre ha superato ogni record.
Infatti nel mese appena trascorso – informa l’Agicos – gli italiani hanno giocato sui tavoli verdi virtuali 241,3
milioni di euro, battendo il precedente primato di 234,1 milioni di euro di ottobre: tra gennaio e dicembre 2009 la raccolta ha quindi infranto il muro dei 2,3 miliardi di euro, confermando il poker come il gioco più praticato via internet. Perché il gioco d’azzardo e la scommessa piacciono? Perché la prospettiva della vincita (specie se casuale e imprevedibile) è un comportamento che attiva il nucleo accumbens (una piccola e molto sensibile area cerebrale) e determina la produzione di dopamina, il neurotrasmettitore del piacere. E il piacere immaginato o provato per una vincita determina la ricerca di ulteriore piacere attraverso la ripetizione del comportamento. Il gioco può perciò diventare una droga e far scivolare verso forme di dipendenza che rischiano di sortire conseguenze devastanti per la vita del giocatore patologico e dei suoi familiari.
Tutto qui? Certamente no. Per la maggior parte delle persone il gioco è sfida, misura di sé, sogno, desiderio, ricerca di felicità a poco prezzo, evasione, emozione e molto altro ancora. Inoltre la disponibilità di bische sempre disponibili e facilmente accessibili, grazie all’enorme potenzialità della Rete, moltiplica all’infinito il fascino magnetico del gioco d’azzardo, e del poker in modo specifico. Tutto senza conseguenze? Non proprio, se pensiamo allo straordinario potenziale alienante dei tecnoparadisi ludici e artificiali.
Tra i protagonisti delle scommesse spiccano gli adolescenti: almeno 7 su 10 giocano e scommettono, in barba a divieti e norme che limiterebbero grandemente il gioco d’azzardo e le scommesse nei minorenni. Tra i giochi più praticati proprio il poker on line, giocato anche in facebook (qui gratis, ma che allenamento allo stile di vita del giocatore!), e i facilissimi 'gratta e vinci'. Sta crescendo una generazione di giocatori che farà impallidire quella attuale. Al di là di moralismi arrugginiti o di allarmi ad effetto, il fenomeno merita una riflessione. La precocizzazione dei comportamenti è una caratteristica dell’accelerazione straordinaria che viviamo e riguarda molti ambiti. E non è senza conseguenze: ogni comportamento dovrebbe essere congruo con lo sviluppo cognitivo ed emotivo­affettivo del bambino e dell’adolescente. Se prendiamo il caso dei giovanissimi, dobbiamo considerare il tipico atteggiamento di sfida, di misurazione di sé, di ricerca di emozioni, di attrazione per il rischio, tutti ingredienti che conferiscono alla scommessa e al gioco un fascino talvolta irresistibile.
Eppure questo non basta a spiegare il fenomeno. Non basta, quando osserviamo un ragazzino acquistare in edicola uno di quei giochi senza fatica come i vari 'gratta e vinci'. Nella sua mente si sta costruendo la convinzione che attraverso strumenti semplici, privi di impegno, totalmente scollegati a ogni merito, è possibile cambiare la vita. Le 'sfide' tipiche dell’infanzia e dell’adolescenza lasciano il posto alla 'ruota della fortuna'. Se nelle sfide c’era la costruzione di sé attraverso l’impegno e il merito, nella 'ruota della fortuna' c’è la deresponsabilizzazione e l’inutilità dell’impegno. Se perdo non comprometto la mia autostima perché è colpa di un sistema cieco, se vinco mi sento eccezionale: massimo risultato con il minimo sforzo.
E perché un adolescente, che invece dovrebbe sentirsi attratto dalle grandi sfide in cui impegnarsi, è al contrario attratto dalle bische on line? Forse perché mancano le grandi sfide, trasformate in competitività senza cuore e in efficientismo senza tempo. E forse quello che serve è piuttosto tornare a trasmettere agli adolescenti e anche a noi adulti il sottile piacere delle grandi sfide. È questa, dunque, la 'scommessa' finale: saremo sempre più risucchiati da luccicanti poker on line o sapremo riscoprire il fascino delle sfide che la vita ci propone, riaccendendo la passione?

Avvenire 8 gennaio 2010

La spinta al miglioramento di sé

di Claudio Risé
Tratto da Il Mattino di Napoli del 4 gennaio 2010
Tramite il blog di Claudio Risé

È giusto fare buoni propositi all’inizio dell’anno? Opinionisti affermati e psicologi ironici sconsigliano di farlo.

