DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Visualizzazione post con etichetta droga. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta droga. Mostra tutti i post

Giovani assumono droghe non conosciute


Secondo uno studio dell’Istituto di Fisiologia clinica del Consiglio Nazionale delle ricerche di Pisa (Ifc-Cnr), Espad Italia (European School Survey Project on Alcohol and Other Drugs) condotto nel 2014, emerge uno sconcertante dato. Infatti circa 54 mila studenti delle scuole medie superiori, il 2,3 % dei 15 – 19 anni, hanno assunto sostanze psicotrope senza sapere cosa fossero. In realtà, nonostante il dato sia così preoccupante si tratta solo della punta dell’iceberg.
Sono sempre più preoccupanti i dati che riguardano il consumo di droghe tra i giovani. Secondo alcuni osservatori l’età a rischio si è notevolmente abbassata. Sono molti gli adolescenti, soprattutto tra i 14 e 16 anni che iniziano a fare uso di droghe, soprattutto di spinelli. Curiosità, noia, solitudine, ma anche una reazione alla mancanza fisica di uno dei genitori, la ribellione o il desiderio di dimostrare la loro forza. Questi sono alcuni motivi per i quali decidono di fare ricorso alle sostanze stupefacenti.
Inoltre lo studio mette in risalto la preoccupante quantità di giovani che per distinti motivi si “gettano” nel mondo della tossicodipendenza: oltre 600mila adolescenti hanno consumato cannabis, 60mila cocaina, 27 mila eroina e circa 60mila allucinogeni e, la maggioranza di loro, è rappresentata dalle ragazze.
“La novità dello studio, che ha coinvolto 30mila studenti di 405 istituti scolastici superiori italiani, riguarda proprio il numero significativo di ragazzi che utilizzano sostanze senza conoscerle né sapere quali effetti procurano”, spiega Sabrina Molinaro, una ricercattrice dell’Ifc-Cnr e responsabile dello studio. Questa ricerca viene effettuata ogni anno dal 1999 e nell’ultimo rapporto si è visto come siano aumentati i giovani che consumano abitualmente la cannabis, l’uso della cocaina è diminuito, mentre per quello che riguarda l’eroina i valori sono stabili all’ultimo studio.
“Il 26% degli studenti, oltre 600mila, ne ha utilizzata nel 2014, secondo una tendenza che parte dal 22% degli anni 2009-2012 e passa per il 25% del 2013”, ha concluso la Molinaro. Sempre più giovani si avvicinano al mondo della droga con molta superficialità, in parte legata alla loro giovane età, per l’altra dovuta alla scarsa e incompleta informazione. È per questo che risulta ancora più importante la prevenzione. Sia nelle scuole che nelle famiglie dovrebbe esserci spazio per un dialogo basato sul reciproco rispetto, in modo da impedire la nascita di situazioni che possano spingere gli adolescenti nel baratro della tossicodipendenza.

http://www.interris.it/

Usa: a Seattle arriva il distributore automatico di marijuana, mentre in Italia si dà il via alla commercializzazione. Senza alcuna certezza e molti rischi...


New York, 4 feb. (askanews) - Gli abitanti di Seattle, nello Stato di Washington, possono comprare marijuana così come acquistano bibite in lattina e snacks: usando un distributore automatico. L'unica differenza è che per farlo devono prima entrare in un apposito centro ed esibire una speciale carta d'identità che consente il consumo della cannabis.
American Green, il gruppo dell'Arizona dietro a questa tipologia di distributori, ha spiegato che quello piazzato nel Seattle Caregivers è il primo distributore automatico, climatizzato e capace di verificare l'età dei consumatori. E per chi teme disguidi Stephen Shearin, presidente e direttore operativo dell'azienda, garantisce: c'è sempre una persona che controlla l'identità del consumatore anche se lo scanner di cui il distributore è dotato può verificare i dati anagrafici.
"Non si ha mai accesso alla macchinetta se non c'è nei dintorni un essere umano che verifichi l'identità di un cliente", ha spiegato. L'idea è nata dai distributori di sigarette che si trovano dentro certi bar d'America. Quello di Seattle, si legge in un comunicato, offre "una vasta gamma di marijuana sia per uso medico sia per uso ricreativo, cibi e articoli vari" tutti al sapore di cannabis.


Cannabis, occhio agli effetti indesiderati
di Danilo Quinto e Claudia Di Lorenzi
La Regione Toscana avvia un progetto pilota per la produzione in Italia di prodotti farmaceutici a base di cannabis. Il governo Renzi non presenta ricorso, dunque accetta l'esperimento. Ma, come spiega il professor Pisanu, di "Progetto Uomo", non abbiamo alcuna certezza sulla sua efficacia medica. In compenso si apre il rischio che la produzione di farmaci derivati dalla cannabis sia un pretesto per passare alla liberalizzazione della marijuana. Non per fini terapeutici.

La Toscana avvia un progetto-pilota di fabbricazione di farmaci derivati dalla cannabis nello stabilimento chimico-militare di Firenze. Lo scopo è medico, ma esiste la possibilità che si trasformi in un pretesto per liberalizzare la marijuana. Non a caso i primi ad applaudire all'iniziativa toscana e a proporne l'estensione a tutta l'Italia, sono proprio i radicali.

"Se noi garantiamo l’uso corretto e monitorato della sostanza, che effettivamente può avere effetti benefici ciò è eticamente positivo, perché la salute della persona è un principio inderogabile". Ma "concedendo questa possibilità si apre un meccanismo che ha anche delle ipoteche, sia sulla salute della persona stessa, sia sulla società".

http://www.lanuovabq.it/


Com’è facile fare cose stupide con le “droghe intelligenti”. «Fenomeno allarmante tra i giovani»


Novembre 21, 2014 Benedetta Frigerio
Intervista ad Anna Maria Caputo, direttore tecnico capo chimico della Polizia di Stato: «Sono “smart” perché imbrogliano chi ne fa uso ma anche chi le combatte»

GERMANY SPICE BAN


La tragica morte di Connor Ekhardt, il californiano ucciso a 19 anni dalla “Spice”, contribuisce ad aumentare il livello di attenzione riguardo a un fenomeno ancora semisconosciuto alle cronache ma diffusissimo fra i giovani. Quello delle “smart drugs”, le droghe intelligenti facilmente commercializzabili via internet (e in molti paesi perfino nei negozi) proprio perché ben camuffate da sostanze inoffensive. Come la Spice, appunto, che è spacciata legalmente come prodotto “innocuo” eppure può avere effetti letali. «Il fenomeno da qualche anno sta allarmando sempre più le autorità europee e italiane», conferma a tempi.it Anna Maria Caputo, direttore tecnico capo chimico della Polizia di Stato, direttore della sezione Indagini sulle droghe d’abuso del servizio di Polizia scientifica e della centrale Anticrimine di Roma
.

Dottoressa Caputo, cosa sono queste “droghe intelligenti”?

Sono sostanze potenti, di provenienza naturale o sintetica e dai princìpi attivi sconosciuti, spesso difficilmente identificabili: si tratta di molecole sempre nuove con azione psico-stimolante ed effetti ansiolitici, allucinogeni, convulsivi eccetera. Vengono vendute come spezie, fertilizzanti o miscele di erbe, con nomi diversi che variano da “Spice” a “Fire” a “Orange” o “K2”. Non di rado sulle etichette viene dichiarato un contenuto che non è quello reale.

Perché sono definite “smart”, intelligenti?

Perché ingannano sia chi le usa sia chi le persegue: la percezione è che non fanno male, dato che in fondo non sono classificate fra le droghe pesanti, anche se aumentano le psicopatologie e le dipendenze legate a queste sostanze. Mentre dal punto di vista di chi ne combatte la diffusione, sono “intelligenti” perché tante molecole diverse non sono facilmente rintracciabili nel corpo.

marijuana-legalizzazione

Quanto sono diffuse queste droghe?

L’uso è massiccio, anche se non sembra. Lo si capisce dai sequestri e dalla quantità di siti internet che le vendono. Ma proprio perché queste sostanze sono difficilmente rintracciabili o riconoscibili, spesso chi ne fa uso viene “scoperto” solo in caso di ricovero o di morte. Tutte le nuove molecole sequestrate vengono segnalate al dipartimento anti-droga che poi le passa ai centri di allerta droghe italiano ed europeo.

Solo nel 2011 l’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze ha individuato 600 negozi rivenditori e ben 41 nuove sostanze in tutto il continente. Quando si è cominciato a parlare di queste nuove droghe?

Queste droghe ci sono sempre state, ma sicuramente lo spaccio e il consumo sono aumentati con la cultura liberale nel tempo estremizzata. Il riflesso legislativo lo si ritrova nella depenalizzazione dello spaccio e del consumo di droga. Oggi, da alcuni mesi, siamo arrivati addirittura alla declassificazione della cannabis, con la distinzione fra droghe pensanti e leggere. Così in questi sessant’anni le dipendenze sono aumentate e continuano ad aumentare a livelli allarmanti.

