DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Giovanni Paolo II: Teologia del corpo

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 9 Gennaio 1980

La rivelazione e la scoperta del significato sponsale del corpo

1. Rileggendo ed analizzando il secondo racconto della creazione, cioè il testo jahvista, dobbiamo chiederci se il primo “uomo” (adam), nella sua solitudine originaria, “vivesse” il mondo veramente quale dono, con atteggiamento conforme alla condizione effettiva di chi ha ricevuto un dono, quale risulta dal racconto del capitolo primo. Il secondo racconto ci mostra infatti l’uomo nel giardino dell’Eden (cf. Gen 2,8); ma dobbiamo osservare che, pur in questa situazione di felicità originaria, lo stesso Creatore (Dio Jahvè) e poi anche l’“uomo”, invece di sottolineare l’aspetto del mondo come dono soggettivamente beatificante, creato per l’uomo (cf. Gen 1,26-29), rilevano che l’uomo è “solo”. Abbiamo già analizzato il significato della solitudine originaria; ora, però, è necessario notare che per la prima volta appare chiaramente una certa carenza di bene: “Non è bene che l’uomo (maschio) sia solo” - dice Dio Jahvè - “gli voglio fare un aiuto...” (Gen 2,18). La stessa cosa afferma il primo “uomo”; anche lui, dopo aver preso coscienza fino in fondo della propria solitudine tra tutti gli esseri viventi sulla terra, attende un “aiuto che gli sia simile” (cf. Gen 2,20). Infatti, nessuno di questi esseri (animalia) offre all’uomo le condizioni di base, che rendano possibile esistere in una relazione di reciproco dono.

2. Così, dunque, queste due espressioni, cioè l’aggettivo “solo” e il sostantivo “aiuto”, sembrano essere veramente la chiave per comprendere l’essenza stessa del dono a livello d’uomo, come contenuto esistenziale iscritto nella verità dell’“immagine di Dio”. Infatti il dono rivela, per così dire, una particolare caratteristica dell’esistenza personale, anzi della stessa essenza della persona.

Quando Dio Jahvè dice che “non è bene che l’uomo sia solo” (Gen 2,18), afferma che da “solo” l’uomo non realizza totalmente questa essenza. La realizza soltanto esistendo “con qualcuno” - e ancor più profondamente e più completamente: esistendo “per qualcuno”. Questa norma dell’esistere come persona è dimostrato nel Libro della Genesi come caratteristica della creazione, appunto mediante il significato di queste due parole: “solo” e “aiuto”. Sono proprio esse che indicano quanto fondamentale e costitutiva per l’uomo sia la relazione e la comunione delle persone. Comunione delle persone significa esistere in un reciproco “per”, in una relazione di reciproco dono. E questa relazione è appunto il compimento della solitudine originaria dell’“uomo”.

3. Tale compimento è, nella sua origine, beatificante. Senza dubbio esso è implicito nella felicità originaria dell’uomo, e appunto costituisce quella felicità che appartiene al mistero della creazione fatta per amore, cioè appartiene all’essenza stessa del donare creativo. Quando l’uomo-“maschio”, svegliato dal sonno genesiaco, vede l’uomo-“femmina” da lui tratta, dice: “questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa” (Gen 2,23); queste parole esprimono, in un certo senso, l’inizio soggettivamente beatificante dell’esistenza dell’uomo nel mondo. In quanto verificatosi al “principio”, ciò conferma il processo di individuazione dell’uomo nel mondo, e nasce, per così dire, dalla profondità stessa della sua solitudine umana, che egli vive come persona di fronte a tutte le altre creature e a tutti gli esseri viventi (animalia). Anche questo “principio” appartiene quindi ad una antropologia adeguata e può sempre essere verificato in base ad essa. Tale verifica puramente antropologica ci porta, nello stesso tempo, al tema della “persona e al tema del “corpo-sesso”.

Questa contemporaneità è essenziale. Se infatti trattassimo del sesso senza la persona, sarebbe distrutta tutta l’adeguatezza dell’antropologia, che troviamo nel Libro della Genesi. E per il nostro studio teologico sarebbe allora velata la luce essenziale della rivelazione del corpo, che in queste prime affermazioni traspare con tanta pienezza.

4. C’è un forte legame tra il mistero della creazione, quale dono che scaturisce dall’Amore, e quel “principio” beatificante dell’esistenza dell’uomo come maschio e femmina, in tutta la verità del loro corpo e del loro sesso, che è semplice e pura verità di comunione tra le persone. Quando il primo uomo, alla vista della donna, esclama: “È carne dalla mia carne, e osso dalle mie ossa” (Gen 2,23), afferma semplicemente l’identità umana di entrambi. Così esclamando, egli sembra dire: ecco un corpo che esprime la “persona”! Seguendo un precedente passo del testo jahvista, si può anche dire: questo “corpo” rivela l’“anima vivente”, quale l’uomo diventò quando Dio Jahvè alitò la vita in lui (cf. Gen 2,7), per cui ebbe inizio la sua solitudine di fronte a tutti gli altri esseri viventi. Proprio attraverso la profondità di quella solitudine originaria, l’uomo emerge ora nella dimensione del dono reciproco, la cui espressione - che per ciò stesso è espressione della sua esistenza come persona - è il corpo umano in tutta la verità originaria della sua mascolinità e femminilità. Il corpo, che esprime la femminilità “per” la mascolinità e viceversa la mascolinità “per” la femminilità, manifesta la reciprocità e la comunione delle persone. La esprime attraverso il dono come caratteristica fondamentale dell’esistenza personale. Questo è il corpo: testimone della creazione come di un dono fondamentale, quindi testimone dell’Amore come sorgente, da cui è nato questo stesso donare. La mascolinità-femminilità - cioè il sesso - è il segno originario di una donazione creatrice di una presa di coscienza da parte dell’uomo, maschio-femmina, un dono vissuto per così dire in modo originario. Tale è il significato, con cui il sesso entra nella teologia del corpo.

5. Quell’“inizio”beatificante dell’essere e dell’esistere dell’uomo, come maschio e femmina, è collegato con la rivelazione e con la scoperta del significato del corpo, che conviene chiamare “sponsale”. Se parliamo di rivelazione ed insieme di scoperta, la facciamo in rapporto alla specificità del testo jahvista, nel quale il filo teologico è anche antropologico, anzi appare come una certa realtà coscientemente vissuta dall’uomo. Abbiamo già osservato che alle parole che esprimono la prima gioia del comparire dell’uomo all’esistenza come “maschio e femmina” (Gen 2,23) segue il versetto che stabilisce la loro unità coniugale (Gen 2,24), e poi quello che attesta la nudità di entrambi, priva di reciproca vergogna (Gen 2,25). Proprio questo significativo confronto ci permette di parlare della rivelazione ed insieme della scoperta del significato “sponsale” del corpo nel mistero stesso della creazione. Questo significato (in quanto rivelato ed anche cosciente, “vissuto” dall’uomo) conferma fino in fondo che il donare creativo, che scaturisce dall’Amore, ha raggiunto la coscienza originaria dell’uomo, diventando esperienza di reciproco dono, come si percepisce già nel testo arcaico. Di ciò sembra anche testimoniare - forse perfino in modo specifico - quella nudità di entrambi i progenitori, libera dalla vergogna.

