da Bucarest Chiara Zappa Il quartiere Lipscani è un unico, grande cantiere. Per passeggiare tra le vecchie taverne e le botteghe del centro storico di Bucarest bisogna saltare da una passerella all’altra, fiancheggiando i pannelli che descrivono in tono entusiastico il piano di recupero di quello che nel Medio Evo era il distretto commerciale più importante della Valacchia. Proprio da queste pittoresche viuzze – hanno deciso le autorità – la capitale romena dovrà tornare ad essere la 'Piccola Parigi dell’Est' che aveva affascinato l’aristocrazia europea negli anni della Belle époque.
Quella vivace e cosmopolita, punteggiata di eleganti edifici ottocenteschi liberty (che ora cadono paurosamente a pezzi) e di chiesette che sono piccoli gioielli bizantini. In via Smardan, in un palazzo neogotico del 1857, il Caru’ cu Bere, la più antica birreria della città, cerca ancora di rallegrare gli avventori a colpi di boccali e musica gitana. Ma basta svoltare l’angolo e camminare pochi minuti per rendersi conto che l’atmosfera spensierata di Lipscani dura giusto il tempo di attraversare la galleria Villacross, con la sua tettoia liberty di vetro giallo e i ristorantini etnici. E che Bucarest, a vent’anni dalla rivoluzione che fece crollare il regime comunista di Nicolae Ceausescu, non sta ancora risorgendo dalle ceneri del suo recente passato. Un passato che fa capolino in tanti angoli della città e che la gente – dapprima distratta dalle chimere del capitalismo e poi disillusa da diseguaglianze e crisi economica – non ha ancora elaborato davvero. In piazza Revolutiei le auto sfrecciano davanti al palazzo del Senato, ex sede del comitato centrale del Partito comunista. Dal balcone di questo edificio, il 21 dicembre 1989 il conducator tenne il suo ultimo discorso: di lì a poche ore sarebbe divampata la rivolta che avrebbe spazzato via nel sangue (e tra violenze coperte tuttora da un alone di mistero) mille vite e un regime durissimo. Oggi, gli abitanti di Bucarest sembrano non fare più caso al monumento che, nel mezzo della piazza, ricorda i caduti di quella rivoluzione con una solenne scritta in bronzo, da cui le lettere già si staccano. L’impressione è che la gente, più che sul passato, sia concentrata su un presente che si fa ogni giorno più difficile. Nemmeno i resti del palazzo che ospitava la Securitate, la terribile polizia segreta, sembrano risvegliare negli abitanti la memoria di vent’anni di terrore.
« A
lmeno, a quei tempi c’era lavoro per tutti», si lascia sfuggire Ionel, che ha vissuto in prima persona il passaggio dal comunismo al consumismo. «Ai giovani che finivano gli studi – aggiunge sua moglie Daniela – il governo assicurava un impiego e anche la casa». Sono in molti, oggi, a rischiare di perdere l’uno e l’altra.
La crisi economica, qui, ha colpito duro. Dopo vari anni di incessante crescita del Pil (ma anche di parallelo aumento delle disparità sociali), ora la recessione sta avendo un impatto devastante sul Paese. Le fabbriche licenziano e chiudono, la disoccupazione cresce. Anche le rimesse inviate a casa da chi è andato a lavorare all’estero hanno subito un brusco calo: nei primi otto mesi del 2009 i romeni emigrati in altri Paesi europei, a loro volta toccati dalla crisi, hanno rimandato in patria 2,8 miliardi di euro, circa un miliardo e mezzo meno del 2008. Molti hanno deciso di tornare a casa. E hanno trovato un Paese in condizioni ben più gravi di come lo avevano lasciato.
«La situazione è allarmante», racconta Monica, giovane avvocato in carriera che ai tempi della rivoluzione era una bambina.
«Attraverso il mio lavoro mi imbatto di continuo in casi di persone che non sono più in grado di pagare i mutui contratti: i lavoratori in cassa integrazione sono sempre di più, così come chi scivola sotto la soglia di povertà», continua Monica, sorseggiando un tè fumante in un bar del centro. «E intanto, una minoranza continua a speculare sulle spalle della collettività e gli stipendi dei parlamentari restano astronomici.
La corruzione dilaga e il governo è allo sbando». Proprio l’instabilità politica del Paese ha causato il blocco del maxi-prestito concesso dal Fondo monetario internazionale, necessario per pagare stipendi e pensioni.
on sorprende che, in questo contesto, cresca la tensione sociale, con risvolti anche xenofobi nei confronti degli immigrati – accorsi dopo l’ingresso della Romania nell’Unione europea nel 2007 per colmare il vuoto lasciato da tre milioni di emigrati – e della minoranza rom. Una comunità che i romeni guardano con sospetto, quando non con aperta ostilità.
«Molti zingari creano problemi», taglia corto Alexandru, occhi chiari e capelli scolpiti dal gel. «Ci sarebbe la scuola gratuita per tutti, fino alla settima classe, ma i bambini rom non ci vanno: i genitori preferiscono mandarli a rubare», spiega il giovane, che ha trovato lavoro in un hotel in via Popa Lazar. Negli ultimi mesi la Romania sta puntando molto sul turismo: lo confermano i manifesti
Nche, sullo sfondo di paesaggi suggestivi, invitano a trascorrere le vacanze «nelle campagne ricche di fascino e tradizioni». Ma, se il turismo interno sembra una prospettiva ben poco realistica in tempi di ristrettezze drammatiche, quello internazionale è un obiettivo per cui il Paese non è pronto. Non solo per le scarse infrastrutture: nelle locande tipiche, così come nei locali alla moda, il personale, ben poco poliglotta, mostra ancora un certo disagio nei confronti di villeggianti alla ricerca delle tipicità e del folclore romeno. A Bucarest, in realtà, tutto è contraddizione.
Per ogni negozio di lusso che sfavilla in centro città – in prima fila i più noti marchi italiani – ci sono cento mendicanti che si trascinano per le vie chiedendo l’elemosina. E la bellezza dei palazzi storici affacciati sul viale Victoriei (che ricorda la vittoria sui turchi nel 1878) non riesce a far dimenticare la decadenza che attanaglia i quartieri comunisti con le orribili costruzioni in calcestruzzo, ma anche i distretti industriali abbandonati e gli angoli storici devastati dal delirio megalomane di Ceausescu. Quello che lo portò a radere al suolo un intero quartiere per costruire un viale più lungo degli Champs-Élysées, in fondo al quale potesse svettare l’immenso Palazzo del popolo. Questo pachiderma di marmo di 65mila metri quadri, oggi sede del Parlamento, è il secondo edificio più grande al mondo dopo il Pentagono e costa, solo per la manutenzione, otto milioni di euro all’anno. Per la maggior parte dei romeni rappresenta in ogni caso un motivo di orgoglio. Ma i ventenni, quelli nati quando la cortina di ferro era ormai caduta, sono più interessati al Mnac, il museo di arte contemporanea ricavato, cinque anni fa, in un’ala dell’edificio da un gruppo di artisti. La sera, i ragazzi si danno appuntamento sulla terrazza, uno dei ritrovi più in voga della città, dove ascoltano musica e assistono a videoproiezioni.
er loro la dittatura di Ceausescu è lontana e persino grottesca. Si sentono europei, anche se finora, da queste parti, l’ingresso nell’Unione ha portato solo un’impennata dei prezzi, e non degli stipendi. Ma i giovani di Bucarest sono determinati, e sognano in grande.
Chissà se saranno loro a portare a termine quella transizione che i loro padri hanno lasciato a metà.
Avvenire 6 dic 2009