Come sono consumate le nuove molecole? E da dove arrivano?

Cresce il fenomeno del poli-abuso di sostanze, del mix di erbe con l’aggiunta di alcol, addirittura di solventi o di medicinali come l’Oki, che vengono sniffati. Da quando ho cominciato ad occuparmi di droga, nel 1994, la provenienza è rimasta la stessa: allora l’ecstasy si diffondeva grazie ai rave party del Nord-Est Europa, e anche le nuove droghe sono prodotte lì, oltre che in Russia e in Cina.

DROGA, COCA E HASHISH A VIP: 12 ARRESTI, TRA CORRIERI UNA MINOR

Come arrivano in Italia?

Anche in Italia i ragazzi possono comprarle tramite i siti internet per maggiorenni dove i semi di cannabis o di altre erbe sono venduti come fertilizzanti a poche decine di euro. È così, ad esempio, che si possono mettere in piedi coltivazioni di marijuana in casa, attività colpite da sequestri domiciliari frequentissimi. Ma poi ci sono anche negozi come gli “smart shop”, i “grow shop”, i “seeds shop”, che i semi li vendono allo stesso modo, ma sottolineando che non sono destinati all’uso umano, anche se di fatto l’intento è chiaramente l’opposto.

Quelle vendute su internet spesso sono anche droghe chimiche illegali. Le forze dell’ordine non possono fare nulla contro lo shopping online?

Il problema è che con internet la vendita si è diffusa ed è ancora più difficile arginarla: anche se i siti vengono segnalati e oscurati per rintracciare i responsabili, ad ogni indirizzo chiuso se ne apre uno nuovo.

Nell’ultima relazione del Parlamento si legge che tre studenti italiani su quattro, tra i 15 e i 19 anni, hanno fatto uso di droghe almeno una volta. È una cifra allarmante.

Allarmante a dir poco. Lo spaccio comincia prima dei 15 anni: alle medie gira già sia la marijuana sia l’hashish. Da qui si arriva ai mix di farmaci e alcol fino alle dipendenze da droghe classiche. Non è un pregiudizio l’idea che sia una tendenza il passaggio dalla cannabis al poli-abuso.

Come intervenire se è così difficile arginare lo spaccio e se la legge è così permissiva?

Noi della Scientifica facciamo il nostro lavoro di prevenzione e informazione nelle scuole. Ma credo che il problema sia sociale come dicevo: ai ragazzi servono guide, non persone che li lascino fare perché “tanto non è pericoloso”, come si crede erroneamente. Nelle scuole vedo ragazzi sempre più soli, senza riferimenti né famiglie forti alle spalle. Sembra che non sappiano godersi nulla, sono già svogliati prima di cominciare a costruire qualcosa di bello e cercano nello sballo un’evasione facile. Ma questo è un problema di come ti hanno abituato ad affrontare la vita. Basta guardarsi intorno e vedere che cosa viene offerto loro. Quindi noi facciamo il nostro lavoro, che però va completato da chi ha la responsabilità di farlo.


 Tempi.it 



L’85% dei ragazzi beve alcol nei fine settimana, il 75% conosce la cannabis


L’85% degli studenti romani tra i 12 e i 18 anni fa uso di alcol nei fine settimana, il 45% di superalcolici, mentre il 75% ha avuto un contatto con cannabis o altre droghe. Il 27% ammette di procurarsi le sostanze a scuola. Sono i risultati di una ricerca condotta tramite questionari anonimi da “Pari & Impari”, un progetto promosso dal Ceis di Don Mario Picchi, che si occupa di disagio giovanile, in collaborazione con l’assessorato alle Politiche sociali di Roma Capitale. 3.000 i questionari compilati, distribuiti in 15 scuole romane e luoghi di aggregazione giovanile. I dati dell’indagine forniscono anche altri indicatori: l’80% dei ragazzi ha ammesso di fumare sigarette, il 95% ha rapporti sessuali non protetti e il 18% ha confessato di giocare ai videopoker o slot-machine.
Il primo approccio con l’alcol anche a 12 anni
«Il rischio legato all’alcoldipendenza - spiega Roberto Mineo, presidente del Ceis - si presenta in età sempre più precoce, il primo approccio si rileva addirittura a 12 anni, trasformando poi gli adolescenti in “poliassuntori”». Luoghi o ritrovi a rischio per la precoce “ iniziazione” sono rave party, concerti ma anche gite scolastiche. «Ciò vuol dire, prosegue Mineo, che all’alcol si aggiungono via via altre dipendenze, in primis quella da droghe leggere o sintetiche, reperibili soprattutto in luoghi di aggregazione come pub e discoteche. Un vizio che spesso si prende proprio a scuola: è frequentando le superiori, infatti, che si corre il pericolo maggiore di entrare in contatto con chi fa uso di stupefacenti». «Non assumerli - conclude Mineo - può costare l’esclusione dal gruppo».


Corriere della Sera


«Sniffano anche le mamme perfette, le ultraborghesi sofisticate»

MILANO - Per Isabella Ferrari la scelta del personaggio è anche un modo di fare denuncia sociale. Di risvegliare le coscienze. Con il film di Ozpetek, “Un giorno perfetto”, la lente di ingrandimento era puntata sulla violenza alle donne. Quando aveva scelto di essere la voce narrante del documentario “Il primo respiro” si era fatta paladina del parto naturale. Questa volta Isabella punta il dito contro il consumo di cocaina, ma non le piste tirate con biglietti da cento euro nei privé dei locali alla moda di Roma e Milano.

Con “Storia di Laura”, film tv in autunno su Raiuno, l’attrice vuole ricordare che il consumo di coca è ormai talmente diffuso che riguarda tutti. Anche la signora della porta accanto. Ne parliamo via Skype. Lei è ospite di una villa sulle dune di Sabaudia con l’amica di sempre, Monica Bellucci. Una casa affollata di ragazzini, dall’ultimo bebè di Monica a Teresa, la maggiore dei figli di Isabella, che di anni ne ha 15. «Poi ci sono gli amichetti. I grandi si prendono cura dei piccoli, una situazione felice. Una casa di bambini e supermamme», dice ridendo.

È buttata sul letto, una maglietta bianca aderente, shorts blu, piedi scalzi. La stanza è inondata dal sole del pomeriggio, il suo viso sul computer appare sempre più bello. Non ha trucco, i capelli sono trattenuti sulla nuca, qualche ciocca sfugge e incornicia il volto di una donna che ha 46 anni ma ne dimostra dieci di meno. Ogni tanto la voce si perde, lei si sposta col computer in terrazza, dà un’occhiata ai bambini sulla spiaggia, inquadra il cane, cerca di farmi vedere il mare. Si diverte come un’adolescente con queste nuove tecnologie, nello stesso tempo continua a scrivere e annotare, su una serie di quadernetti, brani della sua vita, appunti di lavoro, frasi che legge sui giornali. Uno di questi quaderni è dedicato a “Storia di Laura” ed è ricco di racconti, dati, cifre, statistiche. La più recente, divulgata dall’agenzia di Roma per le tossicodipendenze: nel 2009 in città l’incremento dell’uso di cocaina è stato del 30 per cento.

Quello della coca è un mondo che conosceva? «Questa storia, scritta da Ivan Cotroneo proprio per me, è veritiera, poco rassicurante e... incredibile, è stata accettata dalla Rai. Mi ha fatto scoprire un mondo che mi era estraneo. Per me, da giovane, il drogato era quello autodistruttivo che si faceva di eroina, fino alla morte. La coca invece ti illude di potercela fare, di riuscire a stare al mondo. Ti dà un senso di sicurezza e potenza. Ho avuto amici morti di eroina, ma il giro della cocaina proprio non lo conoscevo».

Come si è preparata per il film? «Ho frequentato un Sert, il servizio per le tossicodipendenze, vicino a Firenze. Maria Rosa De Maria, sorella di mio marito, è la psicologa che mi ha introdotto nel centro, mi ha seguito e spiegato».

Che cosa l’ha colpita di più? «Ho incontrato persone normalissime - mai li penseresti drogati - che mi hanno raccontato la dipendenza dalla cocaina come una delle cose più insidiose. Si sono aperti, e mi piace dirlo perchè mi hanno aiutato molto a interpretare Laura. In alcuni di loro ho visto una via di uscita e sono rimasta in contatto con il centro per sapere chi ce la sta facendo. Poi, due persone che lavorano al Sert sono venute sul set varie volte. Le ho chiamate quando Laura decide di andare a disintossicarsi per uscire dalla menzogna e accettare la sua dipendenza. Perché ti sembra sempre di avercela fatta, invece... Si pensa alla cocaina come alla droga per andare a far festa. Ma non è così».

