DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

1945: i vescovi alzano la voce contro Tito

Pubblicata per la prima volta in Italia la lettera dell’episcopato jugoslavo, che subito dopo la guerra denunciava la «strage dei preti» compiuta dal regime comunista e rivendicava libertà di educazione e di stampa per i cattolici: «Neppure le croci sulle tombe sono state risparmiate, ma noi non cederemo»
di Francesco Dal Mas
Tratto da Avvenire del 24 novembre 2009

«Noi siamo col nostro popo­lo e custodiamo i suoi va­lori più preziosi e l’intatta eredità dei suoi padri: la sua fede, la sua onestà e le sue aspirazioni di vivere libe­ro sul proprio suolo in concordia e carità con tutti i cittadini di questo Paese sen­za distinzione di religione e di naziona­lità». È il 20 settembre 1945 quando i vescovi cattolici (ben 17, da Stepinac di Zaga­bria al primate della Serbia Dobrecic, da Cekada di Skoplje ai vicari generali di Lu­biana e Sarajevo) emanano la prima let­tera pastorale nella Jugoslavia democra­tica federativa, da leggersi nelle chiese il 30 settembre. Drammatico il riscontro dato delle conseguenze di «queste guer­re fratricide» che «hanno causato un nu­mero maggiore di vittime che non la lot­ta contro i nemici della patria». Ora lo storico Marco Pirina ne ripubblica il te­sto completo nel terzo Registro delle vit­time del confine orientale, fresco di stam­pa per il Centro studi e ricerche storiche «Silentes Loquimur», sottolineando «l’at­tualità del messaggio». Tra le tante denunce dei vescovi c’è, ap­punto, anche «la dissacrazione del foco­lare domestico» da parte del regime. Ma la prima riguarda sicuramente la strage dei preti: «Già durante la guerra è cadu­to un gran numero di sacerdoti – ricor­dano i vescovi –, per condanne delle at­tuali autorità civili e militari». Ma dopo è successo anche di peggio: «Quando ter­minarono le operazioni militari, non ces­sarono le condanne a morte dei sacer­doti cattolici. Il loro numero, secondo i nostri dati, ammonta a 243 morti; 169 si trovano nelle carceri e nei campi di con­centramento, 89 sono dispersi, un tota­le di 491 vittime. A questi bisogna ag­giungere l’uccisione di 19 chierici, 3 fra­telli laici e 4 suore». Uccisi senza nem­meno i conforti religiosi.

I tribunali, secondo quanto scrivono i ve­scovi, hanno proceduto sommariamen­te: «Gli imputati, il più delle volte, non sapevano nulla del­l’accusa a loro carico sino al dibattito. Spesse volte era lo­ro impedita ogni difesa». 28 francescani del convento di Si­roki Brijeg sono stati passati alle armi «senza alcun pro­cesso, sebbene nessuno di es­si avesse preso in mano un fu­cile e tanto meno avesse com­battuto contro l’esercito di li­berazione, come furono falsa­mente accusati, e per questo fossero quasi tutti ben noti co­me contrari ad ogni ideologia fascista». I vescovi, a scanso di equivoci, precisano che pren­dendo le difese di tanti sacerdoti con­dannati innocentemente, non intendo­no difendere anche i colpevoli. Anzi, ri­conoscono che vi furono sacerdoti «ac­cecati da passioni nazionali e di partito, i quali peccarono contro la legge santa della giustizia cristiana e della carità, co­sì da dover rispondere del loro operato dinanzi ai tribunali della giustizia seco­lare». Ma si tratta di un numero «esiguo». Uccisioni a parte, i vescovi informano i fedeli che un «gran numero» di preti si trova ancora «nei vari campi di concen­tramento condannati ai lavori forzati per lunghi anni» e che pure qualche loro con­fratello è colpito: «Sino ad oggi è tolta al vescovo greco-cattolico dott. Janko Sim- rak la libertà, mentre ignoriamo la sorte del vescovo Carevic». Nei campi di con­centramento molti preti «devono com­piere lavori che avviliscono la loro dignità sacerdotale» e «spesso è loro impedito di assistere alla funzione domenicale, seb­bene ce ne sia la possibilità; ancor meno è loro permesso di celebrare il Santo Sa­crificio». Molti altri, che non sono stati deportati, «non sappiamo dove oggi si trovino. Non giova nessuna inchie­sta né ricerca. Dietro di loro è sparita ogni traccia». È sempre più difficile l’attività ministeriale nelle parrocchie. Ma «la seconda dolorosa pia­ga della Chiesa», così la definiscono i ve­scovi, è la chiusura dei quasi cento gior­nali di cui disponeva prima della guerra. Le stamperie cattoliche sono state chiu­se o «condannate all’inerzia». I semina­ri sono inattivi; anzi, a guerra finita ormai da tempo, tanti sono ancora occupati dai soldati.

L’insegnamento religioso delle scuole è diventato facoltativo e solo per un’ora anziché due. Gli istituti paritari rischia­no di essere chiusi. I collegi cattolici, quando non sono inattivi, hanno un commissario alla direzione. I vescovi si dichiarano gravemente preoccupati per l’educazione dei giovani, in quanto alcol e balli vengono concessi con grande do­vizia e la domenica, proprio nelle ore del­le messe, vengono organizzate adunate, assemblee, comizi.