6. Genesi 2,24 parla della finalizzazione della mascolinità e femminilità dell’uomo, nella vita dei coniugi-genitori. Unendosi tra loro così strettamente da diventare “una sola carne”, questi sottoporranno, in certo senso, la loro umanità alla benedizione della fecondità, cioè della “procreazione”, di cui parla il primo racconto (Gen 1,28). L’uomo entra “in essere” con la coscienza di questa finalizzazione della propria mascolinità-femminilità, cioè della propria sessualità.

Nello stesso tempo, le parole di Genesi 2,25: “Tutti e due erano nudi ma non ne provavano vergogna”, sembrano aggiungere a questa fondamentale verità del significato del corpo umano, della sua mascolinità e femminilità, un’altra verità non meno essenziale e fondamentale. L’uomo, consapevole della capacità procreativa del proprio corpo e del proprio sesso, è nello stesso tempo libero dalla “costrizione” del proprio corpo e sesso.

Quella nudità originaria, reciproca e ad un tempo non gravata dalla vergogna, esprime tale libertà interiore dell’uomo. È, questa, la libertà dall’“istinto sessuale”? Il concetto di “istinto” implica già una costrizione interiore, analogicamente all’istinto che stimola la fecondità e la procreazione in tutto il mondo degli esseri viventi (animalia). Sembra, però, che tutti e due i testi del Libro della Genesi, il primo e il secondo racconto della creazione dell’uomo, colleghino sufficientemente la prospettiva della procreazione con la fondamentale caratteristica della esistenza umana in senso personale. Di conseguenza l’analogia del corpo umano e del sesso in rapporto al mondo degli animali - che possiamo chiamare analogia “della natura” - in tutti e due i racconti (benché in ciascuno in modo diverso) è elevata anch’essa, in un certo senso, a livello di “immagine di Dio”, e a livello di persona e di comunione tra le persone.

A questo problema essenziale occorrerà dedicare ancora altre analisi. Per la coscienza dell’uomo - anche per l’uomo contemporaneo - è importante sapere che in quei testi biblici che parlano del “principio” dell’uomo, si trova la rivelazione del “significato sponsale del corpo”. Però è ancor più importante stabilire che cosa esprima propriamente questo significato.


DIENZA GENERALE

Mercoledì, 16 Gennaio 1980

L’uomo-persona diventa dono nella libertà dell’amore

1. Continuiamo oggi l’analisi dei testi del Libro della Genesi, che abbiamo intrapreso secondo la linea dell’insegnamento di Cristo. Ricordiamo, infatti, che, nel colloquio sul matrimonio, Egli si è richiamato al “principio”.

La rivelazione, ed insieme la scoperta originaria del significato “sponsale” del corpo, consiste nel presentare l’uomo, maschio e femmina, in tutta la realtà e verità del suo corpo e sesso (“erano nudi”) e nello stesso tempo nella piena libertà da ogni costrizione del corpo e del sesso. Di ciò sembra testimoniare la nudità dei progenitori, interiormente liberi dalla vergogna. Si può dire che, creati dall’Amore, cioè dotati nel loro essere di mascolinità e femminilità, entrambi sono “nudi” perché sono liberi della stessa libertà del dono. Questa libertà sta appunto alla base del significato sponsale del corpo. Il corpo umano, con il suo sesso, e la sua mascolinità e femminilità, visto nel mistero stesso delle creazione, è non soltanto sorgente di fecondità e di procreazione, come in tutto l’ordine naturale, ma racchiude fin “dal principio” l’attributo “sponsale”, cioè la capacità di esprimere l’amore: quell’amore appunto nel quale l’uomo-persona diventa dono e - mediante questo dono - attua il senso stesso del suo essere ed esistere. Ricordiamo qui il testo dell’ultimo Concilio, dove si dichiara che l’uomo è l’unica creatura nel mondo visibile che Dio abbia voluto “per se stessa”, aggiungendo che quest’uomo non può “ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé”.(Anzi, quando il Signore Gesù prega il Padre, perché “tutti siano una cosa sola, come io e te siamo una cosa sola” [Gv 17,21-22] mettendoci davanti orizzonti impervi alla ragione umana, ci ha suggerito una certa similitudine tra l’unione delle persone divine e l’unione dei figli di Dio nella verità e nella carità. Questa similitudine manifesta che l’uomo, il quale in terra è la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stessa, non possa ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé [Gaudium et Spes, 24]. L’analisi strettamente teologica del “Libro della Genesi”, in particolare Genesi 2, 23-25, ci consente di far riferimento a questo testo. Ciò costituisce un altro passo tra “antropologia adeguata” e “teologia del corpo”, strettamente legata alla scoperta delle caratteristiche essenziali dell’esistenza personale nella “preistoria teologica” dell’uomo. Sebbene questo possa incontrare resistenza da parte della mentalità evoluzionistica [anche tra i teologi], tuttavia sarebbe difficile non accorgersi che il testo analizzato del “Libro della Genesi”, specialmente Genesi 2, 23-25, dimostra la dimensione non soltanto “originaria”, ma anche “esemplare” dell’esistenza delI’uomo, in particolare dell’uomo “come maschio e femmina”.)

2. La radice di quella nudità originaria libera dalla vergogna, di cui parla Genesi 2,25, si deve cercare proprio in quella integrale verità sull’uomo. Uomo o donna, nel contesto del loro a principio” beatificante, sono liberi della stessa libertà del dono. Infatti, per poter rimanere nel rapporto del “dono sincero di sé” e per diventare un tale dono l’uno per l’altro attraverso tutta la loro umanità fatta di femminilità e mascolinità (anche in rapporto a quella prospettiva di cui parla Genesi 2,24), essi debbono essere liberi proprio in questo modo. Intendiamo qui la libertà soprattutto come padronanza di se stessi (autodominio). Sotto questo aspetto, essa è indispensabile perché l’uomo possa “dare se stesso”, perché possa diventare dono, perché (riferendoci alle parole del Concilio) possa “ritrovarsi pienamente” attraverso “un dono sincero di sé”. Così, le parole “erano nudi e non ne provavano vergogna” si possono e si devono intendere come rivelazione - ed insieme riscoperta - della libertà, che rende possibile e qualifica il senso “sponsale” del corpo.