Racconti. «C’è moltissima gente che tira normalmente sul lavoro: per fare meglio la segretaria, per operare i pazienti, per trovare il coraggio di fare il vigile del fuoco. C’entra la fragilità dell’uomo, sempre più stressato, c’entrano la solitudine e l’impossibilità di ammettere la sofferenza. E soprattutto la troppa competizione. La coca sembra farti passare la paura del disagio, nascondere il tuo lato debole».

Non è più esclusiva del mondo dello spettacolo, di aristocratici e ricchi? «È trasversalissima, tocca tutte le fasce sociali. Ho incontrato la ragazza che non stava bene in famiglia, la moglie depressa, il manager che è riuscito a nascondere per anni alla moglie la sua dipendenza e poi ha perso tutto: il lavoro, la famiglia. E ha dovuto annunciare di essere drogato».

E Laura, il suo personaggio? «È una donna borghese, ha raggiunto uno status sociale invidiabile, una bella casa, due figli, un lavoro. Ma a un certo punto perde il controllo della sua vita per un senso di imperfezione. Pensava di dovere essere sempre all’altezza di quella casa, di quel marito, della società frequentata. Dietro una facciata impeccabile, di bei vestiti e gioielli, aveva sviluppato un grande senso di inadeguatezza. Quando un amico le offre un tiro di coca, lei entra nella spirale. Si ritrova in un mare di bugie, e ne soffre, perché è sincera. La sua è una storia di dipendenza che potrebbe raccontare qualsiasi donna della porta accanto».

A lei, Isabella, la dipendenza fa paura? «Senza dubbio. È sempre in agguato e la conosco bene: dalle grandi storie d’amore, a mia madre. Ma io spero sempre in altri miracoli, non nella coca: spero nell’amore, nella religione, anche nella psichiatria, nell’amicizia. Tutti noi abbiamo bisogno di mezzi per accettate l’imperfezione che fa parte dell’essere umano. Credo che la coca sia l’unico non-miracolo scambiato per miracolo».

Questa diffusione di massa, quanto è influenzata dai modelli che ci arrivano da giornali e tv? «La coca non ti fa sentire la mediocrità che a volte sei costretto a vivere. La mediocrità oggi non è ammessa. Devi adeguarti a un modello prepotente che viene dalla televisione. In questa società tutti hanno bisogno di affermarsi, di non perdere mai. In tv vediamo tette rifatte, donne perfettissime. Mai la normalità, che è sempre imperfetta, asimmetrica. È un mondo irreale ma visibile, inquina la vita di tutti i giorni, gli occhi dei nostri figli».

Illude le persone anche a letto? «La coca serve anche la sera, per fare i gagliardi con gli amici, per corteggiare una donna. Sicurezza e potenza, come dicevo. Infatti spesso è legata a un grande consumo di Viagra. Non li leggo i giornali dove si raccontano gli scandali, il mondo delle veline, delle chiusure delle discoteche... Quello che è successo a Laura non l’ho capito andando nelle discoteche di Milano ma incontrando persone normali. A me interessava la storia di una moglie ideale, che diventa tossicodipendente per una malintesa voglia di vivere. Una dipendenza che non ha colpe e si porta sempre dietro altro, il consumo di psicofarmaci. Questa donna dovrà ricostruire la sua identità, scoprire quello che voleva veramente, ed era quello che aveva sempre avuto».

Com’è possibile combattere la diffusione di questa droga? «La coca si trova in un attimo e ovunque. Dietro c’è un mondo criminale, un giro di soldi inimmaginabile. C’è soprattutto il potere delle mafie con costosissime tecnologie, per produrre e distribuire, che danno guadagni enormi. Nonostante gli sforzi della polizia, sarà difficile interrompere questo flusso di guadagno».

A lei è mai stata offerta? «Devo ammettere una mia totale impossibilità di assumere droghe. Sono troppo sensibile. Al secondo bicchiere di vino già perdo il controllo. E, non amando perdere il controllo, è ovvio che io non posso diventare una potenziale cliente».

Non mi ha risposto: le è mai stata offerta? Lei è entrata a 17 anni nel mondo spettacolo. «Sembrano tempi antidiluviani rispetto a quelli di oggi. Da ragazzina andavo in discoteca il sabato, ma mai vista cocaina, mai il pericolo di una bibita con dentro la pasticca. Anche quando sono arrivata a Roma, no, mai me l’hanno offerta. Forse una volta l’uso della cocaina era più discreto. Poi dipende da chi frequenti».

Ha una figlia di 15 anni. Ha paura? Come la controlla? «I genitori non si accorgono di nulla. Nello stesso tempo ci sono, quindi possono fare la loro parte. Per me significa parlare di tutto, degli articoli sui giornali... Vuol dire coinvolgerli dal punto di vista politico, artistico, umano. Non si può vivere di paura ma penso che la famiglia sia molto potente, nel bene e nel male».

Secondo lei la famiglia non si accorge se il figlio si fa? «Probabilmente sì, se si tratta di eroina o di canne. Ma la cocaina è una droga che nascondi molto bene, e l’ho imparato con questo film. Ho incontrato ragazzine che mi dicevano: mia madre non ha mai capito, il datore lavoro neanche, io però la notte non dormivo, dovevo prendere gli psicofarmaci, poi la mattina facevo molta fatica a rimettermi in moto e quindi avevo bisogno di altra coca».


Come artisti, oggi siete sui tappeti rossi, domani attendete la telefonata per una parte. Questo può creare il bisogno di una spinta, anche chimica, per affrontare la fame di successo? In questo periodo c’è crisi. Alcuni attori come Margherita Buy proclamano di sentirsi disoccupati... «Mi fa sorridere sentire Margherita che si definisce disoccupata, ma è un segnale che ha fatto bene a dare. È la migliore conferma di quello che sta succedendo al cinema italiano. Conosco tanti attori che sono partiti a fare i camerieri a Edimburgo. Ci sono situazioni gravi. Dico sempre agli amici attori e registi: facciamo insieme dei film anche piccoli, autoproduciamoci, affrontiamo strade che prima ci sembravano difficili, può essere che siano vincenti».

Mai scoraggiarsi, insomma. «Tra non molto, ad esempio, ricomincio con il teatro: andrò in scena per sei mesi, rischiando tantissimo ogni sera. Da gennaio con Ennio Fantastichini saremo al Manzoni di Milano con “Il catalogo” di Jean-Claude Carrière. Ma la mia è energia personale, altro che spinta chimica! Io sono fatta così, mi sento più giovane oggi di quando avevo vent’anni. Ho molta voglia di vivere. È il motivo per cui faccio questo mestiere».


21 settembre 2010


© Copyright Corriere della Sera

Se gli insicuri giovani d'oggi rischiano la vita per il Viagra. Nelle nuove generazioni, sempre più insicure, è boom di pillole blu.

di Melania Rizzoli
Nelle nuove generazioni, sempre più insicure, è boom di pillole blu. L'ultima vittima è il chitarrista dei Tokio Hotel finito in overdose. Il desiderio è sempre più indotto. E i farmaci alla lunga possono uccidere

La notizia, riportata dal tabloid tedesco Bild Zeitung, non è che Tom Kaulitz, chitarrista dei Tokio Hotel, sia stato ricoverato due giorni, durante un tour in Asia, per intossicazione da Viagra, ma è che lui lo prenda, il Viagra, avendo Tom solo vent’anni.

Suo fratello gemello Bill, leader della famosissima band musicale, idolo delle nuove generazioni di tutto il mondo, ha raccontato alla stampa, ridendo, che Tom, sotto l’effetto di tre o quattro pasticche, «vedeva doppie anche le ragazze», sintetizzando così i sintomi di sovradosaggio del farmaco che comportano appunto diplopia (visione doppia), sindrome emetica (nausea e vomito), cefalea, tachicardia, oltre che complicanze vascolari, cardiache e cerebrali, negli uomini di età più avanzata e con le coronarie e i vasi a rischio.
Il fenomeno è in costante crescita, poiché molti giovanissimi oggi, ma anche i meno giovani, usano regolarmente le famose pillole blu prima di ogni rapporto sessuale per diminuire, così dicono, «l’ansia da prestazione».

Il farmaco, studiato per le disfunzioni erettili, e lanciato sul mercato da oltre quindici anni, è molto efficace nella sua funzione, e ha risolto i problemi di migliaia di uomini nel mondo, prolungando e rafforzando l’erezione, ritardando l’eiaculazione ed aiutando in maniera efficace la prestazione sessuale degli uomini over sessanta, quando la potenza e lo stimolo sessuale diminuiscono, parallelamente al decremento ormonale specifico.

I pazienti che assumono il farmaco conoscono bene la differenza tra l’uso e il non uso, «è più facile, ed è molto meglio, e poi, vai a colpo sicuro!» dicono regolarmente, ed in effetti, se non vi sono problemi fisiologici di base, che comportino impotenza sessuale patologica, quella pasticca blu è una meraviglia della ricerca scientifica e ha modificato le abitudini sessuali di milioni di uomini, riuscendo ad aumentare la frequenza e la durata dell’attività sessuale fino ad età molto avanzate.

