La Chiesa cattolica invita dei
laici a parlare di Dio. Fra quanti partecipano
al convegno della Cei, che s’apre oggi
a Roma, c’è Rémi Brague, professore
alla Sorbona, illustre studioso del cristianesimo,
della tradizione classica e del
giudaismo, interprete di Aristotele come
di Maimonide. Domani pomeriggio Brague
parlerà di Dio al singolare e religioni
al plurale. “Per quanto sia una novità”,
dice al Foglio il professore, “il fatto di invitare
i laici a parlare di Dio dovrebbe essere
la norma, e io spero che la Chiesa
cattolica continuerà a dialogare con persone
che non ne fanno
parte, e che costoro
capiranno a loro
volta quante cose interessanti
hanno da
dire i membri della
Chiesa”.
Cristiano e cattolico,
Rémi Brague affronta
lo scarto che
separa un Dio unico
dalla pluralità delle
religioni, mettendo
l’accento sulla diversità
tra le religioni.
“Per rendersi conto
che il problema esiste
non si è dovuto
aspettare la scoperta
del Nuovo Mondo.
Gli antichi greci ne
erano ben consapevoli,
tant’è che Erodoto
tentava di tradurre gli dei degli Egizi
proponendo un’equivalenza con gli dei
dell’Olimpo; e anche nella Bibbia, nel libro
dei Giudici, c’è una pluralità di dei
che affonda le radici nel tempo immemorabile.
In realtà, per me, la diversità delle
religioni è un punto di partenza che mi
consente di arrivare al problema chiave
del nostro tempo, vale a dire quella sorta
di religione unica, di religione dell’uomo
che adora se stesso e deve scegliere tra
diverse figure del divino, col timore però
che la figura che più gli somiglia, e che
dunque avrà più voglia di seguire, potrebbe
essere una religione negativa. Anzi,
una religione della morte”.
Grande esperto della filosofia di Martin
Heidegger e della tradizione nichilista
del XX secolo, Rémi Brague nel suo
intervento descrive l’“autoposizione” dell’uomo
moderno; cita il progetto di un
“regno dell’uomo”, come diceva Francis
Bacon, o di un umanesimo “radicale”, come
lo definiva Karl Marx, che presuppone
che non vi sia nulla di più alto dell’uomo
stesso, il quale non deve più rendere
conto del suo operato a Dio, al Papa, al
confessore, ma solo a se stesso. Brague cita
il “Dio è morto” di Friedrich Nietzsche
messo in scena da Zarathustra, e spiega
come l’idea della morte di Dio implica
che il Dio incarnato non abbia potuto
sconfiggere “l’ultimo nemico”, come scriveva
San Paolo nella Prima lettera ai Corinzi
(15,26). Ma attraverso l’erudizione
parla soprattutto del nostro tempo e delle
miserie contemporanee.
“In effetti – dice – se uno presupponga,
e non è il mio caso, che Dio è morto, deve
avere il coraggio di
pensare fino in fondo
tutte le implicazioni
logiche di questa
affermazione. La
morte è più forte di
Dio. E nella nostra
bella civiltà occidentale
a me sembra di
ritrovare molte tracce
di questa specie
di religione molto
primitiva, in cui il
dio che si adora non
è il dio che si ama, e
addirittura nessuno
osa più nemmeno
nominare colui in
cui crede. E questa
semplice diagnosi
mi induce a ritenere
che forse il tabù della
morte, che i sociologi
contemporanei constatano da decenni,
non sia altro che il rovescio di una divinizzazione
della morte, oggi in atto in
modo molto primitivo”.
Primitivo nel senso del ritorno al capro
espiatorio, al rito arcaico del sacrificio
originale? “Sì, la divinizzazione della
morte riporta a tutto ciò da cui il cristianesimo
ci aveva liberato, per dirla con
René Girard. E il ritorno del sacrificio rischia
di avvenire in una forma violenta,
brutale, fine a se stessa”. Dunque, il paradosso
è che il soggetto moderno e autofondato,
ponendosi come la misura di
tutte le cose, diventa il creatore di Dio,
ma sfocia nella sua stessa negazione, perché
finisce per amare la morte? “Amare
non direi. Piuttosto finisce per dispiegare
un certo numero di attività il cui fine
logico è la morte. Il dio che si venera non
è un dio che si ama, ma che si teme. Alla
base dell’esperienza religiosa c’è il tremendum,
il sacro nella sua forma ambivalente
di fascinazione e terrore, come
spiegò Rudolf Otto”.