Tanto, poi, non li seguiremmo, e l’amarezza della frustrazione farebbe più danni della cattiva abitudine. Reso il dovuto omaggio all’ironia, non credo che questo sia un buon consiglio.

Simone Weil ricordava che l’educazione ci chiede di dare (darci) degli obiettivi ideali. Non averli, oltretutto, è anche deprimente, come bene illustrato dall’attuale condizione giovanile.

Educarsi e rieducarsi, combattendo le abitudini dannose accumulate, fu sempre una delle principali passioni umane, in ogni cultura. Anche perché migliorare noi stessi, le nostre giornate, le nostre abitudini, è comunque più facile (dunque più gratificante) che cambiare le tendenze degli altri.

È più facile perdere cinque chili che vincere la lotta contro l’aumento dell’obesità. Questa spinta al miglioramento di sé (di cui i «buoni propositi» sono da sempre uno strumento) si affievolisce però, fino a diventare oggetto di derisione, in civiltà nelle quali le passioni si spengono. Ma non è mai un buon segno. Come testimonia il moltiplicarsi, proprio in questi periodi poco vitali, di personaggi mentalmente deboli, che presentano passioni sgangherate (come negli episodi che hanno colpito, nelle ultime settimane, prima Berlusconi, poi Benedetto XVI). Quasi a riempire, con le loro emozioni distruttive e mentalmente disorganizzate, il vuoto di passioni autentiche di masse ormai disincantate.

Per queste operazioni di ripulitura e disintossicazione personale l’inizio dell’anno, con l’atmosfera di statu nascenti da cui è pervaso (tutto è possibile, proprio perché il «tempo nuovo» è appena cominciato, e nulla è ancora accaduto), è sempre stato riconosciuto come un momento adatto a darsi nuovi obiettivi.

Come in tutte le vicende dell’uomo, ciò che accade anche fuori, nella natura, può più facilmente accadere anche in noi. Tra poco cominceranno nella campagne i lavori di ripulitura, preparazione e fertilizzazione dei campi, e dei boschi. L’uomo ha sempre considerato, in modo più o meno consapevole secondo le culture, il proprio corpo e la propria psiche come quelle terre da riordinare e da ripulire. Su questa base forte, naturale, poggiano i «buoni propositi» di inizio anno: un tempo nuovo che vuole organizzarsi e fruttificare al meglio, in una terra ancora vergine.

Questa è la «psicologia del cambiamento e della speranza» di inizio anno, dominata dall’immagine del Bambino: Gesù, ma anche l’anno ancora bambino, a cui corrispondono i nostri aspetti psicologici ed emotivi nuovi, che preparano i loro germogli sotto il freddo (anche affettivo) dell’inverno, e potrebbero poi assicurarci nuove e piacevoli stagioni.

A questa visione si oppone però una psicologia del disincanto (di successo crescente nell’ultimo secolo), dominata dall’archetipo del vecchio scettico: colui che sa che ogni cosa finisce, e, quindi, non ha più voglia (e non crede possibile, e neppure desiderabile) di cominciarne di nuovo.

Il conflitto tra le due visioni, della speranza e del disincanto, si appoggia in questo periodo dell’anno su potenti forze contrapposte, all’interno della psiche come all’esterno, nella natura.

Il disincanto possiede anche una sua versione aggressiva: quella rappresentata dall’archetipo del «vecchio re» Erode, che, impaurito dall’immagine del possibile cambiamento, ordina l’uccisione di tutti i bambini nati in questo periodo, per evitare di perdere il trono.

Attenzione dunque: nutrite e difendete i vostri buoni propositi (magari anche nascondendoli ai curiosi malevoli).

Psicofarmaci per bambini Una moda pericolosa. Un abuso che cela l'interesse delle case farmaceutiche

di José María Simón Castellví
Presidente della Federazione Internazionale
delle Associazioni Mediche Cattoliche