3. Genesi 2,25 dice però ancora di più. Difatti, questo passo indica la possibilità e la qualifica di tale reciproca “esperienza del corpo”. E inoltre ci permette di identificare quel significato sponsale del corpo in actu. Quando leggiamo che “erano nudi, ma non ne provavano vergogna”, ne tocchiamo indirettamente quasi la radice, e direttamente già i frutti. Liberi interiormente dalla costrizione del proprio corpo e sesso, liberi della libertà del dono, uomo e donna potevano fruire di tutta la verità, di tutta l’evidenza umana, così come Dio Jahvè le aveva rivelate a loro nel mistero della creazione. Questa verità sull’uomo, che il testo conciliare precisa con le parole sopra citate, ha due principali accenti. Il primo afferma che l’uomo è l’unica creatura nel mondo che il Creatore abbia voluto “per se stessa”; il secondo consiste nel dire che questo stesso uomo, voluto in tal modo dal Creatore fin dal “principio”, può ritrovare se stesso soltanto attraverso un dono disinteressato di sé. Ora, questa verità circa l’uomo, che in particolare sembra cogliere la condizione originaria collegata al “principio” stesso dell’uomo nel mistero della creazione, può essere riletta - in base al testo conciliare - in entrambe le direzioni. Una tale rilettura ci aiuta a capire ancora maggiormente il significato sponsale del corpo, che appare iscritto nella condizione originaria dell’uomo e della donna (secondo Genesi 2,23-25) e in particolare nel significato della loro nudità originaria.

Se, come abbiamo costatato, alla radice della nudità c’è l’interiore libertà del dono - dono disinteressato di se stessi - proprio quel dono permette ad ambedue, uomo e donna, di ritrovarsi reciprocamente, in quanto il Creatore ha voluto ciascuno di loro “per se stesso” (cf. Gaudium et Spes, 24). Così l’uomo nel primo incontro beatificante, ritrova la donna, ed essa ritrova lui. In questo modo egli accoglie interiormente lei; l’accoglie così come essa è voluta “per se stessa” dal Creatore, come è costituita nel mistero dell’immagine di Dio attraverso la sua femminilità; e, reciprocamente, essa accoglie lui nello stesso modo, come egli è voluto “per se stesso” dal Creatore, e da Lui costituito mediante la sua mascolinità. In ciò consiste la rivelazione e la scoperta del significato “sponsale” del corpo. La narrazione jahvista, e in particolare Genesi 2,25, ci permette di dedurre che l’uomo, come maschio e femmina, entra nel mondo appunto con questa coscienza del significato del proprio corpo, della sua mascolinità e femminilità.

4. Il corpo umano, orientato interiormente dal “dono sincero” della persona, rivela non soltanto la sua mascolinità o femminilità sul piano fisico, ma rivela anche un tale valore e una tale bellezza da oltrepassare la dimensione semplicemente fisica della “sessualità”. (La tradizione biblica riferisce un’eco lontana della perfezione fisica del primo uomo. Il profeta Ezechiele, paragonando implicitamente il re di Tiro con Adamo nell’Eden, scrive così: “Tu eri un modello di perfezione, / pieno di sapienza, / perfetto in bellezza; / in Eden, giardino di Dio...” [Ez 28,12-13]). In questo modo si completa in un certo senso la coscienza del significato sponsale del corpo, collegato alla mascolinità-femminilità dell’uomo. Da una parte, questo significato indica una particolare capacità di esprimere l’amore, in cui l’uomo diventa dono; dall’altra, gli corrisponde la capacità e la profonda disponibilità all’“affermazione della persona”, cioè, letteralmente, la capacità di vivere il fatto che l’altro - la donna per l’uomo e l’uomo per la donna - è, per mezzo del corpo, qualcuno voluto dal Creatore “per se stesso”, cioè l’unico ed irripetibile: qualcuno scelto dall’eterno Amore.

L’“affermazione della persona” non è nient’altro che accoglienza del dono, la quale, mediante la reciprocità, crea la comunione delle persone; questa si costruisce dal di dentro, comprendendo pure tutta l’“esteriorità” dell’uomo, cioè tutto quello che costituisce la nudità pura e semplice del corpo nella sua mascolinità e femminilità. Allora - come leggiamo in Genesi 2,25 - l’uomo e la donna non provavano vergogna. L’espressione biblica “non provavano” indica direttamente “l’esperienza” come dimensione soggettiva.

5. Proprio in tale dimensione soggettiva, come due “io” umani determinati dalla loro mascolinità e femminilità, appaiono entrambi, uomo e donna, nel mistero del loro beatificante “principio” (ci troviamo nello stato della innocenza originaria e, simultaneamente, della felicità originaria dell’uomo). Questo apparire è breve, poiché comprende solo qualche versetto nel Libro della Genesi; tuttavia è pieno di un sorprendente contenuto, teologico ed insieme antropologico. La rivelazione e la scoperta del significato sponsale del corpo spiegano la felicità originaria dell’uomo e, ad un tempo, aprono la prospettiva della sua storia terrena, nella quale egli non si sottrarrà mai a questo indispensabile “tema” della propria esistenza.

I versetti seguenti del Libro della Genesi, secondo il testo jahvista del capitolo 3, dimostrano, a dire il vero, che questa prospettiva “storica” si costruirà in modo diverso dal “principio” beatificante (dopo il peccato originale). Tanto più, però, bisogna penetrare profondamente nella struttura misteriosa, teologica ed insieme antropologica, di tale “principio”. Infatti, in tutta la prospettiva della propria “storia”, l’uomo non mancherà di conferire un significato sponsale al proprio corpo. Anche se questo significato subisce e subirà molteplici deformazioni, esso rimarrà sempre il livello più profondo, che esige di essere rivelato in tutta la sua semplicità e purezza, e manifestarsi in tutta la sua verità, quale segno dell’“immagine di Dio”. Di qui passa anche la strada che va dal mistero della creazione alla “redenzione del corpo” (cf. Rm 8).

Rimanendo, per ora, sulla soglia di questa prospettiva storica, ci rendiamo chiaramente conto, in base a Genesi 2,23-25, dello stesso legame che esiste tra la rivelazione e la scoperta del significato sponsale del corpo e la felicità originaria dell’uomo. Un tale significato “sponsale” è anche beatificante e, come tale, manifesta in definitiva tutta la realtà di quella donazione, di cui ci parlano le prime pagine del Libro della Genesi. La loro lettura ci convince del fatto che la coscienza del significato del corpo che ne deriva - in particolare del suo significato “sponsale” - costituisce la componente fondamentale dell’esistenza umana nel mondo.

Questo significato “sponsale” del corpo umano si può capire solamente nel contesto della persona.