Non solo. In questi ultimi dieci anni il principio attivo del farmaco è stato così elaborato e potenziato da aver prodotto dei derivati più attivi, di pronto effetto, che agiscono cioè dopo circa quindici, venti minuti dall’assunzione orale, con un tempo d’azione più ridotto rispetto al Viagra classico, ma con un effetto più «concentrato», più potente ed efficace.

È il famoso Cialis, che nella versione fast risponde all’esigenza di chi, avendo incertezze od ansie da prestazione, vuole consumare un rapporto sessuale non programmato, deciso all’ultimo minuto, o di chi vuole un «aiuto» certo per una potenza più sicura, più vigorosa e duratura.

È questo il farmaco preferito dai giovani, che ne fanno ormai un uso diffuso e frequente, come se si trattasse di prendere una vitamina, ed iniziano a consumarlo appunto da giovanissimi, pur non avendone fisicamente e sessualmente alcun bisogno, ignari degli effetti collaterali a breve ed a lungo termine che oggi provocano un nuovo fenomeno clinico, quello dei «giovani infartuati» da Viagra che fino a qualche tempo fa non sarebbero mai arrivati all’osservazione medica.
Sono infatti in aumento gli infarti del miocardio negli uomini sotto i quarant’anni, e in un’epoca in cui è ormai più difficile e raro morire d’infarto grazie alle nuove terapie mediche e strumentali, questo trend desta qualche preoccupazione nella comunità scientifica internazionale. Se poi si aggiunge che nella fascia d’età tra i venti e i quaranta le sostanze chimiche assunte con regolarità possono essere varie, ma comunque tutte eccitanti e stimolanti, ecco che l’accumulo degli effetti farmacologici collaterali può provocare serissimi problemi di salute.

Queste compresse per la disfunzione erettile, scoperte casualmente studiando una molecola per l’ipertensione arteriosa, agiscono appunto sul sistema vascolare, sui vasi sanguigni e sui corpi cavernosi del pene, ma anche sui vasi di tutto il resto del corpo, e lì dove c’è una predisposizione o un difetto vascolare (placca aterosclerotica, stenosi venosa od arteriosa, fragilità parietale) l’effetto prolungato e ripetuto, o la dose tossica del farmaco può provocare un danno temporaneo o permanente.

La prescrizione del Viagra e del Cialis, infatti, dovrebbe essere rigorosa, con il rispetto per le molte controindicazioni e con le avvertenze per il paziente sugli effetti collaterali e sulle attenzioni al dosaggio ed alla frequenza di assunzione del farmaco stesso.
Il fatto è che oggi i giovani non vanno certo dal medico a vent’anni a farsi prescrivere il Viagra. Loro si rivolgono direttamente dalla loro vera madre, la rete Internet, dove con un semplice clic, una modica spesa, e soprattutto in anonimato e senza alcuna ricetta medica, ricevono direttamente a casa le miracolose pillole del sesso.
In realtà la maggioranza dei «farmaci» ordinati su Internet è contraffatta, sono una vera bufala, addirittura privi del principio attivo essenziale per la reale efficacia del farmaco o per essere considerato tale, ed agiscono quindi come pillole ad «effetto placebo» sugli ignari ed inesperti ragazzi, ma in genere maschi sessualmente sani, affetti solo da lievi disturbi d’ansia legati all’età e alla scarsa esperienza.

Ma talvolta il principio attivo è presente nelle confezioni inviate e in dosi non regolamentate, con i conseguenti e noti effetti tossici riferiti.

Se poi a questo si aggiunge che i giovani non rispettano per niente le quantità consigliate, assumendo a piacimento più compresse, per eccedere in tutto quello che fanno alla loro età, ecco che spesso si ritrovano ricoverati, con una crisi cardiaca, in erezione continua e con una flebo in vena, come il chitarrista Tom Kaulitz, in qualche ospedale del mondo.

Quello che però nessuna ricerca scientifica analizza o denuncia, è l’aumentata abitudine al consumo automatico di farmaci per qualunque esigenza, soprattutto sessuale. Basta dire che si prova qualcosa, anche solo un’emozione, ecco che arriva il consiglio immediato di una qualsiasi medicina per compensare un evento assolutamente naturale. Nelle nuove generazioni, sempre più ansiose ed insicure, si sta spegnendo anche il semplice desiderio sessuale naturalmente indotto, la pulsione spontanea ed irresistibile verso l’altro sesso, il richiamo istintivo prodotto dalle tempeste ormonali dell’adolescenza e della giovinezza, oltre che dalla stagione primaverile, ed il rapporto sessuale diventa un evento programmato farmacologicamente, a rapido consumo, che perde la sua spontaneità e naturalezza. Diventa artificiale.

Atteggiamenti quali il corteggiamento e la conquista di una donna, che provocano ed aumentano il desiderio sessuale, e inducono emozioni naturali, sono oggi una rarità e vengono sostituiti, con sempre maggior frequenza, da una efficace pillola blu, che si ingoia rapidamente e automaticamente e che riduce e concentra i tempi di azione e di reazione, a vantaggio o a svantaggio di prestazioni sicuramente più vigorose ma forse meno autentiche, e spontanee. Ed alla lunga meno emozionanti.


© IL GIORNALE ON LINE

Droga banalizzata: attenzione.

BBC NewsDrug classification rethink urgedMost  harmful drugs
Il governo inglese ha proposto una nuova classificazione delle droghe, che non si basa sulla "illegalità", ma sulla pericolosità per la salute. Vorrebbe essere una classificazione trasgressiva, dato che vede l'alcol davanti alla marijuana; ma se si legge bene, la marijuana è considerata più dannosa di LSD e ecstasy, la cui pericolosità è fuori dubbio. Eppure si è svolta ieri a Roma e in tutto il mondo la marcia per la legalizzazione della marijuana, di cui ho scritto qui. Ma scherziamo? La bibbia della psichiatria mondiale che sta per essere edita nel 2010, il DSM V, toglie il termine "dipendenza" (troppo legato al fisico) e introduce quello di "assuefazione", di "disordine" e di "astinenza" parlando di marijuana. E se lo dicono anche gli psichiatri...
postato da: carlobellieni

Afghanistan, virus-killer uccide l’oppio Un «alleato» nella lotta alla droga: le coltivazioni calano del 30%

DI VINCENZO R. SPAGNOLO
« F
ino a qualche mese fa, avevamo previsto per il 2010 un raccolto non molto diverso dall’anno passato. Ma adesso ci sono novità estremamen­te importanti: recentemente abbia­mo verificato in Afghanistan, nelle zone delle colture di oppio, il diffon­dersi di una “pestilenza” che sta col­pendo il bulbo del papavero. Rite­niamo che le province di Helmand, Kandahar e Uruzgan, centri della coltivazione, saranno severamente colpite, probabilmente con una ri­duzione delle coltivazioni da oppio del 25-30%. Una cosa di estrema im­portanza per il Paese e per l’esito po­sitivo della nostra lotta al mercato della droga».
A parlare è Antonio Maria Costa, vi­ce- segretario delle Nazioni Unite e direttore dell’Unodc (United na­tions office on drugs and crime). A fine maggio partirà per l’Afghani­stan, ma in questi giorni è di pas­saggio a Roma. E da qui annuncia l’esistenza di un virus-killer che sta­rebbe sterminando i papaveri, con conseguenze sulla futura produzio­ne del principale “bene” d’esporta­zione di un Paese, l’Afghanistan, do­ve si produce oltre il 90% per dell’e­roina che avvelena il pianeta.
Un virus naturale, come quello che colpisce le palme nei Paesi del Me­diterraneo? O inventato in qualche laboratorio occidentale per porre fi­ne alla narco-minaccia afghana? «U­na domanda-chiave, ma alla quale non so però rispondere – dice Costa
–. Mi risulta che sia un agente natu­rale che uccide il bulbo. Ma co­munque, non sarebbe la prima vol­ta: una decina d’anni fa, un virus si­mile sterminò i papaveri in Uzbeki­stan ». Il calo delle coltivazioni dovuto al misterioso virus seguirebbe quello già registrato, per altri motivi, lo scorso anno. Nel 2009, secondo l’U­nodc, la coltivazione di oppio era già scesa del 22%, interessando una su­perficie di 123mila ettari, rispetto ai 157mila del 2008 e ai 193mila del­l’anno prima. Nel 2010, spiega il vi­ce di Ban Ki-Moon, se l’assassino “biologico” dei papaveri continuerà a fare il suo lavoro, il calo potrebbe essere anche più imponente.
Ma in terra afghana e nei Paesi con­finanti potrebbero registrarsi di­verse conseguenze, da non sotto­valutare: «Ci sono implicazioni di tipo economico e strategico. Ov­viamente, i contadini che coltivano il papavero e raccolgono l’oppio sa­ranno colpiti e perderanno una im­portante parte del loro reddito: c’è il timore che il diffondersi di questa epidemia, che è una malattia natu­rale, possa indurre una parte dei contadini ad affiancare gli insorti. D’altra parte, sappiamo che i tale­ban conservano uno stoccaggio di oppio e di eroina molto grande. Il possibile aumento del prezzo do­vuto alla moria dei papaveri di que­st’anno rivaluterebbe le loro scorte, dando loro la capacità di rafforzare le proprie capacità belliche. Spe­riamo che le forze di guerra e di pa­ce presenti in Afghanistan, ossia la
Nato, ma anche le organizzazioni internazionali che assistono la po­polazione, possano contribuire al­l’economia delle regioni colpite per permettere ai contadini di soprav­vivere allo choc economico deter­minato dal virus che uccide i papa­veri ». Un anno fa, Costa aveva anche in­vocato l’aiuto delle forze Nato per la distruzione dei depositi di stoccag­gio. «Distruzione che è avvenuta in­tensamente nel 2009, quando sono state compiute oltre 200 operazioni militari contro i laboratori, i convo­gli di droga e lo stoccaggio – spiega il direttore dell’Unodc –. Nel 2010, invece, le operazioni militari nella provincia di Kandahar sono state così imponenti da porre in secondo piano qualsiasi intervento contro i signori della droga».

