La reazione vaticana alle leggi razziali fasciste ci fu, eccome. Lo storico di «Civiltà cattolica» documenta in un nuovo libro le proteste della Santa Sede: dalle pressioni diplomatiche al divieto per i preti di leggere riviste «ariane». E ci fu persino chi parlava di un esilio del Pontefice all’estero.
La legislazione antisemita, in particolare quella sulla scuola, fu accolta dalla maggioranza degli italiani, in particolare dai cattolici, con vivo rincrescimento e a volte con rabbia; furono molte le lettere inviate in Vaticano da persone private o da gruppi e associazioni (anche non israelitiche), che invitavano le autorità ecclesiastiche e in particolare il Papa a intervenire presso il Duce in difesa degli «sventurati ebrei». «Desideriamo che il mondo sappia – scrive a Pio XI un gruppo di fascisti e cattolici di Reggio Calabria – che non siamo dei servi di un tiranno, ma che serviamo un’idea, per il nome di Dio e della Patria. Chi crede o s’illude d’avere in noi dei ciechi strumenti di ogni sua aberrazione, è bene che sappia che noi abbiamo la fierezza di dire no, e di non avanzare oltre le barriere della nostra fede». Il giorno successivo all’adozione del decreto-legge sulla scuola, il 6 ottobre, Pio XI pronunciò un memorabile discorso contro il razzismo e contro l’antisemitismo: era la prima volta che ciò accadeva in modo così esplicito e diretto. Purtroppo esso non fu divulgato in Italia – infatti il 5 agosto il ministro Alfieri aveva dato disposizione ai prefetti di vietare che i discorsi del Papa contro il razzismo venissero pubblicati da riviste e giornali cattolici – e ciò avvantaggiò molto la causa razzista e diede l’impressione che il Papa, per motivi politici, non prendesse posizione su una materia così grave.
La gran parte degli intellettuali cattolici – tra cui anche Dossetti – ne ebbero notizia leggendo le riviste cattoliche d’Oltralpe. Il celebre discorso fu tenuto a Castelgandolfo, dove il Papa si trovava dai giorni della visita di Hitler a Roma, davanti a un gruppo di pellegrini belgi, molti dei quali lavoravano nell’ambito delle comunicazioni. Il testo integrale, pubblicato dalla Documentation catholique, fu stenografato da uno dei presenti, mentre il Papa parlava. Il giornale vaticano, L’Osservatore Romano, pubblicò il testo omettendo la parte riguardante gli ebrei, mentre la «cronaca contemporanea» della Civiltà Cattolica non ne fece menzione. Le parole del Papa sono riportate dalla rivista cattolica belga in modo abbastanza colorito: «A questo punto il Papa – è scritto – non riuscì a trattenere la sua emozione… ed è piangendo che egli citò i passi di Paolo che mettono in luce la nostra discendenza spirituale da Abramo […]. L’antisemitismo non è compatibile con il sublime pensiero e la realtà evocata in questo testo. L’antisemitismo è un movimento odioso, con cui noi cristiani non dobbiamo avere nulla a che fare [...]. Non è lecito che i cristiani prendano parte all’antisemitismo. Noi riconosciamo che ognuno ha il diritto all’autodifesa e che può intraprendere le azioni necessarie per salvaguardare gli interessi legittimi. Ma l’antisemitismo è inammissibile. Spiritualmente siamo tutti semiti».
Le parole di condanna dell’antisemitismo pronunciate con voce commossa dal Papa erano forti e chiare; purtroppo, come vedremo, l’atteggiamento assunto dalla Curia romana nei confronti dei provvedimenti antiebraici promulgati dal governo fascista fu più moderato e in alcuni momenti anche ambiguo. Su questa materia la Segreteria di Stato assunse un atteggiamento piuttosto prudente, pensando che in tal modo si potesse ottenere qualcosa di concreto a vantaggio degli ebrei, in particolare di quelli convertiti al cattolicesimo. Il padre Tacchi Venturi fu incaricato di trattare la delicata questione degli ebrei presso le autorità governative competenti. Una nota della Segreteria di Stato dell’8 settembre 1938 suggeriva al gesuita di attirare l’attenzione dell’autorità governativa soprattutto sugli ebrei battezzati e convertiti al cattolicesimo: «Non sarebbe equo – si chiedeva l’estensore – che, indipendentemente dall’origine, gli ebrei convertiti che hanno contratto in precedenza un matrimonio misto ai sensi del diritto canonico [...] fossero considerati cattolici e non già sempre e comunque ebrei sol perché tali erano i loro genitori?». Vale a dire, si chiedeva al governo fascista di utilizzare come criterio discriminatorio non il dato biologico-razziale, ma quello religioso, cioè l’appartenenza a una determinata fede religiosa, in questo caso quella giudaica.