Il corpo ha un significato “sponsale” perché l’uomo-persona, come dice il Concilio, è una creatura che Iddio ha voluto per se stessa, e che, simultaneamente, non può ritrovarsi pienamente se non mediante il dono di sé.

Se Cristo ha rivelato all’uomo ed alla donna, al di sopra della vocazione al matrimonio, un’altra vocazione - quella cioè di rinunciare al matrimonio, in vista del Regno dei Cieli -, con questa vocazione ha messo in rilievo la medesima verità sulla persona umana. Se un uomo o una donna sono capaci di fare dono di sé per il regno dei cieli, questo prova a sua volta (e forse anche maggiormente) che c’è la libertà del dono nel corpo umano. Vuol dire che questo corpo possiede un pieno significato “sponsale”.


UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 30 Gennaio 1980

Coscienza del significato del corpo e innocenza originaria

1. La realtà del dono e dell’atto del donare, delineata nei primi capitoli della Genesi come contenuto costitutivo del mistero. della creazione, conferma che l’irradiazione dell’Amore è parte integrante di questo stesso mistero. Soltanto l’Amore crea il bene, ed esso solo può, in definitiva, essere percepito in tutte le sue dimensioni ed i suoi profili nelle cose create e soprattutto nell’uomo. La sua presenza è quasi il risultato finale di quell’ermeneutica del dono, che qui stiamo conducendo.

La felicità originaria, il “principio” beatificante dell’uomo che Dio ha creato “maschio e femmina” (Gen 1,27), il significato sponsale del corpo nella sua nudità originaria: tutto ciò esprime il radicamento nell’Amore.

Questo donare coerente, che risale fino alle più profonde radici della coscienza e della subcoscienza, agli strati ultimi dell’esistenza soggettiva di ambedue, uomo e donna, e che si riflette nella loro reciproca “esperienza del corpo”, “testimonia il radicamento nell’Amore. I primi versetti della Bibbia ne parlano tanto da togliere ogni dubbio. Parlano non soltanto della creazione del mondo e dell’uomo nel mondo, ma anche della grazia, cioè del comunicarsi della santità, dell’irradiare dello Spirito, che produce uno speciale stato di “spiritualizzazione” in quell’uomo, che di fatto fu il primo. Nel linguaggio biblico, cioè nel linguaggio della Rivelazione, la qualifica di “primo” significa appunto “di Dio”: “Adamo, figlio di Dio” (cf. Lc 3,38).

2. La felicità è il radicarsi nell’Amore. La felicità originaria ci parla del “principio” dell’uomo, che è sorto dall’Amore e ha dato inizio all’amore. E ciò è avvenuto in modo irrevocabile, nonostante il successivo peccato e la morte. A suo tempo, Cristo sarà testimone di questo amore irreversibile del Creatore e Padre, che si era già espresso nel mistero della creazione e nella grazia dell’innocenza originaria. E perciò anche il comune “principio” dell’uomo e della donna, cioè la verità originaria del loro corpo nella mascolinità e femminilità, verso cui Genesi 2,25 rivolge la nostra attenzione, non conosce la vergogna. Questo “principio” si può anche definire come originaria e beatificante immunità dalla vergogna per effetto dell’amore.

3. Una tale immunità ci orienta verso il mistero dell’innocenza originaria dell’uomo. Essa è un mistero della sua esistenza, anteriore alla conoscenza del bene e del male e quasi “al di fuori” di questa. Il fatto che l’uomo esiste in questo modo, antecedentemente alla rottura della prima Alleanza col suo Creatore, appartiene alla pienezza del mistero della creazione. Se, come abbiamo già detto, la creazione è un dono fatto all’uomo, allora la sua pienezza e dimensione più profonda è determinata dalla grazia, cioè dalla partecipazione alla vita interiore di Dio stesso, alla sua santità.

Questa è anche, nell’uomo, fondamento interiore e sorgente della sua innocenza originaria. È con questo concetto - e più precisamente con quello di “giustizia originaria” - che la teologia definisce lo stato dell’uomo prima del peccato originale. Nella presente analisi del “principio”, che ci spiana le vie indispensabili alla comprensione della teologia del corpo, dobbiamo soffermarci sul mistero dello stato originario dell’uomo. Infatti, proprio quella coscienza del corpo - anzi, la coscienza del significato del corpo - che cerchiamo di mettere in luce attraverso l’analisi del “principio”, rivela la peculiarità dell’innocenza originaria.

Ciò che forse maggiormente si manifesta in Genesi 2,25 in modo diretto, è appunto il mistero di tale innocenza, che tanto l’uomo quanto la donna delle origini portano, ciascuno in se stesso. Di tale caratteristica è testimone in certo senso “oculare” il loro corpo stesso. È significativo che l’affermazione racchiusa in Genesi 2,25 - circa la nudità reciprocamente libera da vergogna - sia una enunciazione unica nel suo genere in tutta la Bibbia, così che non sarà mai più ripetuta. Al contrario, possiamo citare molti testi, in cui la nudità sarà legata alla vergogna o addirittura, in senso ancor più forte, all’“ignominia”.(La “nudità”, nel senso di “mancanza di vestito”, nell’antico Medio Oriente significava lo stato di abiezione degli uomini privi di libertà: di schiavi, prigionieri di guerra o di condannati, di quelli che non godevano della protezione della legge. La nudità delle donne era considerata disonore [cf. ad es. le minacce dei profeti: Os 1,2 e Ez 23,26.29]. L’uomo libero, premuroso della sua dignità, doveva vestirsi sontuosamente: più le vesti avevano strascico, più alta era la dignità [cf. ad es. la veste di Giuseppe, che ispirava la gelosia dei suoi fratelli; o dei farisei, che allungavano le loro frange]. Il secondo significato della “nudità”, in senso eufemistico, riguardava l’atto sessuale. La parola ebraica cerwat significa un vuoto spaziale [ad es. del paesaggio], mancanza di vestito, spogliazione, ma non aveva in sé nulla di obbrobrioso.) In questo ampio contesto sono tanto più visibili le ragioni per scoprire in Genesi 2,25 una particolare traccia del mistero dell’innocenza originaria e un particolare fattore della sua irradiazione nel soggetto umano. Tale innocenza appartiene alla dimensione della grazia contenuta nel mistero della creazione, cioè a quel misterioso dono atto all’intimo dell’uomo - al “cuore” umano - che consente ad entrambi, uomo e donna, di esistere dal “principio” nella reciproca relazione del dono disinteressato di sé. In ciò è racchiusa la rivelazione e insieme la scoperta del significato “sponsale” del corpo nella sua mascolinità e femminilità. Si comprende perché parliamo, in questo caso, di rivelazione ed insieme di scoperta. Dal punto di vista della nostra analisi è essenziale che la scoperta del significato sponsale del corpo, che leggiamo nella testimonianza del Libro della Genesi, si attui attraverso l’innocenza originaria; anzi, è tale scoperta che la svela e la mette in evidenza.