© Copyright Avvenire 1 maggio 2010

Droghe ingannevoli. Giovani in pericolo

di Pino Ciociola

Deodorano e/o... sballano, costando quattro soldi: cosa chiedere di più? Smart drug le chiamano, che suona giovane e psichedelico: sono una nuova frontiera per dare più lavoro agli ospedali. Pulita, facile e, per gli smart shop, i negozi dove si acquistano, assai remunerativa: pulita perché legale, facile perché l’obiettivo prevede quasi solo ragazzini fra 13, 14 e al più 18 anni, assai remunerativa perché garantisce un bel po’ di soldi.
Per carità, tutto in piena regola, almeno finora: prendiamo l’Infinity (dodici euro al grammo e chiunque può mettersela in tasca), un deodorante, un «profumatore d’ambiente» il cui aroma «potrebbe donare alcune ore di piacevoli sensazioni di contatto e armonia con la natura», suggerisce il sito www.alchemico.com, naturalmente invitando a usarlo secondo le sue finalità. Peccato che anche i muri degli smart shop ormai sappiano come in realtà i giovanissimi lo acquistino per fumarlo (o sniffarlo) e che i suoi effetti risultino fino a dieci volte più potenti di quelli della cannabis.
Certo, ci si può sballare anche sniffando colla o la benzina nel serbatoio del motorino. Però né la prima, né la seconda si trovano in uno dei 157 negozi in Italia (e nei loro siti internet) che vendono – sempre legalmente – anche ogni genere di kit e pipette per sniffare e fumare, semi, prodotti e manuali per la coltivazione casalinga e accurata della marijuana, della canapa indiana e di funghi allucinogeni (comprese lampade per tenere alla giusta temperatura le piantine). Tutto l’occorrente dunque per il fai-da-te dello sballo: dal primo all’ultimo passaggio. In vendita si trovano dunque sostanze pubblicizzate dunque miscele aromatizzanti per l’ambiente, ma anche semi di piante tropicali che provocano allucinazioni e si comprano legalmente. Appunto, una variegata gamma delle smart drug (o bio-droghe, all’italiana), letteralmente "droghe furbe".
E serve a poco rincorrere le sostanze con le attuali velocità e capacità. "Spice" e "N-Joy", profumatori d’ambiente fumati e inalati da chi è in cerca di sballi legali, da pochissimo sono state inserite nelle tabelle ministeriali delle sostanze stupefacenti, tuttavia hanno già un erede in commercio e sul mercato. Si chiama "Infinity" ed è un mix di piante esotiche e sostanze aromatiche con tutte le carte in regola, visto che è sostanza molto simile alle precedenti, dalle quali differisce solo nella formula chimica, ancora più potente che in passato. Per i tossicologi questa "tecno-cannabis" – cioè riprodotta artificialmente in laboratorio – «si lega agli stessi recettori cerebrali dei cannabinoidi con effetti analoghi o superiori a quelli del Tch, il principio attivo presente in ogni spinello». Ma, soprattutto, ha effetti collaterali e ricadute sulla salute ancora sconosciuti. E neppure è rilevabile nelle urine e nel sangue.
Intanto gli smart shop sanno come mettere (legalmente) le mani avanti: «Non intendiamo istigare o favoreggiare l’uso delle sostanze vietate dalla legge, ma esclusivamente informare la clientela secondo il legittimo diritto di libera manifestazione del proprio pensiero sancito dalla Costituzione». Così vendono cartine di ogni tipo e narghilé, le pipe della tradizione africana, serre e lampade, concimi e fertilizzanti e vasche d’irrigazione per coltivare i semi di marijuana. E la "clientela" – quando non finisce in ospedale come i sei casi solamente nel marzo scorso – ringrazia.
«A 14 anni nel baratro. Non cedete alle sirene»
Venne fuori la voce che all’Alchemico, a Riccione, si vendeva quella roba, noi già ci facevamo le canne...», racconta Franca (nome di fantasia, ndr, 22 anni, cesenate, minuta e carina. Mentre ti guarda dritto negli occhi. Perché di sbagliare poteva capitare – può capitare – a chiunque: specie a una ragazzina di 14 anni, specie se il papà non l’ha conosciuto perché abbandonò la madre quando rimase incinta. «Spesso, la mattina marinavamo la scuola, prendevamo il treno per Riccione e andavamo a comprarla» quella roba. La salvia divinorum (oggi fuorilegge): «Ci avevano detto che era un allucinogeno molto potente e che era legale». Avevano detto loro il vero: da 5 a 25 euro di spesa e lo sballo era servito.
«Poi non rimanevamo a Riccione – continua Franca – tornavamo a Cesena, ci sedevamo ai giardinetti vicino alla scuola, fumavamo la salvia, bevevamo tantissimo e stavamo lì...». Tre, quattro, cinque ore. I soldi? «A quell’età spacciavamo un po’ di fumo. E io comunque lavoravo: in un ristorante e, a volte, in uno studio fotografico». Stessa storia altre volte, però di sera: «Andavamo a ballare dalle parti di Rimini o di Riccione, prima passavamo dall’Alchemico», che per mantenere florido il business aveva «un distributore automatico» nelle ore di chiusura. Alchemico, cioè una catena di negozi dalle insegne accattivanti e colorate, che da un bel pezzo vendono – legalmente – deodoranti ambientali, ma anche cibi, oggetti, semi, libri e quanto fa parte della "cultura" delle sostanze psicoattive: hanno il deposito a San Marino e punti vendita a Milano, Bologna, Trieste, Latina, Rimini e, appunto, Riccione. «Noi coltivavamo l’erba, grazie ai semi che compravamo all’Alchemico».
Il punto era per Franca lo sballo, né più, né meno. Unica alternativa allo «stare male», come definisce e ricorda quegli anni: «Io conoscevo soltanto lo sballo e quello mi andava bene. Ero anche molto distruttiva, sempre portata agli eccessi. Non capivo che era pericoloso, sebbene più tardi, forse verso i 15 anni, me ne rendevo conto». Non importa. Non serve. Franca non si ferma. Via via manda giù o sniffa o s’inietta «tutto»: dall’eroina alla cocaina, dall’ecstasy alle droghe sintetiche, dagli acidi, alle pasticche, ai funghi allucinogeni. Spesso due o tre insieme. «Di un anno non ricordo quasi niente, perché ci facevamo di continuo»: quello fra i 16 e i 17.
Alla fine, ad un soffio dal baratro, smette. «Già volevo farlo, perché una ragazza che era nel mio giro, con la quale ero sempre insieme, andò in overdose e la ricoverarono in ospedale». Non tocca solo a lei, ma anche ad altri, che via via crollano, perché ogni fisico ha un limite. Neanche questo basta. Un giorno, quando frequenta la quinta superiore, la madre scopre che a scuola non va praticamente più da tanto tempo: «Tanto, quando andavo, due ore dormivo, due ore vomitavo e due ore ero in astinenza». La mamma scopre tutto, dall’inizio alla fine: «Le dissi – spiega Franca –: "Se non mi credi, guardami le braccia". Quasi svenne a vedere quanti buchi». Da lì a San Patrignano il passo fu meno che breve. «Anche la mia amica era finita in una comunità, lei ce la spedirono appena uscita dall’ospedale, nemmeno la fecero passare da casa».
Cosa pensa Franca, adesso, degli smart shop? «Nell’incoscienza, nel voler strafare che può prenderti a quattordici, quindici anni, sono un buon ingresso in un certo mondo. Un ingresso molto facile». Eppure, in quelli italiani ogni giorno vanno centinaia, migliaia di ragazzini: che cosa direbbe loro, se potesse? «Tirate dritto davanti a quei negozi. Senza entrarci. Perché se cominci, poi smetti o ti droghi pesantemente, non c’è via di mezzo. Ma non ascolterebbero».


