Prospera la produzione di droga che sotto forma di eroina avvelena l’Occidente e incatena l’Afghanistan a un’economia della morte
di Rodolfo Casadei
Tratto da Tempi del 10 novembre 2009
Attacchi contro gli inermi impiegati dell’Onu a Kabul, agguati ai marines nel sud del paese, credibili minacce di un’escalation del terrore alla vigilia del secondo turno delle elezioni presidenziali: ogni giorno che passa le condizioni di sicurezza appaiono deteriorate in Afghanistan e il valore della vita umana – quella dei civili afghani come quella dei militari Usa e Nato o dei cooperanti internazionali – continua a scemare. Eppure la maggior quantità di morte, dolore e disgregazione i talebani non la stanno seminando per le strade di Kabul, ma lungo quelle di Teheran, Mosca, Berlino, Zurigo, Londra, ecc. E a compiere lo sporco lavoro non sono terrificanti esplosivi nascosti nelle auto o nei giubbotti di attentatori suicidi, ma una silenziosa polvere bianca o marrone: l’eroina. Quindici milioni di tossicodipendenti, quasi 100 mila morti all’anno è il risultato del consumo di 900 tonnellate di oppio raffinato (soprattutto in Iran) e 375 di eroina (soprattutto in Russia e nell’Europa occidentale) prodotte a partire dalle 3. 700 tonnellate di oppio grezzo che ogni anno dall’Afghanistan raggiungono il resto del mondo grazie al controllo che sulla produzione e lo smercio esercitano i talebani. Detto in altre parole: ogni anno muoiono più russi per overdose di eroina (circa 30 mila secondo il governo) di quanti i mujaheddin afghani ne abbiano uccisi nei dieci anni dell’occupazione sovietica dell’Afghanistan (1979-1989) e sette volte più eroinomani appartenenti ai paesi della Nato (10 mila in cifra assoluta) di quanti non siano i soldati caduti in otto anni di campagna afghana (un po’ più di 1. 400, fra i quali 825 americani). Queste e altre cifre da brivido sono contenute in Addiction, Crime and Insurgency: The transnational threat of Afghan opium, l’ultimo rapporto prodotto dall’Unodc, l’ente delle Nazioni Unite per la lotta alla droga e alla criminalità.
Se c’è un fenomeno che Isaf e Restore Hope non hanno saputo controllare in otto anni di presenza in Afghanistan, questo è la produzione di oppio. Negli anni del regime del mullah Omar (1996-2001) la coltivazione era arrivata ad occupare 82 mila ettari di terre coltivabili e a fornire 3. 200 tonnellate di prodotto prima che i talebani accettassero, nel 2001, un accordo con le Nazioni Unite in base al quale avrebbero represso il fenomeno in cambio di aiuti finanziari internazionali praticamente equivalenti al mancato reddito da traffico di droga. Quell’anno in Afghanistan furono coltivati appena 7 mila ettari a papavero da oppio. Dopo l’insediamento del governo Karzai la produzione è ripresa con un’espansione quasi geometrica, toccando un picco nel 2007: 193 mila ettari coltivati, per un raccolto pari a 8. 200 tonnellate. Dopo di allora superfici e produzione sono andate in flessione per un motivo che non ha nulla a che fare con le condizioni di sicurezza e la capacità di fare rispettare la legge nel paese: il mercato mondiale è saturo, non c’è più domanda da soddisfare. L’Afghanistan è arrivato a produrre il 92 per cento dell’oppio coltivato nel mondo, e se non va oltre è semplicemente perché più di così non si vende. Risulta anzi che non tutta la droga prodotta nel paese sia stata smerciata nei mercati finali: secondo i calcoli dell’Unodc manca all’appello la cifra-monstre di 12 mila tonnellate di oppio grezzo, che sarebbe stoccato dentro e fuori dell’Afghanistan per far sì che non scendano troppo i prezzi. Le ragioni profonde di questi fatti sono state più volte analizzate: il mancato controllo del territorio da parte delle forze Usa-Nato nelle regioni del Sud, il mancato arrivo degli aiuti internazionali nelle medesime, una presenza talebana molto organizzata a partire dal 2005, l’alto tasso di corruzione di polizia e guardie di frontiera afghane (si pensi al solo fatto che appena il 2 per cento dell’oppio prodotto in Afghanistan viene sequestrato sul posto, mentre già Iran e Pakistan intercettano rispettivamente il 20 e il 17 per cento dell’oppio afghano che transita attraverso il loro territorio).
I talebani oggi ci guadagnano di più
Le entrate realizzate dai contadini afghani grazie alla coltivazione del papavero sono pari ad appena il 3 per cento del fatturato complessivo dell’intera filiera mondiale dell’eroina, ovvero un miliardo di dollari su 65 miliardi totali. Però l’incidenza sui redditi locali è piuttosto significativa: nell’Afghanistan occidentale le entrate da coltivazione dell’oppio ammontano al 10 per cento del reddito familiare medio, in quello orientale al 21 e in quello meridionale addirittura al 40 per cento. Questo spiega il costante aumento del numero delle persone interessate dai benefici della narcoeconomia: secondo l’Unodc sarebbero raddoppiate fra il 2003 e il 2009, passando da 1, 7 a 3, 4 milioni di unità, cioè un po’ più del 10 per cento della popolazione totale. I talebani, per parte loro, fanno più soldi oggi con l’oppio di quanti ne facevano quando erano al potere: sarebbero passati dai 75-100 milioni di dollari all’anno degli anni Novanta a 90-160 attualmente, provenienti per la maggior parte dalla tassazione dei raccolti, dei fattori di produzione, del trasporto, ecc. Per quanto notevole, la cifra non coprirebbe più del 15 per cento dei “costi” della loro “attività” (secondo l’Isaf il dato sarebbe un po’ più alto, fra il 20 e il 30 per cento), che secondo fonti citate dal rapporto ammonterebbero a 800-1. 000 milioni di dollari. Il resto delle finanze necessarie arriverebbero da altre forme di tassazione (pedaggi stradali riscossi a posti di blocco, imposte sulla fornitura di acqua ed elettricità, ecc.) e da amici dall’estero (Pakistan e Arabia Saudita). Questi dati avvalorano ancora di più l’idea che i talebani abbiano favorito in questi anni l’espansione della narcoeconomia non solo per meglio finanziare la propria lotta, ma per scopi squisitamente politici: legare un numero sempre maggiore di afghani al proprio sistema economico-politico-militare e produrre danni al tessuto sociale degli Stati nemici. Un’ultima tendenza molto preoccupante è l’estensione dei “benefici” del narcotraffico agli Stati vicini: oggi il 25 per cento dell’oppio afghano viene esportato attraverso i paesi dell’Asia centrale, dove sono attive non solo organizzazioni criminali, ma molti movimenti islamisti di lotta armata: il Movimento islamico dell’Uzbekistan, il Partito islamico del Turkmenistan, l’Organizzazione per la liberazione del Turkestan orientale (in Cina). C’è da temere che nel giro di pochi anni questi movimenti siano in grado di armarsi in modo più sofisticato e reclutare più combattenti, così da avviare guerriglie destabilizzanti proprio nella regione del mondo sulla quale più si punta per gli approvvigionamenti energetici del futuro.