4. L’innocenza originaria appartiene al mistero del “principio” umano, dal quale l’uomo “storico” si è poi separato commettendo il peccato originale. Il che non significa, però, che non sia in grado di avvicinarsi a quel mistero mediante la sua conoscenza teologica. L’uomo “storico” cerca di comprendere il mistero dell’innocenza originaria quasi attraverso un contrasto, e cioè risalendo anche all’esperienza della propria colpa e della propria peccaminosità.(“Sappiamo infatti che la legge è spirituale, mentre io sono di carne, venduto come schiavo del peccato. Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto... Quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?” [Rm 7,14-15.17-24; cf.: “Video meliora proboque, deteriora sequor”: Ovidio, Metamorph., VII, 20]). Egli cerca di comprendere l’innocenza originaria come carattere essenziale per la teologia del corpo, partendo dall’esperienza della vergogna; infatti, lo stesso testo biblico così lo orienta. L’innocenza originaria è quindi ciò che “radicalmente”, cioè alle sue stesse radici, esclude la vergogna del corpo nel rapporto uomo-donna, ne elimina la necessità nell’uomo, nel suo cuore, ossia nella sua coscienza. Sebbene l’innocenza originaria parli soprattutto del dono del Creatore, della grazia che ha reso possibile all’uomo di vivere il senso della donazione primaria del mondo ed in particolare il senso della donazione reciproca dell’uno all’altro attraverso la mascolinità e femminilità in questo mondo, tuttavia tale innocenza sembra anzitutto riferirsi allo stato interiore del “cuore” umano, della umana volontà. Almeno indirettamente, in essa è inclusa la rivelazione e la scoperta dell’umana coscienza morale - la rivelazione e la scoperta di tutta la dimensione della coscienza - ovviamente, prima della conoscenza del bene e del male. In certo senso, va intesa come rettitudine originaria.

5. Nel prisma del nostro “a posteriori storico” cerchiamo quindi di ricostruire, in certo modo, la caratteristica dell’innocenza originaria intesa quale contenuto della reciproca esperienza del corpo come esperienza del suo significato sponsale (secondo la testimonianza di Genesi 2,23-25). Poiché la felicità e l’innocenza sono iscritte nel quadro della comunione delle persone, come se si trattasse di due fili convergenti dell’esistenza dell’uomo nello stesso mistero della creazione, la coscienza beatificante del significato del corpo - cioè del significato sponsale della mascolinità e della femminilità umane - è condizionata dall’originaria innocenza. Sembra che non vi sia alcun impedimento per intendere qui quella innocenza originaria come una particolare “purezza di cuore”, che conserva un’interiore fedeltà al dono secondo il significato sponsale del corpo. Di conseguenza, l’innocenza originaria, così concepita, si manifesta come una tranquilla testimonianza della coscienza che (in questo caso) precede qualsiasi esperienza del bene e del male; e tuttavia tale testimonianza serena della coscienza è qualcosa di tanto più beatificante. Si può dire, infatti, che la coscienza del significato sponsale del corpo, nella sua mascolinità e femminilità, diventa “umanamente” beatificante solo mediante tale testimonianza.

A questo argomento - cioè al legame che, nell’analisi del “principio” dell’uomo, si delinea tra la sua innocenza (purezza di cuore) e la sua felicità - dedicheremo la prossima meditazione.


UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 6 Febbraio 1980

Il dono del corpo crea un’autentica comunione

1. Proseguiamo l’esame di quel “principio”, al quale Gesù si è richiamato nel suo colloquio con i farisei sul tema del matrimonio. Questa riflessione esige da noi di oltrepassare la soglia della storia dell’uomo e di giungere fino allo stato di innocenza originaria. Per cogliere il significato di tale innocenza, ci basiamo, in certo modo, sull’esperienza dell’uomo “storico”, sulla testimonianza del suo cuore, della sua coscienza.

2. Seguendo la linea dell’“a posteriori storico”, tentiamo di ricostruire la peculiarità dell’innocenza originaria racchiusa nell’esperienza reciproca del corpo e del suo significato sponsale, secondo quanto attesta Genesi 2, 23-25. La situazione qui descritta rivela l’esperienza beatificante del significato del corpo che, nell’ambito del mistero della creazione, l’uomo attinge, per così dire, nella complementarietà di ciò che in lui è maschile e femminile. Tuttavia, alle radici di questa esperienza deve esserci la libertà interiore del dono, unita soprattutto all’innocenza; la volontà umana è originariamente innocente e, in questo modo, è facilitata la reciprocità e lo scambio del dono del corpo, secondo la sua mascolinità e femminilità, quale dono della persona. Conseguentemente, l’innocenza attestata in Genesi 2,25 si può definire come innocenza della reciproca esperienza del corpo. La frase: “Tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna”, esprime proprio tale innocenza nella reciproca “esperienza del corpo”, innocenza ispirante l’interiore scambio del dono della persona, che, nel reciproco rapporto, realizza in concreto il significato sponsale della mascolinità e femminilità. Così, dunque, per comprendere l’innocenza della mutua esperienza del corpo, dobbiamo cercare di chiarire in che cosa consista l’innocenza interiore nello scambio del dono della persona. Tale scambio costituisce, infatti, la vera sorgente dell’esperienza dell’innocenza.

3. Possiamo dire che l’innocenza interiore (cioè la rettitudine di intenzione) nello scambio del dono consiste in una reciproca “accettazione” dell’altro, tale da corrispondere all’essenza stessa del dono; in questo modo, la donazione vicendevole crea la comunione delle persone. Si tratta, perciò, di “accogliere” l’altro essere umano e di “accettarlo”, proprio perché in questa mutua relazione, di cui parla Genesi 2, 23-25, l’uomo e la donna diventano dono l’uno per l’altro, mediante tutta la verità e l’evidenza del loro proprio corpo, nella sua mascolinità e femminilità. Si tratta, quindi, di una tale “accettazione” o “accoglienza” che esprima e sostenga nella reciproca nudità il significato del dono e perciò approfondisca la dignità reciproca di esso. Tale dignità corrisponde profondamente al fatto che il Creatore ha voluto (e continuamente vuole) l’uomo, maschio e femmina, “per se stesso”. L’innocenza “del cuore”, e, di conseguenza, l’innocenza dell’esperienza significa partecipazione morale all’eterno e permanente atto della volontà di Dio.