«A 14 anni nel baratro. Non cedete alle sirene»
la storia


Franca ora è a San Patrignano: marinavamo la scuola e da Cesena andavamo a Riccione per comprare un allucinogeno che ci avevano consigliato. Poi ai giardini, inseguendo lo sballo

DAL NOSTRO INVIATO A RIMINI
PINO CIOCIOLA
« V
enne fuori la voce che al­l’Alchemico, a Riccione, si vendeva quella roba, noi già ci facevamo le canne...», racconta Fran­ca (nome di fantasia, ndr ), 22 anni, ce­senate, minuta e carina. Mentre ti guar­da dritto negli occhi. Perché di sbaglia­re poteva capitare – può capitare – a chiunque: specie a una ragazzina di 14 anni, specie se il papà non l’ha cono­sciuto perché abbandonò la madre quando rimase incinta. «Spesso, la mat­tina marinavamo la scuola, prendeva­mo il treno per Riccione e andavamo a comprarla» quella roba. La salvia divi­norum(
oggi fuorilegge): «Ci avevano det­to che era un allucinogeno molto po­tente e che era legale». Avevano detto lo­ro il vero: da 5 a 25 euro di spesa e lo sballo era servito.
«Poi non rimanevamo a Riccione – con­tinua Franca – tornavamo a Cesena, ci sedevamo ai giardinetti vicino alla scuo­la,
fumavamo la salvia , beve­vamo tantissi­mo e stavamo lì...». Tre, quat­tro, cinque ore. I soldi? «A quell’età spac­ciavamo un po’ di fumo. E io comunque la­voravo: in un ristorante e, a volte, in u­no studio fotografico». Stessa storia al­tre volte, però di sera: «Andavamo a bal­lare dalle parti di Rimini o di Riccione, prima passavamo dall’Alchemico», che per mantenere florido il business aveva «un distributore automatico» nelle ore di chiusura. Alchemico, cioè una catena di negozi dalle insegne accattivanti e co­lorate, che da un bel pezzo vendono – legalmente – deodoranti ambientali, ma anche cibi, oggetti, semi, libri e quanto fa parte della 'cultura' delle sostanze psicoattive: hanno il deposito a San Ma­rino e punti vendita a Milano, Bologna, Trieste, Latina, Rimini e, appunto, Ric­cione. «Noi coltivavamo l’erba, grazie ai semi che compravamo all’Alchemico».
Il punto era per Franca lo sballo, né più, né meno. Unica alternativa allo «stare
male», come definisce e ricorda quegli anni: «Io conoscevo soltanto lo sballo e quello mi andava bene. Ero anche mol­to distruttiva, sempre portata agli ec­cessi. Non capivo che era pericoloso, sebbene più tardi, forse verso i 15 anni, me ne rendevo conto». Non importa. Non serve. Franca non si ferma. Via via manda giù o sniffa o s’inietta «tutto»: dal­l’eroina alla cocaina, dall’ecstasy alle droghe sintetiche, dagli acidi, alle pa­sticche, ai funghi allucinogeni. Spesso due o tre insieme. «Di un anno non ri­cordo quasi niente, perché ci facevamo di continuo»: quello fra i 16 e i 17.
Alla fine, ad un soffio dal baratro, smet­te. «Già volevo farlo, perché una ragaz­za che era nel mio giro, con la quale ero sempre insieme, andò in
overdose e la ri­coverarono in ospedale». Non tocca so­lo a lei, ma anche ad altri, che via via crollano, perché ogni fisico ha un limi­te. Neanche questo basta. Un giorno, quando frequenta la quinta superiore, la madre scopre che a scuola non va pra­ticamente più da tanto tem­po: «Tanto, quando anda­vo, due ore dormivo, due ore vomitavo e due ore ero in astinenza». La mamma sco­pre tutto, dal­l’inizio alla fine: «Le dissi – spiega Fran­ca –: 'Se non mi credi, guardami le brac­cia'. Quasi svenne a vedere quanti bu­chi ». Da lì a San Patrignano il passo fu meno che breve. «Anche la mia amica e­ra finita in una comunità, lei ce la spe­dirono appena uscita dall’ospedale, nemmeno la fecero passare da casa».
Cosa pensa Franca, adesso, degli
smart shop? «Nell’incoscienza, nel voler stra­fare che può prenderti a quattordici, quindici anni, sono un buon ingresso in un certo mondo. Un ingresso molto fa­cile ». Eppure, in quelli italiani ogni gior­no vanno centinaia, migliaia di ragazzi­ni: che cosa direbbe loro, se potesse? «Ti­rate dritto davanti a quei negozi. Senza entrarci. Perché se cominci, poi smetti o ti droghi pesantemente, non c’è via di mezzo. Ma non ascolterebbero».
«Di mesi interi non ricordo quasi nulla, perché 'ci facevamo' di continuo. Fino a che la madre ha scoperto tutto. Ai ragazzini di oggi direi: tirate dritto davanti a quei negozi. Ma non mi ascolteranno»


COSA SONO
MIX DI SOSTANZE E SEMI TROPICALI: 157 NEGOZI IN ITALIA

È a Roma la più alta concentrazione (10,26%) di smart shop, i negozi specializzati nella vendita di bio-droghe. Al secondo posto c’è Milano con il 4,49%, seguita da Torino con il 3,85% e da Bologna con il 3,21%, come rileva l’Accademia internazionale delle Discipline analogiche. Cioè – come fa sapere la comunità di San Patrignano – 157 negozi in Italia specializzati (oltre a un gran numero di siti Internet nei quali si può acquistare per corrispondenza) in semi di piante tropicali, che sono ufficialmente in vendita per essere piantati e non ingeriti, oltre che tanti mix di sostanze d’acquistare altrettanto ufficialmente come profumatori d’ambiente. A fare i conti invece regione per regione, il primato tocca all’Emilia Romagna (con il 17,31% dei negozi), seguita dal Lazio con il 13,46%, dalla Lombardia con il 12,82% e dal Piemonte con il 9,61%. Le smart drug – spiega Stefano Benemeglio, presidente dell’Accademia – «alterano le percezioni visive, uditive, tattili e temporali, proiettando l’individuo in una dimensione irreale ed esponendo la persona a rischi notevoli», tanto più che «l’alterazione della percezione dell’'io' può generare attacchi di panico: un soggetto può diventare aggressivo verso sé stesso e verso gli altri e può addirittura lanciarsi nel vuoto credendo di poter volare». E infatti nel 2006 a Bari un ventenne, dopo aver ingerito semi allucinogeni acquistati in uno smart shop, si è gettato dalla finestra ed è morto. Fra i prodotti in commercio negli smart shop c’è molto, se non di tutto: dalle ecstasy vegetali alle bevande energetiche, dalla gomma da masticare con «effetti meditativi narcotici» ai biscotti a base di surrogati della canapa e «persino miscele di canapa sativa commercializzata in Italia come deodorante per ambienti, sconsigliandone l’utilizzo per consumo umano». (
P.Cio.)



«Avvenire» del 27 aprille 2010

Ma non dicevano che lo spinello è innocuo?

img]Age of onset of cannabis use is associated with age of onset of high-risk symptoms for psychosis.

Uno studio olandese investiga un gruppo di pazienti schizofrenici. Il 51% di essi aveva fatto uso di cannabis. Lo studio mostra che quando avevano iniziato da giovanissimi l'uso della cannabis, mostravano più precocemente degli altri l'esordio di sintomi di schizofrenia. Nell'articolo ben si spiegano gli effetti della cannabis: dalla perdita di memoria e concentrazione, a ideazioni di panico, paranoia, depressione, spersonalizzazione.