Appare oggi imbarazzante per lo storico cattolico, soprattutto dopo le aperture del Concilio Vaticano II in tale materia, giustificare con categorie morali o religiose tale impostazione di pensiero e tal modo di procedere. Compito dello storico è però quello di ricostruire per quanto è possibile oggettivamente la vicenda storica, cercando di comprendere la mentalità e la cultura dei soggetti interessati, senza apriorismi di carattere ideologico. Secondo la cultura cattolica «intransigente» del tempo, anche se non tutti erano d’accordo con tale principio, sembrava che compito della Chiesa fosse quello di proteggere innanzi tutto i propri fedeli, senza però in questo venir meno al senso di giustizia e di carità dovuti a tutti gli esseri umani. Alla luce di tale principio si capiscono meglio i successivi interventi dell’autorità ecclesiastica in questa materia, e di cui tratteremo tra breve. L’attività svolta dal padre Tacchi Venturi a favore degli ebrei, non ebbe, come è noto, grande fortuna, anche perché Mussolini era fortemente determinato a portare avanti la sua politica razziale e in questo settore non voleva essere secondo all’alleato tedesco. In un’udienza del 9 settembre (cioè dopo i primi decreti-legge antiebraici) il Papa disse esplicitamente al gesuita di trasmettere a Mussolini il seguente messaggio: «Il Santo Padre come italiano si rattrista veramente di vedere dimenticata tutta una storia di buon senso italiano, per aprire la porta o la finestra a un’ondata di antisemitismo tedesco». (...)
Fatto sta che, a partire dalla pubblicazione del Manifesto della razza i rapporti tra il governo italiano e la Santa Sede, o meglio tra Mussolini e Pio XI - e nonostante la firma del «patto di pacificazione» – andarono gradatamente deteriorandosi, tanto che il Duce disse in privato che quel Papa rappresentava una rovina per l’Italia e per la Chiesa. La stampa internazionale, da parte sua, amplificò in modo caricaturale tale antagonismo, fino a ipotizzare un possibile abbandono da parte del Papa della Città Eterna e dell’Italia: «A seguito del recente conflitto di idee – scriveva alla Segreteria di Stato il nunzio a Parigi, monsignor Valeri – che si è manifestato tra le autorità del regime fascista italiano e la Santa Sede a proposito del razzismo, alcuni organi di stampa francese, la quale ha seguito largamente da vicino l’episodio, si sono spinti sino a prevedere nientemeno la possibilità futura di un esilio del Papato da Roma, e, più frequentemente, la nomina di un pontefice non italiano».
Tale fatto, riportato anche dal giornale cattolico parigino La Croix, ci dà la misura della serietà del conflitto esistente tra il governo fascista e la Santa Sede a motivo della questione razziale e della legislazione antiebraica, universalmente condannata dai cattolici. (...) In ogni caso non è vero, come a volte viene ripetuto, che la Santa Sede subì passivamente la legislazione antiebraica, o che intervenne soltanto (come nella materia dei matrimoni misti) per tutelare gli interessi specificatamente cattolici e confessionali: essa, utilizzando con discrezione la rete capillare di parrocchie e comunità religiose diffusa su tutto il Paese, cercò di preparare gli spiriti per la futura battaglia contro le nuove disposizioni emanate dal Regime. Un documento vaticano, redatto subito dopo le dichiarazioni del Gran Consiglio, ci informa a tale riguardo sulle direttive «segrete» date dalla Segreteria di Stato in materia di razzismo. Circa l’azione della Santa Sede, è detto nel documento, essa dovrebbe esplicarsi su una duplice direzione: «Azione persuasiva sul Governo. Per mezzo di persone adatte e ornate delle opportune qualità, sarebbe bene cercare di insistere su influenti persone del Regime – e non soltanto sul capo del Governo – per far loro comprendere a quali tristi conseguenze conduce una politica razziale esagerata che non si limita a misure tendenti al rinvigorimento della stirpe, ma va all’eccesso del razzismo con provvedimenti che ledono la giustizia e i diritti della Chiesa [...]. Di più far capire che in caso di dissidio colla Santa Sede lo svantaggio maggiore sarebbe per il fascismo».
L’altra direzione riguardava l’azione sul clero. Innanzitutto si chiedeva di inviare in via riservata a tutti i Metropoliti delle istruzioni speciali, da comunicare agli altri vescovi, «perché prevengano il clero di non inviare adesioni alcune alla rivista La Difesa della razza», considerata dannosa e non conforme alla dottrina della Chiesa in tale materia. In particolare si raccomandava a tutto il clero italiano e ai formatori cattolici «che non tralascino occasione alcuna per insistere, con la dovuta prudenza si capisce, sui danni e le conseguenze di un nazionalismo e di una razzismo esasperato. Questo si potrebbe fare con speciali riunioni del clero senza dare l’impressione che si voglia fare azione contro il Governo […]. Questo sembra necessario soprattutto nel momento presente in cui non v’è libertà di stampa e spesso anche i pochi e deboli quotidiani cattolici sono obbligati a pubblicare certe sciocchezze circa il razzismo».