Il contrario di tale “accoglienza” o “accettazione” dell’altro essere umano come dono sarebbe una privazione del dono stesso e perciò un tramutamento e addirittura una riduzione dell’altro ad “oggetto per me stesso” (oggetto di concupiscenza, di “appropriazione indebita”, ecc.).

Non tratteremo, ora, in modo particolareggiato di questa multiforme, presumibile antitesi del dono.

Occorre però già qui, nel contesto di Genesi 2, 23-25, costatare che un tale estorcere all’altro essere umano il suo dono (alla donna da parte dell’uomo e viceversa) ed il ridurlo interiormente a puro “oggetto per me”, dovrebbe appunto segnare l’inizio della vergogna. Questa, infatti, corrisponde ad una minaccia inferta al dono nella sua personale intimità e testimonia il crollo interiore dell’innocenza nell’esperienza reciproca.

4. Secondo Genesi 2, 25, “uomo e donna non provavano vergogna”. Questo ci permette di giungere alla conclusione che lo scambio del dono, al quale partecipa tutta la loro umanità, anima e corpo, femminilità e mascolinità, si realizza conservando la caratteristica interiore (cioè appunto l’innocenza) della donazione di sé e dell’accettazione dell’altro come dono. Queste due funzioni del mutuo scambio sono profondamente connesse in tutto il processo del “dono di sé”: il donare e l’accettare il dono si compenetrano, così che lo stesso donare diventa accettare, e l’accettare si trasforma in donare.

5. Genesi 2, 23-25 ci permette di dedurre che la donna, la quale nel mistero della creazione “è data” all’uomo dal Creatore, grazie all’innocenza originaria viene “accolta”, ossia accettata da lui quale dono. Il testo biblico a questo punto è del tutto chiaro e limpido. In pari tempo, l’accettazione della donna da parte dell’uomo e lo stesso modo di accettarla diventano quasi una prima donazione, cosicché la donna donandosi (sin dal primo momento in cui nel mistero della creazione è stata a data” all’uomo da parte del Creatore) “riscopre” ad un tempo a se stessa”, grazie al fatto che è stata accettata e accolta e grazie al modo con cui è stata ricevuta dall’uomo. Ella ritrova quindi se stessa nel proprio donarsi (“attraverso un dono sincero di sé”) (Gaudium et Spes, 24), quando viene accettata così come l’ha voluta il Creatore, cioè “per se stessa”, attraverso la sua umanità e femminilità; quando in questa accettazione viene assicurata tutta la dignità del dono, mediante l’offerta di ciò che ella è in tutta la verità della sua umanità e in tutta la realtà del suo corpo e sesso, della sua femminilità, ella perviene all’intima profondità della sua persona e al pieno possesso di sé. Aggiungiamo che questo ritrovare se stessi nel proprio dono diventa sorgente di un nuovo dono di sé, che cresce in forza dell’interiore disposizione allo scambio del dono e nella misura in cui incontra una medesima e anzi più profonda accettazione e accoglienza, come frutto di una sempre più intensa coscienza del dono stesso.

6. Sembra che il secondo racconto della creazione abbia assegnato “da principio” all’uomo la funzione di chi soprattutto riceve il dono (cf. Gen 2,23). La donna viene “da principio” affidata ai suoi occhi, alla sua coscienza, alla sua sensibilità, al suo “cuore”; lui invece deve, in certo senso, assicurare il processo stesso dello scambio del dono, la reciproca compenetrazione del dare e ricevere in dono, la quale, appunto attraverso la sua reciprocità, crea un’autentica comunione di persone.

Se la donna, nel mistero della creazione, è colei che è stata “data” all’uomo, questi da parte sua, ricevendola quale dono nella piena verità della sua persona e femminilità, per ciò stesso la arricchisce, e in pari tempo anch’egli, in questa relazione reciproca, viene arricchito. L’uomo si arricchisce non soltanto mediante lei, che gli dona la propria persona e femminilità, ma anche mediante la donazione di se stesso. La donazione da parte dell’uomo, in risposta a quella della donna, è per lui stesso un arricchimento; infatti vi si manifesta quasi l’essenza specifica della sua mascolinità che, attraverso la realtà del corpo e del sesso, raggiunge l’intima profondità del “possesso di sé”, grazie alla quale è capace sia di dare se stesso che di ricevere il dono dell’altro.

L’uomo, quindi, non soltanto accetta il dono, ma ad un tempo viene accolto quale dono dalla donna, nel rivelarsi della interiore spirituale essenza della sua mascolinità, insieme con tutta la verità del suo corpo e sesso. Così accettato, egli, per questa accettazione ed accoglienza del dono della propria mascolinità, si arricchisce. In seguito, tale accettazione, in cui l’uomo ritrova se stesso attraverso il “dono sincero di sé”, diventa in lui sorgente di un nuovo e più profondo arricchimento della donna con sé. Lo scambio è reciproco, ed in esso si rivelano e crescono gli effetti vicendevoli del “dono sincero” e del “ritrovamento di sé”.

In questo modo, seguendo le orme dell’“a posteriori storico” - e soprattutto seguendo le orme dei cuori umani - possiamo riprodurre e quasi ricostruire quel reciproco scambio del dono della persona, che è stato descritto nell’antico testo, tanto ricco e profondo, del Libro della Genesi.


UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 13 Febbraio 1980

L’innocenza originaria e lo stato storico dell’uomo

1. La meditazione di oggi presuppone quanto già è stato acquisito dalle varie analisi fatte finora. Queste sono scaturite dalla risposta data da Gesù ai suoi interlocutori (cf. Mt 19,3-9; Mc 10,1-12), i quali gli avevano posto una questione sul matrimonio, sulla sua indissolubilità e unità. Il Maestro aveva loro raccomandato di considerare attentamente ciò che era “da principio”. E proprio per questo, nel ciclo delle nostre meditazioni fino ad oggi, abbiamo cercato di riprodurre in qualche modo la realtà dell’unione, o meglio della comunione di persone, vissuta fin “da principio” dall’uomo e dalla donna. In seguito, abbiamo cercato di penetrare nel contenuto del conciso versetto 25 di Genesi 2: “Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna”.

Queste parole fanno riferimento al dono dell’innocenza originaria, rivelandone il carattere in modo, per così dire, sintetico. La teologia, su questa base, ha costruito l’immagine globale dell’innocenza e della giustizia originaria dell’uomo, prima del peccato originale, applicando il metodo dell’oggettivizzazione, specifico della metafisica e dell’antropologia metafisica. Nella presente analisi cerchiamo piuttosto di prendere in considerazione l’aspetto della soggettività umana; questa, del resto, sembra trovarsi più vicina ai testi originari, specialmente al secondo racconto della creazione, cioè il testo jahvista.