© Copyright Carlo Bellieni

Droga, l’Asia «rinchiude» i suoi tossicodipendenti: la repressione preferita alla riabilitazione, anche con vessazioni e torture

DA B ANGKOK S TEFANO V ECCHIA
« U
no degli inservien­ti usava la fune (di fili d’acciaio in­trecciati) per punirci. A ogni col­po la pelle ci restava attaccata». Questo il ricordo peggiore che Choam Chao ha M’noh, 16 anni, conserva del Centro di riabilita­zione giovanile del ministero de­gli Affari sociali cambogiano. La sua colpa, quella di essere stato schedato come tossicodipen­dente.
Come sottolineato dal recente rapporto di Human Rights Wat­ch, scariche elettriche, frustate, permanenza in catene sotto il so­le cocente sono la 'cura' che Ph­nom Penh riserva ai suoi tossi­codipendenti, tuttavia in tutto il Sud-Est asiatico, come in Cina, uomini e donne arrestati mentre fanno uso di stupefacenti o so­vente anche solo perché sospet­tati di uso o di spaccio sono rin­chiusi i centri di riabilitazione, in condizioni sovente inumane. Sottoposti a tortura, stupri, per­cossi per il semplice fatto di es­sere là, ancora peggio se non si a­deguano al regime del campo o non si dimostrano sufficiente­mente produttivi nelle attività di lavoro forzato.
Si potrebbe pensare che nella grande varietà di sistemi politici, livello economico, diversità di sti­li di vita, culture e fedi il feno­meno tossicodipendenza abbia in Asia un trattamento altrettan­to vario. Se è vero che la tradi­zionale tolleranza ancora oggi
non individua nell’utilizzatore di sostanze stupefacenti un perico­lo a livello di vicinato, la risposta delle autorità è pressoché quasi univoca: repressione. Con poche sfumature, il continente com­batte la tossicodipendenza con strumenti coercitivi.
Ciò può apparire piuttosto scon­tato in realtà chiuse e sottoposte a regimi poco propensi a lascia­re crescere spazi di difformità e dissenso come Myanmar, Cam­bogia, Laos, Vietnam e la stessa Repubblica popolare cinese, che lo si ritrovi anche in Paesi dal pro­filo democratico come Thailan­dia, Filippine, Malaysia è più sor­prendente.
Come nel caso della prostituzio­ne o dell’Aids, quanti si impe­gnano a migliorare la condizio­ne dei tossicodipendenti si tro­vano davanti a politiche schizo­freniche. Da un lato, le agenzie internazionali e gli esperti della salute pubblica a livello nazio­nale affermano la necessità che questo gruppo di popolazione diventi oggetti di specifici pro­grammi di assistenza compati­bili con la loro reale condizione; dall’altro, gli organi di polizia considerano le stesse persone in termini di partecipazione ad at­tività illegali. In questo caso, i tossicodipen­denti – visti come irregolari e non come bisognosi di aiuto – sono sovente isolati, controllati e de­tenuti. Ufficialmente, questo può persino essere indicato come un approccio 'equilibrato', ma è un fatto che in molti Paesi la repres­sione ha molte più risorse e so­stegno politico della riabilitazio­ne. Con costi umani altissimi, co­me suggerito nei rapporti di Hu­man Rights Watch sui centri di detenzione per tossicodipen­denti in Cina e in Cambogia. Ini­ziative che, come in Malaysia, Laos, Thailandia e Vietnam, so­no indicate quali luoghi di cura, ma vengono gestite dai militari e non da personale medico, spes­so non offrendo alcun tratta­mento, se non esercitazioni di sti­le militare e la ripetizione di slo­gan come 'le droghe sono catti­ve, io sono cattivo'. Come sottolineano gli esperti dell’Unodc (Ufficio delle Nazio­ni Unite per la droga e la crimi­nalità) della sede Asia meridio­nale- Pacifico di Bangkok: «Que­ste istituzioni, sebbene identifi­cate come Centri per il tratta­mento della tossicodipendenza, non forniscono alcuno degli in­terventi considerati efficaci per tale scopo. In aggiunta, in molti casi non vi è neppure il tentativo di accertare che quanti sono af­fidati ai centri siano davvero tos­sicodipendenti.
Dall’ultima statistica disponibi­le sul numero delle istituzioni 'riabilitative', elaborata da U­nodc e riferita ai dati del 2006, ri­sultava che nel Laos i centri era­no tre con 900 'ospiti'; 66 centri in Myanmar con 1.500 detenuti; 49 centri in Thailandia, nel 2005, per 2.400 ospiti e altri 17 centri per minori con 3.500 giovani; in Vietnam, tra 60mila e 70mila tos­sicodipendenti risultavano rin­chiusi in 80 centri (quasi equiva­lenti agli 80.414 prigionieri co­muni censiti nel 2007) ai quali andavano aggiunti 35mila dete­nuti tossicodipendenti «Questo tipo di risposta – si dice ancora all’Unodc – indica che i centri sovente rappresentano u­na risposta ibrida all’uso di stu­pefacenti (un reato) e alla dipen­denza (ovvero un problema di salute). Sfortunatamente, di fre­quente i centri non sono né un’a­deguata risposta della giustizia criminale (quando, ad esempio, non viene seguito un procedi­mento giudiziario corretto). Per essere in regola con la legge, nes­suno dovrebbe essere mandato al centro senza una decisione del tribunale e, secondariamente, senza un esplicito consenso».




IL RAPPORTO

«IN CAMBOGIA CAMPI DI DETENZIONE CON ABUSI E SEVIZIE»


«Gli individui raccolti in questi centri non sono curati o riabilitati, ma illegalmente detenuti e spesso sottoposti a tortura». Strutture quindi detentive e coercitive «che non devono essere ammodernate o modificate, ma che devono essere chiuse». Così scrive Joseph Amon, direttore della Divisione Salute e Diritti umani dell’organizzazione Human Rights Watch, che ha pubblicato un rapporto dedicato alla situazione dei campi per la riabilitazione dei tossicodipendenti in Cambogia, successivo a uno simile sulla Cina. Nelle 93 pagine del Rapporto «Skin on the cable» (Pelle sulla fune), diffuso poche settimane fa, Human Rights Watch parla di detenuti picchiati, costretti a subire abusi sessuali e a donare il proprio sangue, sottoposti a dure punizioni. Nel testo si racconta anche di un gran numero di detenuti ridotti in precarie condizioni di salute dal cibo avariato o infestato da insetti, come pure di malattie derivanti dalle carenze alimentari. Oltre a analizzare in dettagli le cure 'riabilitative', che consistono soprattutto in esercitazioni, fatiche, privazioni, con la supervisione di diversi enti governativi, inclusa la polizia militare e civile. Alto il numero dei minori e di individui con problemi mentali tra gli 'ospiti', senza che si tenga conto delle loro condizioni. (
S.Vec.)

© Copyright Avvenire 7 aprile 2010

Marijuana sintetica, nuova droga dei giovani americani

L'ultimo trend che si registra nelle feste degli adolescenti americani non è più quello dello spinello in compagnia, o di fiumi di birra gelata in fusti da 5 litri. E' l'utilizzo di derivati sintetici della marijuana. Sono legali, e possono tranquillamente essere presi dagli armadietti dei medicinali dei genitori.

Conosciuta come K2 o Spice, questa sostanza viene fumata come uno spinello di marijuana, provocando bene o male gli stessi effetti. Ma sembra che abbia molte più controindicazioni dell'erba tradizionale.

La K2 viene creata in Asia e venduta nei negozi americani sotto l'etichetta di incenso a base di erbe. Con un'avvertenza: "K2Herbal sono incensi non adatti al consumo". Viene generalmente venduta in diverse fragranze in buste di 3 grammi.

Si tratta sostanzialmente di una serie di erbe aromatiche spruzzate con una sostanza di sintesi simile al THC presente nella marijuana, e che causa uno sballo del tutto simile. Il problema rispetto al consumo di marijuana tradizionale è che questi produtti non sono regolamentati durante la loro produzione, e potrebbero risultare dannosi per la salute, molto più dell' erba.
C'è infatti il pericolo potenziale che gli utilizzatori di K2 possano inalare anche altri agenti contaminanti e dannosi insieme alla sostanza di sintesi.

"La nostra preoccupazione più grande è che questo particolare agente chimico è creato artigianalmente. E questi scienziati artigianali non mostrano di certo una serie di garanzie che assicurano la qualità del prodotto" sostiene Gaylord Lopez, un tossicologo del Georgia Poison Center.

"Le droghe sintetiche ed i prodotti a base di erbe come Spice o K2 non sono realizzati in un ambiente controllato, ed è come giocare alla roulette russa quando si usano questi prodotti" afferma Dawn Dearden, portavoce della DEA e primo a ricevere rapporti sull'abuso di K2. "Non c'è modo, fuori da un ambiente di laboratorio controllato, di determinare la composizione chimica, gli ingredienti sintetici e le quantità utilizzate, e non c'è modo di determinare con accuratezza quale possa essere l'effetto nocivo".

I primi rapporti di overdose sono giunti dagli ospedali della Georgia nel 2009: più di 20 teenagers sono stati ricoverati d'emergenza con sintomi quali palpitazioni e problemi respiratori. Nel caso più grave, un teenager è caduto in coma. Gli effetti collaterali "secondari" possono essere panico, allucinazioni, nausea, agitazione e pupille dilatate.

La preoccupazione è crescente, tant'è che il Kansas ha proibito la marijuana sintetica all'inizio del mese. Il senatore del Kansas Jim Barnett sostiene di aver ricevuto numerosi rapporti di abuso di K2 e prodotti simili da parte di studenti delle scuole superiori che cercavano metodi di sballo alternativi alla marijuana.
Ed ora si sta considerando il bando in altri stati, come Georgia, Utah, Missouri, Tennessee, North Dakota e Illinois.

In Europa, il K2 è già stato proibito in Inghilterra, Germania, Polonia e Francia, mentre negli Stati Uniti è nella lista delle "principali preoccupazioni" della DEA.