Si chiedeva, inoltre, che la stessa azione venisse svolta anche nei seminari maggiori, facendo attenzione però a non violare la lettera dell’accordo del 16 agosto sottoscritto dalla Santa Sede con il governo fascista. Come già si è detto, la Santa Sede, in quel momento, fece la scelta di agire contro le nuove disposizioni antiebraiche con mezzi discreti e puntando sull’efficacia della propria «diplomazia domestica», scelta da molti non condivisa, ma che nell’immediato sembrava la sola possibile e anche quella più efficace.
La gran parte degli intellettuali cattolici – tra cui anche Dossetti – ne ebbero notizia leggendo le riviste cattoliche d’Oltralpe. Il celebre discorso fu tenuto a Castelgandolfo, dove il Papa si trovava dai giorni della visita di Hitler a Roma, davanti a un gruppo di pellegrini belgi, molti dei quali lavoravano nell’ambito delle comunicazioni. Il testo integrale, pubblicato dalla Documentation catholique, fu stenografato da uno dei presenti, mentre il Papa parlava. Il giornale vaticano, L’Osservatore Romano, pubblicò il testo omettendo la parte riguardante gli ebrei, mentre la «cronaca contemporanea» della Civiltà Cattolica non ne fece menzione. Le parole del Papa sono riportate dalla rivista cattolica belga in modo abbastanza colorito: «A questo punto il Papa – è scritto – non riuscì a trattenere la sua emozione… ed è piangendo che egli citò i passi di Paolo che mettono in luce la nostra discendenza spirituale da Abramo […]. L’antisemitismo non è compatibile con il sublime pensiero e la realtà evocata in questo testo. L’antisemitismo è un movimento odioso, con cui noi cristiani non dobbiamo avere nulla a che fare [...]. Non è lecito che i cristiani prendano parte all’antisemitismo. Noi riconosciamo che ognuno ha il diritto all’autodifesa e che può intraprendere le azioni necessarie per salvaguardare gli interessi legittimi. Ma l’antisemitismo è inammissibile. Spiritualmente siamo tutti semiti».
Le parole di condanna dell’antisemitismo pronunciate con voce commossa dal Papa erano forti e chiare; purtroppo, come vedremo, l’atteggiamento assunto dalla Curia romana nei confronti dei provvedimenti antiebraici promulgati dal governo fascista fu più moderato e in alcuni momenti anche ambiguo. Su questa materia la Segreteria di Stato assunse un atteggiamento piuttosto prudente, pensando che in tal modo si potesse ottenere qualcosa di concreto a vantaggio degli ebrei, in particolare di quelli convertiti al cattolicesimo. Il padre Tacchi Venturi fu incaricato di trattare la delicata questione degli ebrei presso le autorità governative competenti. Una nota della Segreteria di Stato dell’8 settembre 1938 suggeriva al gesuita di attirare l’attenzione dell’autorità governativa soprattutto sugli ebrei battezzati e convertiti al cattolicesimo: «Non sarebbe equo – si chiedeva l’estensore – che, indipendentemente dall’origine, gli ebrei convertiti che hanno contratto in precedenza un matrimonio misto ai sensi del diritto canonico [...] fossero considerati cattolici e non già sempre e comunque ebrei sol perché tali erano i loro genitori?». Vale a dire, si chiedeva al governo fascista di utilizzare come criterio discriminatorio non il dato biologico-razziale, ma quello religioso, cioè l’appartenenza a una determinata fede religiosa, in questo caso quella giudaica.
Appare oggi imbarazzante per lo storico cattolico, soprattutto dopo le aperture del Concilio Vaticano II in tale materia, giustificare con categorie morali o religiose tale impostazione di pensiero e tal modo di procedere. Compito dello storico è però quello di ricostruire per quanto è possibile oggettivamente la vicenda storica, cercando di comprendere la mentalità e la cultura dei soggetti interessati, senza apriorismi di carattere ideologico. Secondo la cultura cattolica «intransigente» del tempo, anche se non tutti erano d’accordo con tale principio, sembrava che compito della Chiesa fosse quello di proteggere innanzi tutto i propri fedeli, senza però in questo venir meno al senso di giustizia e di carità dovuti a tutti gli esseri umani. Alla luce di tale principio si capiscono meglio i successivi interventi dell’autorità ecclesiastica in questa materia, e di cui tratteremo tra breve. L’attività svolta dal padre Tacchi Venturi a favore degli ebrei, non ebbe, come è noto, grande fortuna, anche perché Mussolini era fortemente determinato a portare avanti la sua politica razziale e in questo settore non voleva essere secondo all’alleato tedesco. In un’udienza del 9 settembre (cioè dopo i primi decreti-legge antiebraici) il Papa disse esplicitamente al gesuita di trasmettere a Mussolini il seguente messaggio: «Il Santo Padre come italiano si rattrista veramente di vedere dimenticata tutta una storia di buon senso italiano, per aprire la porta o la finestra a un’ondata di antisemitismo tedesco». (...)