2. Indipendentemente da una certa diversità di interpretazione, sembra abbastanza chiaro che l’“esperienza del corpo”, quale possiamo desumere dal testo arcaico di Genesi 2, 23 e più ancora di Genesi 2,25, indica un grado di a spiritualizzazione” dell’uomo, diverso da quello di cui parla lo stesso testo dopo il peccato originale (Genesi 3) e che noi conosciamo dall’esperienza dell’uomo “storico”. È una diversa misura di “spiritualizzazione”, che comporta un’altra composizione delle forze interiori nell’uomo stesso, quasi un altro rapporto corpo-anima, altre proporzioni interne tra la sensitività, la spiritualità, l’affettività, cioè un altro grado di sensibilità interiore verso i doni dello Spirito Santo. Tutto ciò condiziona lo stato di innocenza originaria dell’uomo ed insieme lo determina, permettendoci anche di comprendere il racconto della Genesi. La teologia ed anche il magistero della Chiesa hanno dato a queste fondamentali verità una propria forma. (“Si quis non confitetur primum hominem Adam, cum mandatum Dei in paradiso fuisset transgressus, statim sanctitatem et iustitiam, in qua constitutus fuerat, amisisse... anathema sit” [Conc. Trident., Sess. V, can. 1, 2: D.-S. 788, 789]. “Protoparentes in statu sanctitatis et iustitiae constituti fuerunt... Status iustitiae originalis protoparentibus collatus, erat gratuitus et vere supernaturalis... Protoparentes constituti sunt in statu naturae integrae, id est, immunes a concupiscentia, ignorantia, dolore et morte... singularique felicitate gaudebant... Dona integritatis protoparentibus collata, erant gratuita et praeternaturalia” [A. Tanquerey, Synopsis Theologiae Dgmaticae, Parisiis 194324 pp. 534-549].)

3. Intraprendendo l’analisi del “principio” secondo la dimensione della teologia del corpo, lo facciamo basandoci sulle parole di Cristo, con le quali egli stesso si è riferito a quel “principio”.

Quando disse: “Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina?” (Mt 19,4), ci ha ordinato e sempre ci ordina di ritornare alla profondità del mistero della creazione. E noi lo facciamo, avendo piena coscienza del dono dell’innocenza originaria, propria dell’uomo prima del peccato originale. Sebbene una insormontabile barriera ci divida da ciò che l’uomo è stato allora come maschio e femmina, mediante il dono della grazia unita al mistero della creazione, e da ciò che ambedue sono stati l’uno per l’altro, come dono reciproco, tuttavia cerchiamo di comprendere quello stato di innocenza originaria nel suo legame con lo stato “storico” dell’uomo dopo il peccato originale: “status naturae lapsae simul et redemptae”.

Per il tramite della categoria dello “a posteriori storico”, cerchiamo di giungere al senso originario del corpo, e di afferrare il legame esistente tra di esso e l’indole dell’innocenza originaria nell’“esperienza del corpo”, quale si pone in evidenza in modo così significativo nel racconto del Libro della Genesi. Arriviamo alla conclusione che è importante ed essenziale precisare questo legame, non soltanto nei confronti della “preistoria teologica” dell’uomo, in cui la convivenza dell’uomo e della donna era quasi completamente permeata dalla grazia dell’innocenza originaria, ma anche in rapporto alla sua possibilità di rivelarci le radici permanenti dell’aspetto umano e soprattutto teologico dell’ethos del corpo.

4. L’uomo entra nel mondo e quasi nella più intima trama del suo avvenire e della sua storia, con la coscienza del significato sponsale del proprio corpo, della propria mascolinità e femminilità.

L’innocenza originaria dice che quel significato è condizionato “eticamente” e inoltre che, da parte sua, costituisce l’avvenire dell’ethos umano. Questo è molto importante per la teologia del corpo: è la ragione per cui dobbiamo costruire questa teologia “dal principio”, seguendo accuratamente l’indicazione delle parole di Cristo.

Nel mistero della creazione, l’uomo e la donna sono stati “dati” dal Creatore, in modo particolare, l’uno all’altro, e ciò non soltanto nella dimensione di quella prima coppia umana e di quella prima comunione di persone, ma in tutta la prospettiva dell’esistenza del genere umano e della famiglia umana. Il fatto fondamentale di questa esistenza dell’uomo in ogni tappa della sua storia è che Dio “li creò maschio e femmina”; infatti sempre li crea in questo modo e sempre sono tali. La comprensione dei significati fondamentali, racchiusi nel mistero stesso della creazione, come il significato sponsale del corpo (e dei fondamentali condizionamenti di tale significato), è importante e indispensabile per conoscere chi sia l’uomo e chi debba essere, e quindi come dovrebbe plasmare la propria attività. È cosa essenziale e importante per l’avvenire dell’ethos umano.

5. Genesi 2,24 costata che i due, uomo e donna, sono stati creati per il matrimonio: “Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne”.

In tal modo si apre una grande prospettiva creatrice: che è appunto la prospettiva dell’esistenza dell’uomo, la quale continuamente si rinnova per mezzo della “procreazione” (si potrebbe dire dell’“autoriproduzione”). Tale prospettiva è profondamente radicata nella coscienza dell’umanità (cf. Gen 2,23) e anche nella particolare coscienza del significato sponsale del corpo (Gen 2,25). L’uomo e la donna, prima di diventare marito e moglie (in concreto ne parlerà in seguito Genesi 4,1), emergono dal mistero della creazione prima di tutto come fratello e sorella nella stessa umanità. La comprensione del significato sponsale del corpo nella sua mascolinità e femminilità rivela l’intimo della loro libertà, che è libertà di dono.

Di qui inizia quella comunione di persone, in cui entrambi s’incontrano e si donano reciprocamente nella pienezza della loro soggettività. Così ambedue crescono come persone-soggetti, e crescono reciprocamente l’uno per l’altro anche attraverso il loro corpo e attraverso quella “nudità” libera da vergogna. In questa comunione di persone viene perfettamente assicurata tutta la profondità della solitudine originaria dell’uomo (del primo e di tutti) e, nello stesso tempo, tale solitudine diventa in modo meraviglioso permeata ed allargata dal dono dell’“altro”. Se l’uomo e la donna cessano di essere reciprocamente dono disinteressato, come lo erano l’uno per l’altro, nel mistero della creazione, allora riconoscono di “esser nudi” (cf. Gen 3). Ed allora nascerà nei loro cuori la vergogna di quella nudità, che non avevano sentita nello stato di innocenza originaria.

L’innocenza originaria manifesta ed insieme costituisce l’ethos perfetto del dono.

Su questo argomento ritorneremo ancora.


UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 20 Febbraio 1980

Con “il sacramento del corpo” l’uomo si sente soggetto di santità

1. Il libro della Genesi rileva che l’uomo e la donna sono stati creati per il matrimonio: “... L’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne” (Gen 2,24).