Il matrimonio civile sta progressiva­mente scalzando quello religioso. Anzi, cresce l’annullamento dei matrimoni in Chiesa. Inarrestabile la spogliazione dei beni ecclesiastici. La Caritas arcivesco­vile di Zagabria, tanto per fare un esem­pio, è gestita da un commissario; ha sal­vato, come ricordano i vescovi, circa set­temila bambini, ma «lo Stato non ha fi­ducia nel suo agire». La riforma agraria ha nazionalizzato i beni della Chiesa, attraverso i quali manteneva i propri ministri, i seminari, le scuole. Risarci­menti? Nessuno. «Nemmeno le tombe dei defunti sono state ri­sparmiate – si lamentano i ve­scovi –. Nei cimiteri di Zagabria, Varazdin e di altre città vengo­no rimosse per ordine delle au­torità superiori le croci delle tombe de­gli ustascia e dei soldati tedeschi. Le tom­be stesse vengono livellate col terreno cosicché non è possibile riconoscere do­ve uno è stato sepolto». Confermando tutto il loro impegno per la pacificazione e «il risanamento delle ferite prodotte dalla guerra», i vescovi re­clamano però («e non vi rinunceremo a nessun costo»), «completa libertà» della stampa cattolica, delle scuole, dell’inse­gnamento religioso, dell’associazioni­smo, dell’attività caritativa, «piena libertà della personalità umana e dei suoi ina­lienabili diritti, pieno rispetto del matri­monio cristiano, completa restituzione degli istituti confiscati».

«Eliminazione fisica»: unica ricetta per il clero

Lo storico don Tavano: «Benché predicassero il perdono, ci fu il caso di ecclesiastici umiliati e letteralmente buttati oltre il confine»
di Francesco Dal Mas

«Che l’avversione del potere alla Chiesa non fosse giustificata dalle esigenze della lotta armata risulta ben docu­mentato anche a Gorizia, come nella lettera pasto­rale dei vescovi della Jugoslavia. A guerra finita fu impedito al vescovo di recarsi nelle zone slovene per amministrare la cresima, vennero uccisi i sa­cerdoti Filip Tercelj e Isidoro Zavadlav, il decano di Postumia don Kerhne impazzì per gli interrogato­ri, numerosi sacerdoti arrestati». Lo racconta don Luigi Tavano, già presidente dell’Istituto di storia sociale e religiosa di Gorizia e autorevole ricercato­re sulla storia socio-religiosa dell’epoca. «Quando entrò in vigore il Trattato di pace, il 15 settembre 1947, monsignor Franc Mocnik, nominato dalla Santa Sede amministratore apostolico dei territori sloveni passati alla Jugoslavia, un prelato stimato senza compromissioni politiche, tre giorni dopo venne costretto da un gruppo di giovani comunisti a correre fra schiaffi e sputi fino alla stazione ferro­viaria, dove venne sollevato e gettato oltre il filo spinato sul territorio italiano. Tentò di chiedere spiegazioni alle autorità di Lubiana, ma rientrato a Solkan (Salcano) il 12 ottobre venne di nuovo sca­raventato oltre la linea di confine». Ma il carattere totalitario assunto dal potere nei confronti della Chiesa trovò conferma ben prima, ad esempio col clamoroso arresto dell’arcivescovo Carlo Margotti, che pur aveva nominato vicario generale un prela­to sloveno e il 30 aprile 1945 aveva rivolto un invito a tutti i fedeli, italiani e sloveni, al «perdono» e a collaborare per la ri­presa sociale. L’eserci­to jugoslavo, appena entrato a Gorizia il 2 maggio 1945, arrestò Margotti e dopo alcuni giorni di domicilio coatto lo espulse dalla città con l’accusa di es­sere stato «contrario al movimento di libera­zione nazionale e che la sua condotta politi­ca poteva fomentare la guerra civile». Anche sacerdoti e suore ven­nero arrestate e depor­tate, mentre migliaia di sloveni anticomunisti abbandonarono casa e beni per non cadere in mano ai partigiani ju­goslavi. Nell’arcidioce­si di Gorizia, inserita nello Stato italiano dopo la Grande Guerra, viveva­no 170 mila fedeli sloveni; autoctoni per storia, lin­gua e cultura, presentavano una solida coscienza della propria identità nazionale. «La resistenza alla pressione snazionalizzatrice dello Stato fascista a­cuì questa solidarietà di popolo, sostenuta in par­ticolare dal clero, che aderì facilmente alla lotta partigiana antifascista, avviatasi in Slovenia. Ma ben presto la conduzione di questa lotta – spiega Tavano – venne egemonizzata dal potere comuni­sta. Ne derivò un grave problema di collocazione i­deologica per i cattolici». Dopo l’occupazione ju­goslava la grande maggioranza degli sloveni aderì di fatto, il clero evitò prudentemente di prendere posizioni pubbliche. Come si spiega allora la vio­lenza che lo stesso clero e i fedeli sloveni subirono anche nel Goriziano? «Prevalse il criterio dell’eli­minazione fisica dell’avversario politico – spiega Tavano – anche nei confronti di quanti non condi­videvano le finalità e i metodi di questa lotta. Così anche nel Goriziano si avviò l’eliminazione di membri del clero (Ladislao Pišcanc, Ludovico Slu­ga, Luigi Obit, Antonio Pisk, E. Kete, Rodolfo Tr­cek), ma anche di singole persone che esercitava­no autorità morale e non risultavano allineate al potere partigiano (Vera Lestan, maestra a cui il fa­scismo aveva negato l’insegnamento; Jože Bercelj, artigiano attivo nella società operaia cattolica, uc­ciso con tre figli piccoli). Si costrinsero così i catto­lici a un’adesione, anche solo passiva, mentre il nuovo potere politico rivelava sempre meglio il suo volto».