I «marchiatori» di Torino, pre-cattivi armati da noia e nulla
di Marina Corradi
Tratto da Avvenire del 24 ottobre 2009
«Non ce l’avevano con me. Ero solo il più semplice da colpire. Stavo facendo un disegno in classe, fra la prima e la seconda ora. Avrei dovuto guardarmi le spalle».
Il ragazzino di neanche 14 anni che nella sua scuola di Torino è stato marchiato a fuoco da due compagni la racconta così. Non ce l’avevano con lui, non era una vendetta, né quella 'm' rovente stampatagli su un braccio ha alcun significato. Non vuole dire proprio niente. È un gioco. Di moda: su YouTube ci sono dei video di ragazzi che giocano a marchiarsi. Ce n’è uno di una festa in cui sembrano tutti sbronzi, e si calano i pantaloni, e si marchiano a vicenda. Urlano, ridono.
Paiono divertirsi. Si usa. Gli han fatto solo uno scherzo, al ragazzino torinese del primo anno, che «non si guardava le spalle».
Ciò che colpisce in questa storia non è la cattiveria. Forse anzi non ce n’è alcuna, in quei due quattordicenni dediti in classe a arroventare marchi con l’accendino. Ciò che colpisce è l’assoluta stupidità del gioco. Non è vendetta, non è rito, non è simbolo quel marchio. È noia, è, diremmo, assoluto nulla. Nella stessa scuola torinese, due anni fa un ragazzo disabile fu maltrattato e ripreso dai compagni, e il video messo on line.
Una storia terribile; ma forse anche quella, sospettiamo, generata, più che da una volontà di vessare, dal nulla.
Un’ora buca in classe, niente da fare, come si ammazza il tempo? Il cellulare in mano che riprende, si gioca a far gli scemi, poi uno, per farsi notare, se la prende col più indifeso.
Non è cattiveria, o almeno non ancora. È ciò che accade nel vuoto dei pensieri, delle attese e anche delle ribellioni – è difficile perfino ribellarsi, se nessun adulto ti guida e nessun argine ti stringe. Se ne incrociano, sui tram delle periferie dopo la scuola, e davanti alle discoteche il sabato pomeriggio, di bande di ragazzini vestiti giusti, chiassosi, sguaiati – smarriti, come chi non sa dov’è la festa che confusamente attende. Nessuno gli ha detto cosa fare, dei loro quindici anni. Vanno in giro, si guardano le griffes sulle giacche, si telefonano, si filmano, bevono due birre. Non fanno nulla di male. Anzi: non fanno proprio nulla. (Vien quasi il dubbio che si facciano e facciano del male fisico con certi giochi, come per bucare la parete opaca del niente).
L’altro giorno a Milano è morto un prete, don Giorgio Pontiggia, che ha tirato su generazioni di ragazzi. Amava soprattutto quelli difficili, quelli disorientati. A seguire la bara c’erano cinquantenni che lo avevano incontrato all’oratorio, e che ricordavano come quell’uomo avesse insegnato loro, a 14 anni, a prendere profondamente sul serio ogni desiderio, dalla politica alla tenerezza per una ragazzina. E come la cosa peggiore invece, il nemico vero, fosse il vuoto, la noia, il nulla. In cui ci si perde. Senza nemmeno essere cattivi.
Nell’impoverimento istupidito che livella i pensieri e nega senso e speranza alle ore. Così che, il tempo, occorre ingannarlo. Magari con un gioco da idioti.
Ma non è colpa di questi ragazzi. Non è colpa loro, a 14 anni, se non hanno avuto dei padri e dei maestri. Perché i ragazzi, quasi sempre, se incontrano uno che ne ha a cuore il destino, lo riconoscono. E lo seguono. Ai funerali di quel prete, erano in migliaia. Ragazzi di cinquant’anni, con i capelli grigi. E di quindici, l’acne sulle guance imberbi.
Coetanei di quelli che giocano a marchiarsi. Ma, a differenza di loro, non soli. Non sciolti in quei branchi dei sabato pomeriggio, sguaiati e baldanzosi, e in realtà invece come orfani.