In questo modo si apre la grande prospettiva creatrice dell’esistenza umana, che sempre si rinnova mediante la “procreazione” che è “autoriproduzione”. Tale prospettiva è radicata nella coscienza dell’umanità e anche nella particolare comprensione del significato sponsale del corpo, con la sua mascolinità e femminilità. Uomo e donna, nel mistero della creazione, sono un reciproco dono. L’innocenza originaria manifesta e insieme determina l’ethos perfetto del dono.

Di ciò abbiamo parlato durante il precedente incontro. Attraverso l’ethos del dono viene delineato in parte il problema della “soggettività” dell’uomo, il quale è un soggetto fatto ad immagine e somiglianza di Dio. Nel racconto della creazione (cf. Gen 2,23-25) “la donna” certamente non è soltanto “un oggetto” per l’uomo, pur rimanendo ambedue l’uno di fronte all’altra in tutta la pienezza della loro oggettività di creature come “osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne”, come maschio e femmina, entrambi nudi. Solo la nudità che rende “oggetto” la donna per l’uomo, o viceversa, è fonte di vergogna. Il fatto che “non provavano vergogna” vuol dire che la donna non era per l’uomo un “oggetto” né lui per lei. L’innocenza interiore come “purezza di cuore”, in certo modo, rendeva impossibile che l’uno venisse comunque ridotto dall’altro al livello di mero oggetto.

Se “non provavano vergogna”, vuol dire che erano uniti dalla coscienza del dono, avevano reciproca consapevolezza del significato sponsale dei loro corpi, in cui si esprime la libertà del dono e si manifesta tutta l’interiore ricchezza della persona come soggetto. Tale reciproca compenetrazione dell’“io” delle persone umane, dell’uomo e della donna, sembra escludere soggettivamente qualsiasi “riduzione ad oggetto”. Si rivela in ciò il profilo soggettivo di quell’amore, di cui peraltro si può dire che “è oggettivo” fino in fondo, in quanto si nutre della stessa reciproca “oggettività del dono”.

2. L’uomo e la donna, dopo il peccato originale, perderanno la grazia dell’innocenza originaria. La scoperta del significato sponsale del corpo cesserà di essere per loro una semplice realtà della rivelazione e della grazia. Tuttavia, tale significato resterà come impegno dato all’uomo dall’ethos del dono, iscritto nel profondo del cuore umano, quasi lontana eco dell’innocenza originaria. Da quel significato sponsale si formerà l’amore umano nella sua interiore verità e nella sua soggettiva autenticità. E l’uomo - anche attraverso il velo della vergogna - vi riscoprirà continuamente se stesso come custode del mistero del soggetto, cioè della libertà del dono, così da difenderla da qualsiasi riduzione a posizioni di puro oggetto.

3. Per ora, tuttavia, ci troviamo dinanzi alla soglia della storia terrena dell’uomo. L’uomo e la donna non l’hanno ancora varcata verso la conoscenza del bene e del male. Sono immersi nel mistero stesso della creazione, e la profondità di questo mistero nascosto nel loro cuore è l’innocenza, la grazia, l’amore e la giustizia: “E Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 1,31). L’uomo appare nel mondo visibile come la più alta espressione del dono divino, perché porta in sé l’interiore dimensione del dono. E con essa porta nel mondo la sua particolare somiglianza con Dio, con la quale egli trascende e domina anche la sua “visibilità” nel mondo, la sua corporeità, la sua mascolinità o femminilità, la sua nudità. Un riflesso di questa somiglianza è anche la consapevolezza primordiale del significato sponsale del corpo, pervasa dal mistero dell’innocenza originaria.

4. Così, in questa dimensione, si costituisce un primordiale sacramento, inteso quale segno che trasmette efficacemente nel mondo visibile il mistero invisibile nascosto in Dio dall’eternità. E questo è il mistero della Verità e dell’Amore, il mistero della vita divina, alla quale l’uomo partecipa realmente. Nella storia dell’uomo, è l’innocenza originaria che inizia questa partecipazione ed è anche sorgente della originaria felicità. Il sacramento, come segno visibile, si costituisce con l’uomo, in quanto “corpo”, mediante la sua “visibile” mascolinità e femminilità. Il corpo, infatti, e soltanto esso, è capace di rendere visibile ciò che è invisibile: lo spirituale e il divino. Esso è stato creato per trasferire nella realtà visibile del mondo il mistero nascosto dall’eternità in Dio, e così esserne segno.

5. Dunque, nell’uomo creato ad immagine di Dio è stata rivelata, in certo senso, la sacramentalità stessa della creazione, la sacramentalità del mondo. L’uomo, infatti, mediante la sua corporeità, la sua mascolinità e femminilità, diventa segno visibile dell’economia della Verità e dell’Amore, che ha la sorgente in Dio stesso e che fu rivelata già nel mistero della creazione. Su questo vasto sfondo comprendiamo pienamente le parole costitutive del sacramento del matrimonio, presenti in Genesi 2,24 (“l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne”). Su questo vasto sfondo, comprendiamo inoltre, che le parole di Genesi 2,25 (“tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna”), attraverso tutta la profondità del loro significato antropologico, esprimono il fatto che insieme con l’uomo è entrata la santità nel mondo visibile, creato per lui. Il sacramento del mondo, e il sacramento dell’uomo nel mondo, proviene dalla sorgente divina della santità, e contemporaneamente è istituito per la santità.

L’innocenza originaria, collegata all’esperienza del significato sponsale del corpo, è la stessa santità che permette all’uomo di esprimersi profondamente col proprio corpo, e ciò, appunto, mediante il ff dono sincero” di se stesso. La coscienza del dono condiziona, in questo caso, “il sacramento del corpo”: l’uomo si sente, nel suo corpo di maschio o di femmina, soggetto di santità.

6. Con tale coscienza del significato del proprio corpo, l’uomo, quale maschio e femmina, entra nel mondo come soggetto di verità e di amore. Si può dire che Genesi 2, 23-25 narra quasi la prima festa dell’umanità in tutta la pienezza originaria dell’esperienza del significato sponsale del corpo: ed è una festa dell’umanità, che trae origine dalle fonti divine della Verità e dell’Amore nel mistero stesso della creazione. E sebbene, ben presto, su quella festa originaria si estenda l’orizzonte del peccato e della morte (Gen 3), tuttavia già fin dal mistero della creazione attingiamo una prima speranza: che, cioè, il frutto della economia divina della verità e dell’amore, che si è rivelata “al principio”, sia non la Morte, ma la Vita, e non tanto la distruzione del corpo di Dio”, quanto piuttosto la “chiamata alla gloria” (cf. Rm 8,30).