Diventa sempre più chiaro cosa c’è dietro certo dibattito sul fine vita, se si va a curiosare oltre Manica. Lo spiega una proposta di legge fatta al Parlamento scozzese nel 2008, che chiede l’eutanasia legalizzata anche per quanti “non sono in stato terminale, non soffrono di malattia degenerativa, non sono inaspettatamente resi disabili, ma che trovano la loro vita intollerabile”. Già, il problema non è più quello di aiutare a morire chi sta morendo, ma aiutare a morire chi è stufo della vita. Lo spiega bene sul “Lancet” del maggio 2008 Ilona Finlay, docente di medicina palliativa: “Se la pietra miliare della legalizzazione dell’eutanasia è il diritto di un paziente di decidere quando ne ha abbastanza della malattia, piccolo è il passo per sostenere che essa dovrebbe essere possibile anche per chi ha molti anni da vivere in una certa condizione”. Ma chi prima o poi non si sente stanco della vita? Per questo il bivio cui si trovano davanti i legislatori è se dare la “libertà di morire” o se dare “la “libertà”: economica, sociale, clinica, ambientale. Quanti suicidi si sono evitati ricostituendo un ambiente sociale positivo, quante persone hanno cambiato idea dopo aver chiesto di morire, per aver iniziato un serio corso di terapia antidepressiva!
La baronessa Campbell, deputato al Parlamento affetta da atrofia muscolare, aveva scritto a questo proposito sul “Guardian” del giugno 2009: “Il suicidio assistito farebbe pensare ai disabili e ai medici che li assistono che quello che i disabili vogliono è la morte, proprio le persone che avrebbero bisogno di incoraggiamento per vivere e non per soccombere”. E Tony Delamothe sul “British Medical Journal” di agosto, così argomenta, tirando in ballo la legge che in Inghilterra vieta l’eutanasia: “Capisco che cambiare la legge possa voler dire che delle persone possano sentirsi obbligate a terminare la vita per non essere di peso ad altri, e che i gravi disabili possano sentire tale peso più di altri”. Poi però chiude, aprendo all’autodeterminazione solitaria come ultimo tribunale: “Ma può questo rischio calpestare la libertà dei malati terminali di concludere la vita quando lo scelgono?”.
Conclusione: se il diritto a terminare la vita quando si è stufi viene sancito, quale agente di polizia o quale semplice passante si azzarderà più a fermare un suicida, magari malato o sofferente? Perché crolla il principio per lottare contro l’aumento di suicidi di adulti e adolescenti, se il suicidio diventa un diritto. Si dirà, per sconsigliare il suicidio, che certi suicidi non sono motivati. Ma quale suicidio lo è? E chi lo decide? È motivato solo il suicidio per motivi clinici? E perché? E se le proposte di legge stesse vorrebbero permettere il suicidio non per motivi clinici, perché deve essere lecito suicidarsi solo in strutture autorizzate? Non è un paradosso?
Ci diranno probabilmente che invece in Italia si parla solo di testamento biologico e non di eutanasia. In realtà non è vero, perché c’è anche chi richiede apertamente l’eutanasia. Ma c’è un punto nodale: il contrasto stridente tra il tanto parlare sui media di come e quando morire e, al contrario, il parlare in sordina di come far vivere meglio chi soffre per malattia o solitudine. È nodale perché mostra la base su cui si appoggia la richiesta di morire: la sfiducia; anzi, una triplice sfiducia. È sfiducia nel rapporto col medico e con i familiari; è sfiducia nelle possibilità nella medicina - perché oggi i farmaci antidolorifici sono ottimi e non uccidono, se usati con diligenza; così come le cure palliative e la psicoterapia hanno ottimi risultati - ed è sfiducia in se stessi, indotta dalla pressione sociale, dato che ci obbligano a pensare che la nostra vita valga solo a certe condizioni. Si combatte per la dignità della morte, mentre si dovrebbe combattere per la dignità della vita.
(©L’Osservatore Romano - 5 novembre 2009)