Allora è la centralità del soggetto che
spinge l’umanità a fare a meno della
trascendenza? “Sì, con la conseguenza
però che una volta evacuata l’idea, bisogna
costantemente recuperarla, creando
trascendenze artificiali, come la divinizzazione
della storia che trasforma l’avvenire
in progresso, o come la trascendenza
dell’adorazione, presente nel culto dei
grandi uomini, che presuppone una divinità
umana e sovrumana al tempo stesso,
una sorta di trascendenza di sostituzione:
la storia del mondo moderno ne è piena”.
Eppure, dopo il crollo del totalitarismo
e delle religioni secolari che ne furono il
fondamento, l’uomo del XXI secolo sembra
aver imparato la lezione riguardo ai
rischi che in termini di libertà comporta
una trascendenza legata al relativismo.
Tant’è che adesso sono in molti i pensatori
laici che cercano di rifondare la libertà
del soggetto sull’idea di verità, per arginare
l’autonomia del singolo di fronte allapluralità delle opinioni. E’ un tentativo
plausibile agli occhi di Rémi Brague? “Se
non c’è verità, la libertà perde interesse”,
risponde il professore. “Posto che a scegliere
sia il soggetto e nessun altro scelga
al posto suo, la libertà consiste in realtà
nel fatto di scegliere non una cosa qualsiasi,
ma qualcosa che valga davvero la
pena di essere scelta. E’ per questo, dunque,
che se manca l’idea di verità, non riusciamo
nemmeno a pensare cosa meriti
davvero di essere oggetto della nostra libertà,
e dunque della nostra scelta”.
Intanto, puntare sul relativismo e sulla
neutralità dello stato non sembra di grande
efficacia per affrontare il focolaio di
conflitti con gli emigrati musulmani che
obbedendo a valori diversi dai nostri, praticano
la poligamia o l’infibulazione. “Il
problema è che, anche se li abbiamo dimenticati,
sono i principi cristiani ad aver
formato l’opinione comune che ha ispirato
le nostre leggi con l’idea che la schiavitù
è un male, che la donna non è inferiore
all’uomo. La tolleranza dunque non riguarda
ciò che noi pensiamo essere un
male, riguarda invece solo cose che per
noi sono indifferenti, per esempio cosa si
mangia o come ci si veste”.
Inutile allora cercare di portare lo studioso
Brague sul terreno vischioso della
polemica tra i leghisti e l’arcivescovo di
Milano, Dionigi Tettamanzi, scoppiata dopo
le critiche di quest’ultimo agli sgomberi
di un campo rom nella periferia milanese:
“Non intendo pronunciarmi dall’esterno,
e anche dall’interno avrei difficoltà”,
dice Brague mettendo subito le
mani avanti. “Mi limito però a ricordare
una distinzione di principio: una cosa sono
i problemi del rapporto coi musulmani,
altra cosa è il rapporto con l’islam. I
musulmani sono uomini, e Cristo ha versato
il suo sangue anche per loro: dunque
non vedo perché dovremo trattarli in modo
diverso. Viceversa, il fatto stesso di definirli
musulmani equivale a trascurare la
libertà che essi stessi hanno di situarsi rispetto
alla propria religione. Il rispetto
che dobbiamo alla persona umana non è
legato all’accettazione o al rifiuto di una
religione. Se costoro rispettano le leggi
del paese in cui vivono, siano essi adepti
di una religione o di un’altra, meritano ai
miei occhi lo stesso e identico rispetto”.
Quando invece si tratta del tentativo di
fondare una religione civile e della sua deriva,
di cui testimonia la recente sentenza
del Consiglio d’Europa sul divieto del crocifisso
nei luoghi pubblici, Brague non ha
alcuna remora a puntualizzare: “Innanzitutto,
il Consiglio d’Europa si immischia di
cose che non lo riguardano. Secondarianente,
io non credo che questa decisione
improntata al laicismo integrale corrisponda
al tentativo di fondare una religione
civile; credo piuttosto sia un vero e proprio
attacco contro una determinata religione
e la sua tradizione. Da almeno due
secoli si cerca di fondare una religione civile
e nessuno c’è mai riuscito. L’unico
paese dove funziona sono gli Stati Uniti: lì
però la religione civile non è che una sorta
di giudeocristianesimo semplificato”.
Marina Valensise
Il Foglio 10 dic. 2009