Undici milioni di prescrizioni di antidepressivi e 2,5 milioni di antipsicotici ai giovani ogni anno. Negli Stati Uniti la probabilità per un bambino o una bambina orfani di assumere farmaci è sedici volte superiore alla media. E una visita dallo psichiatra su cinque da parte di una persona giovane si conclude con una ricetta di un antipsicotico. Sono i dati raccolti dal nostro gruppo di lavoro; la federazione che ho l'onore di presiedere è preoccupata per l'allarmante aumento delle prescrizioni di psicofarmaci ai bambini, soprattutto negli Stati Uniti.
Tuttavia, l'aumento incessante di tali prescrizioni si osserva in tutti i Paesi del cosiddetto mondo occidentale (300% in più negli ultimi dieci anni). La percentuale dei giovani che prendono uno o più farmaci per il trattamento di problemi di comportamento è del 9% negli Stati Uniti, del 6% in Gran Bretagna e del 3% in Australia. Non si spiegano le differenze che ci possono essere fra un bambino o un giovane australiano e uno nordamericano... Ci si può chiedere se questo tasso di prescrizioni sia giustificato dall'evidenza delle prove cliniche, se tali farmaci siano sicuri ed efficaci, o se sia realmente necessaria la polimedicazione. Sarebbe interessante capire perché c'è una maggiore incidenza di depressioni negli Stati Uniti e in altri paesi ricchi rispetto ai paesi poveri o se i medici che prescrivono di routine gli psicofarmaci seguono i mandati etici e scientifici della medicina basata sull'evidenza.
Le diagnosi di iperattività o di disturbi del comportamento sono frequentemente associate alla prescrizione di antipsicotici, per cui possiamo dedurre che questi farmaci si utilizzano per controllare irritabilità e aggressività e si aggiungono agli stimolanti che paradossalmente si prescrivono contro l'iperattività. Gli studi sull'uso di antipsicotici nei bambini sono pieni di serie limitazioni metodologiche, che includono campioni troppo piccoli, test aperti o scarsa evidenza. In molte occasioni la necessaria "cecità" nelle prove cliniche (né il medico né il piccolo paziente o i suoi genitori sanno se prende un farmaco o un placebo) non si applica o è molto difficile da mettere in pratica. Vediamo alcune spiegazioni dell'aumento delle diagnosi e delle prescrizioni.
L'infanzia e il passaggio alla vita adulta in Occidente sono drasticamente cambiati per molte ragioni ben note alla comunità cattolica: la crisi della famiglia estesa, l'aumento dei divorzi e delle famiglie monoparentali, l'incentrarsi più sull'individuo e meno sulle relazioni interpersonali, sulla famiglia o sulla comunità, i cambiamenti di vita dovuti alla secolarizzazione, al materialismo e al consumismo.
La depressione, l'ansia e le condotte aggressive sono quindi in aumento in Occidente. I comportamenti dei bambini devono essere intesi come un riflesso del loro contesto di vita. L'aumento dei problemi emozionali e di comportamento in bambini e adolescenti ha la sua genesi in una società iperstimolata, dove le immagini dei mezzi di comunicazione saturano il desiderio di sazietà, di felicità e di beni materiali della persona, offrendole aspettative irreali. Quelli che non si adeguano agli standard di comportamento e di controllo definiti dai genitori, dalle scuole e dai governi, si trasformano in "problemi" che si devono risolvere. E la risposta automatica è molto spesso la prescrizione di un farmaco. Il distress del bambino si riduce a una "alterazione biochimica". Man mano che si realizzano sempre più diagnosi e che sempre più pazienti e personale medico si sentono a proprio agio rispondendo con la medicalizzazione, l'alterazione medica diviene strutturale e definisce secondo la propria convenienza la situazione di "normalità" di un comportamento infantile. La medicalizzazione fa aumentare l'influenza degli "esperti" che prescrivono farmaci e, nello stesso tempo, si consolida nella cultura dominante. E le diagnosi possibili sono sempre di più; si è passati da 50 a 400 dal primo Diagnostic and Statistical Manual della American Psychiatric Association.
Purtroppo questa situazione rende molto difficili o impossibili altre terapie o approcci che potrebbero a loro volta recare benessere ai bambini, alle loro famiglie e alla società.
È giusto interrogarsi anche sul ruolo svolto in questo campo dal desiderio di lucro dell'industria. Molti studi clinici sono finanziati dall'industria farmaceutica. Ed esiste una correlazione diretta fra il finanziamento dello studio e i suoi risultati. I centri accademici e le agenzie governative, come pure il discredito pubblico, l'autocontrollo o le sentenze giudiziarie, sono un freno solo parziale alle pratiche abusive di una certa industria. È molto difficile che l'informazione sui farmaci non sia influenzata, in qualche modo, dall'industria che li vende. Per esempio, l'American Psychiatric Association ha ricevuto nel 2006 un terzo del proprio finanziamento (62,5 milioni di dollari) dall'industria farmaceutica ("New York Times", 7/12/2008). Discernere fra buona scienza (che esiste) e buon marketing (che a sua volta esiste) non è sempre facile.
Possiamo di conseguenza affermare che le prescrizioni di psicofarmaci sono in continuo aumento in Occidente, che tale aumento sembra non avere sempre una giustificazione clinica, che il cambiamento di paradigma culturale ha molto a che vedere con ciò e che gli interessi dell'industria farmaceutica spiegano in parte questo aumento. I dati con cui lavoriamo nella Fiamc non sono infallibili; alla loro base c'è, comunque, un lavoro molto completo, fatto in buona fede e tenendo conto della medicina basata sull'evidenza. Non siamo per principio contro l'uso dei psicofarmaci nei bambini; in alcune occasioni sono necessari. Siamo però contrari al loro abuso o uso non corretto. Noi medici dobbiamo pensare sempre ad altre possibilità prima di prescrivere un farmaco a un bambino. Per questo, come si legge nei nostri statuti, collaboriamo allo sviluppo della professione medica e promuoviamo la salute e il lavoro sociale, specialmente nei nostri involontari piccoli pazienti.