Synthetic marijuana a growing trend among teens, authorities say

Messico. Inferno Ciudad Juárez, dieci morti al giorno e neanche una guerra

Narcos e massacri nella città messicana al confine con gli Stati Uniti
Il sindaco: “Oltre il ponte comanda Obama, questa è terra di nessuno”
MIMMO CANDITO
CIUDAD JUAREZ
Son quasi due milioni di abitanti sotto il sole di fuoco e il vento che ti taglia la faccia a stilettate crude, ma il posto più affollato di questa città di confine tra Messico e Stati Uniti eccolo qui, in uno scatolone bianco di cemento e di vetri verdi: si chiama Laboratório de Ciencias Forenses, vi si entra muti e con i piedi in avanti.

Lo chiamano Laboratorio, ma è soltanto l’obitorio, il deposito dei morti ammazzati. Qui ce ne stanno impilati fino a 300, di cadaveri tenuti al gelo, dentro la puzza greve della formalina che ti chiude la gola. Ho dovuto vedere l’obitorio di Beirut, e quello di Baghdad, e quello di Kabul, e di Mogadiscio, e di San Salvador, di Teheran, fetidi rifugi angosciosi di guerre senza fine, sotto cannonate che facevano ballare i muri; qui però le cannonate non si sentono, il vento che monta dal deserto addossato alle case è anche lui muto, ma Ciudad Juárez è una città in guerra anche senza i muri che ballano.

«Fino all’anno scorso avevamo quindici morti al giorno, in media», mi dice il sindaco. «Qualche volta trenta, altre volte dieci». Non pare nemmeno rammaricato, dà i suoi numeri con la quieta pazienza di una statistica ragionieristica. Però poi s’illumina: «Ah, ma a gennaio e febbraio siamo scesi a cinque morti al giorno». E mi guarda soddisfatto, «Spero che alla fine il conto di marzo confermi, più o meno, questa riduzione». Ma intanto, ieri ne hanno ammazzati altri sette, uno era un agente della Policía Federal, e il Laboratorio è ora circondato, quasi, dai suoi compagni, un centinaio nelle loro uniformi nere, le camionette schierate, alcuni con la faccia coperta dal passamontagna e il mitra al braccio sotto il sole di fuoco. Sotto il sole qui si muore ammazzati.

La guerra di Ciudad Juárez è la guerra delle narcomafie, da qui passano tonnellate di marijuana e di cocaina, senza nemmeno troppi misteri. La droga porta nei suoi sacchi miliardi di dollari, ma nel fondo si trascina anche fiumi di sangue. I morti ammazzati di Ciudad Juárez furono 1800 due anni fa, 2600 lo scorso anno, quest’anno - e siamo nemmeno al terzo mese - sono già 600, senza contare questi sette disgraziati di ieri. Ogni tanto poi la mattanza si concentra su obiettivi precisi, come ricorda la fila di croci rosa al confine con El Paso, a memoria di centinaia e centinaia di donne uccise, spesso dopo essere state seviziate e violentate. Le organizzazioni internazionali hanno più volte gridato al «femminicidio», ma la mattanza non si è fermata, portata avanti con lucida freddezza da persone conosciute o sconosciute, violenti, violentatori, assassini individuali o di gruppo, occasionali o professionisti.

La quotidianità a Ciudad Juárez è difficile: se esci di casa è certo che ti va bene e che ci tornerai, ma può anche accadere che qualcuno - per la tua faccia che, a lui non piace proprio, o per quello che sei, o perché ti hanno confuso con un altro, o perché ti sei trovato dove qualche pallottola se ne andava perduta nell’aria, o comunque perché anche tu sei un delinquente e ammazzi facile - può essere che quel tizio lì con la sua pistola o il suo kalashnikov ti faccia entrare nel Laboratório con i piedi in avanti; le probabilità te le giochi con la sorte.

E quando cala il buio, è meglio starsene a casa. Il coprifuoco - quello delle guerre con le cannonate - qui non c’è; però, è come se ci fosse. E l’ultimo spettacolo del teatro Matrix, la multisala che durante il giorno è affollata di ragazzi con i capelli di gel, quello spettacolo delle 11 di notte e di una sola sala è un’eccezione strana, fatta solo per chi ama giocare duro. «Sono pochi» - mi dice la maschera, con il cravattino e il gilet - «tutte le altre proiezioni finiscono il turno delle 9, e neanche quello ha molti spettatori».

La rotta del narcotraffico un tempo passava per il Caribe; le avionetas cariche di sacchi di juta e di plastica partivano da una delle tante piste di terra perdute nella giungla verde e gialla della Colombia e, superato il mare, finivano per atterrare da qualche comoda parte nella Florida; Miami a quel tempo era una città di violenza che neanche al cinema, morti ammazzati e droga che si sniffava come il caffè cubano preso a colazione. Ci fecero su anche la serie «Miami Vice», con i colori brillanti del cielo blu e le palme sullo sfondo. Poi Washington decise che non si poteva continuare, e mandò nella giungla verde e gialla della Colombia i suoi rangers, gli elicotteri all’infrarosso, i commandos che possono ammazzare senza nemmeno chiedere chi sei. E la rotta si chiuse. E si trasferì quaggiù, dove il Messico combacia con il Texas e a dividere i due paesi c’è soltanto un fiume grigio chiaro, che gli americani chiamano Rio Grande e i messicani, invece, Rio Bravo. (E hanno ragione i messicani, naturalmente.)

Il sindaco di Ciudad Juárez si chiama José Reyes Ferríz, è un ometto basso e gentile, con gli occhiali senza montatura, e la camicia e la cravatta come fanno gli americani, che in ufficio non indossano la giacca. È bianco di pelle, potrebbe essere un americano anche lui; le città di frontiera combinano meticciati dove l’identità è una variabile fuori controllo. Si alza dalla poltrona di pelle scura e mi chiama al grande finestrone che dà luce al suo ufficio; con la mano mi invita a guardar fuori. A cento metri c'è un gran ponte che si inarca sul fiume; da questa parte stanno le case piccole e basse del Messico, dall’altra, i grattacieli alti e forti dell’America yankee. «Siamo come un unico territorio, noi Ciudad Juárez, e quello che vediamo accanto e che quasi tocchiamo con la mano è invece El Paso, che ha un nome spagnolo e però parla inglese e lo comanda Obama».

Di là dal ponte, davvero con la mano che quasi lo tocchi, sventola un gigantesco bandierone a strisce e stelle che il vento scuote alto nel cielo.

È questa combinazione di una terra che è la stessa identica e che però un fiume ha diviso in due, con due identità e due storie e due passaporti, è questa combinazione che ha fatto la guerra senza cannoni di Ciudad Juárez. «Vede, qua sotto la mia finestra passano due linee ferroviarie, eccole lì, una porta a Chicago e l’altra a Los Angeles, e poi c’è la Panamericana, che spalanca la porta degli Stati Uniti da ogni Sud che stia da questa parte del Rio Bravo. Non v’è nessun’altra città che dia tante opportunità di comunicazione e di trasporto». Lo dice con la consapevolezza di chi amministra un territorio che potrebbe essere il paradiso e invece è inferno puro. A lui, un giorno fecero trovare davanti al portone del municipio un grosso cane morto, sventrato, che aveva un cartello legato al collo: «Sindaco, o te ne vai entro quindici giorni o ti ammazziamo, prima la tua famiglia e poi tu». I quindici giorni sono passati, e anche le quindici settimane. Lui, José Reyes Ferríz, sorride quieto sulla sua grande poltrona di pelle scura e quel bandierone a stelle e strisce dentro l’orizzonte della finestra: «Ho imparato che queste cose fanno parte del lavoro. L’ho imparato, e non ci penso troppo». Ma della sua famiglia non vuole parlare, e nemmeno di se stesso. Però si sa che, quando chiude a chiave la porta del suo ufficio, poi anche lui prende la macchina, attraversa il ponte, e se ne va a dormire a El Paso, che è Stati Uniti d’America e parla inglese anche se ha un nome spagnolo. A vigilare l’ufficio resta soltanto quella vecchia guardia con l’abito marrone chiaro e un grande distintivo della polizia appeso al collo.

Su quel ponte del sindaco (però Ciudad Juárez ne ha addirittura tre, e puoi scegliere quello che vuoi) passa un fiume ininterrotto di auto ma anche di camion, con i loro carichi che ogni tanto controlli e ogni tanto lasci passare. C’è la polizia federale, al ponte, e ora anche i soldati: qualche carico l’hanno trovato, hanno avuto fortuna o soffiate utili; però «il mare è grande», dicono quelli della droga, e si capisce che cosa intendano dire. Coca e marijuana passano sotto gli occhi dei soldati, e se ne vanno negli Usa; valgono venti miliardi di dollari; per prenderne il controllo merita bene di farci una guerra senza cannonate.


© Copyright La Stampa 28 marzo 2010