Fatto sta che, a partire dalla pubblicazione del Manifesto della razza i rapporti tra il governo italiano e la Santa Sede, o meglio tra Mussolini e Pio XI - e nonostante la firma del «patto di pacificazione» – andarono gradatamente deteriorandosi, tanto che il Duce disse in privato che quel Papa rappresentava una rovina per l’Italia e per la Chiesa. La stampa internazionale, da parte sua, amplificò in modo caricaturale tale antagonismo, fino a ipotizzare un possibile abbandono da parte del Papa della Città Eterna e dell’Italia: «A seguito del recente conflitto di idee – scriveva alla Segreteria di Stato il nunzio a Parigi, monsignor Valeri – che si è manifestato tra le autorità del regime fascista italiano e la Santa Sede a proposito del razzismo, alcuni organi di stampa francese, la quale ha seguito largamente da vicino l’episodio, si sono spinti sino a prevedere nientemeno la possibilità futura di un esilio del Papato da Roma, e, più frequentemente, la nomina di un pontefice non italiano».
Tale fatto, riportato anche dal giornale cattolico parigino La Croix, ci dà la misura della serietà del conflitto esistente tra il governo fascista e la Santa Sede a motivo della questione razziale e della legislazione antiebraica, universalmente condannata dai cattolici. (...) In ogni caso non è vero, come a volte viene ripetuto, che la Santa Sede subì passivamente la legislazione antiebraica, o che intervenne soltanto (come nella materia dei matrimoni misti) per tutelare gli interessi specificatamente cattolici e confessionali: essa, utilizzando con discrezione la rete capillare di parrocchie e comunità religiose diffusa su tutto il Paese, cercò di preparare gli spiriti per la futura battaglia contro le nuove disposizioni emanate dal Regime. Un documento vaticano, redatto subito dopo le dichiarazioni del Gran Consiglio, ci informa a tale riguardo sulle direttive «segrete» date dalla Segreteria di Stato in materia di razzismo. Circa l’azione della Santa Sede, è detto nel documento, essa dovrebbe esplicarsi su una duplice direzione: «Azione persuasiva sul Governo. Per mezzo di persone adatte e ornate delle opportune qualità, sarebbe bene cercare di insistere su influenti persone del Regime – e non soltanto sul capo del Governo – per far loro comprendere a quali tristi conseguenze conduce una politica razziale esagerata che non si limita a misure tendenti al rinvigorimento della stirpe, ma va all’eccesso del razzismo con provvedimenti che ledono la giustizia e i diritti della Chiesa [...]. Di più far capire che in caso di dissidio colla Santa Sede lo svantaggio maggiore sarebbe per il fascismo».
L’altra direzione riguardava l’azione sul clero. Innanzitutto si chiedeva di inviare in via riservata a tutti i Metropoliti delle istruzioni speciali, da comunicare agli altri vescovi, «perché prevengano il clero di non inviare adesioni alcune alla rivista La Difesa della razza», considerata dannosa e non conforme alla dottrina della Chiesa in tale materia. In particolare si raccomandava a tutto il clero italiano e ai formatori cattolici «che non tralascino occasione alcuna per insistere, con la dovuta prudenza si capisce, sui danni e le conseguenze di un nazionalismo e di una razzismo esasperato. Questo si potrebbe fare con speciali riunioni del clero senza dare l’impressione che si voglia fare azione contro il Governo […]. Questo sembra necessario soprattutto nel momento presente in cui non v’è libertà di stampa e spesso anche i pochi e deboli quotidiani cattolici sono obbligati a pubblicare certe sciocchezze circa il razzismo».
Si chiedeva, inoltre, che la stessa azione venisse svolta anche nei seminari maggiori, facendo attenzione però a non violare la lettera dell’accordo del 16 agosto sottoscritto dalla Santa Sede con il governo fascista. Come già si è detto, la Santa Sede, in quel momento, fece la scelta di agire contro le nuove disposizioni antiebraiche con mezzi discreti e puntando sull’efficacia della propria «diplomazia domestica», scelta da molti non condivisa, ma che nell’immediato sembrava la sola possibile e anche quella più efficace.