(©L'Osservatore Romano - 24 dicembre 2009)

Il corpo e la psiche dei giovani. di Claudio Risé

Tratto da Il Mattino di Napoli del 14 dicembre 2009
Tramite il blog di Claudio Risé

È opportuno che i governi intervengano impedendo o sollecitando nei giovani minori decisioni importanti per il loro corpo e la loro psiche? Due casi attuali.

Da una parte il disegno di legge che in Italia vieterà alle minorenni le protesi al seno per fini estetici. Dall’altro la forte pressione in altri Paesi fatta fin dall’età scolare sugli allievi per informarli dei diversi orientamenti sessuali, e spingerli a fare outing nel caso si ritengano gay. In Italia, la Regione Toscana ha votato già anni fa una legge per spingere ed agevolare questa decisione.

Ora in Svizzera, nel Canton Ticino, è in atto un acceso dibattito sull’introduzione nelle scuole di materiale didattico dedicato all’opportunità del dichiararsi gay per allievi che riconoscano in sé questo orientamento.

Alcuni giornali mi hanno chiesto cosa ne penso e vorrei rispondere su queste colonne.

Le ultime ricerche nelle neuroscienze sembrano aver accertato che il cervello umano non può considerarsi pienamente formato fino ai trent’anni. La notizia ha fatto un certo scalpore, ma non è affatto sorprendente per chi, come lo psicoterapeuta, è quotidianamente in contatto con la mobilità della psiche (e quindi anche del cervello) dell’essere umano, il quale, già adulto, sente spesso il bisogno di cambiare nel giro di pochi anni, la propria vita.

Questi cambiamenti, spesso apparentemente innescati da un nuovo amore, un diverso posto di lavoro, un trauma, o una convinzione morale o estetica, si sviluppano contemporaneamente a modifiche nel funzionamento delle sinapsi cerebrali, che a loro volta rafforzano i nuovi comportamenti.

Il benessere, e addirittura la felicità dell’essere umano sono dunque agevolati da una personalità ed un corpo aperti alle diverse opzioni che possono maturare nella persona nel corso della sua piena maturazione.

È quindi importante che l’individuo mantenga il più a lungo possibile uno sguardo aperto sulle proprie vocazioni affettive, sessuali e professionali, in modo da cogliere e valorizzare nel corso del tempo il senso complessivo delle esperienze accumulate. In particolare, è assolutamente necessario che la persona non compia scelte troppo incisive o determinanti sulla propria vita nell’adolescenza, quando la personalità è bombardata da stimoli esterni ed interni di ogni genere, che dovrebbe prima digerire e metabolizzare, dandosi il tempo di vedere cosa poi produrranno.

Ad esempio nella nostra società dell’immagine, e durante le tempeste ormonali dell’adolescenza, la dimensione del seno può diventare un cruccio, o un obiettivo, che in seguito rientra o si modifica. In quei casi l’intervento con una plastica o protesi, mentre il cervello e la personalità sono ancora in mutamento, genera il più delle volte un senso di insicurezza (spesso inconscio), che riemerge spesso nel bisogno di fare nuovi interventi, sulla stessa zona o in altre, e nello sviluppo della sensazione (più o meno angosciante) di «non essere se stessi».

La ragazza che, desiderato un grande seno, se ne può sentire poi ingombrata, e chi l’ha voluto ridurre, può rimpiangere l’abbondanza perduta.

Così nell’orientamento sessuale lo scambiare la «fase omosessuale» dell’inizio adolescenza, e la sua nota predilezione e interesse per il proprio sesso, per un orientamento di vita, può spingere a collocarsi in una posizione affettiva od erotica che poi si rivela non essere la propria. Per questo, culture meno frettolose della nostra hanno sempre istituito una «zona di protezione» per l’adolescente, naturale soggetto di sperimentazione, e non di scelte definitive.