di Giovanni Maria Vian
La polemica sul silenzio di Pio XII durante la seconda guerra mondiale – di fronte soprattutto all’orrendo tentativo genocida dei nazisti di sterminare gli ebrei in Europa, una delle maggiori tragedie del Novecento – fa parte ormai della storia. Su questo argomento molto si è scritto e si continua a scrivere, per la sua indubbia rilevanza, per l’interesse sempre vivissimo suscitato anche oltre le cerchie ristrette degli specialisti e per il suo innegabile uso strumentale, che s’intreccia anche con l’introduzione della causa di canonizzazione del pontefice.
Soprattutto questa strumentalizzazione ha finito per creare una vera e propria leggenda nera, al di là delle diverse possibili valutazioni dell’atteggiamento del papa negli anni tragici del conflitto. Ricordare le origini, spesso trascurate, delle accuse al pontefice – formulate dapprima da ambienti cattolici e poi amplificate, già durante gli anni di guerra, dalla propaganda sovietica e poi comunista – è lo scopo di questa nota.
A interrogarsi sui “silenzi di Pio XII” fu per primo Emmanuel Mounier, addirittura poche settimane dopo l’elezione a papa del cardinale segretario di stato Eugenio Pacelli, il 2 marzo 1939. E lo fece a proposito dell’aggressione dell’Italia all’Albania, avvenuta agli inizi di aprile di quell’anno, e dell’assenza di reazioni di condanna da parte del nuovo pontefice.
In un articolo scritto immediatamente dopo, l’intellettuale cattolico francese, pur premettendo di avvertire “il ridicolo che vi sarebbe per un fedele nel sostituirsi alla coscienza pontificale”, sottolineava “che lo scandalo, a causa di questo silenzio” era entrato “in migliaia di cuori”. E aggiungeva: “Non sono in grado di giudicare se questo non era che l’inevitabile tributo di una diplomazia riuscita […]. Io non ho chiesto che alcune parole. Perché capita anche che la Parola vivifichi” .
Il problema delle parole non pronunciate, e già allora invocate da Mounier, avrebbe tormentato la coscienza del pontefice durante i lunghissimi e tremendi sei anni della guerra, scatenata soltanto pochi mesi più tardi dall’aggressione alla Polonia da parte della Germania nazionalsocialista alleata con la Russia sovietica. In questo contesto, ha scritto lo storico gesuita Burkhart Schneider, “il papa venne accusato per il suo apparente silenzio che sembrava indifferenza di fronte ad indicibili sofferenze”. E queste accuse vennero soprattutto da “ambienti dei polacchi in esilio”, dunque di nuovo da parte cattolica.
La linea politica e diplomatica della Santa Sede nei decenni precedenti e soprattutto durante la spaventosa guerra del 1914-1918 aveva cercato di perseguire, senza troppi consensi nemmeno tra i cattolici, una sorta di neutrale imparzialità tra le parti in conflitto. Questa linea aveva incluso la condanna, da parte di Benedetto XV, dell’“inutile strage” e una vera e propria “diplomazia dell’assistenza”, di cui in Germania era stato protagonista lo stesso Pacelli, allora nunzio a Monaco.
Nella nuova tragedia bellica – provocata dai totalitarismi nazista e sovietico che la Santa Sede aveva condannato nel 1937 con le encicliche “Mit Brennender Sorge” e “Divini Redemptoris” – Pio XII intese seguire la stessa linea, anche se invece nei fatti il pontefice compì scelte che non è possibile classificare come neutrali.
Così il papa, con una decisione senza precedenti, appoggiò tra l’autunno del 1939 e la primavera del 1940, già nei primi mesi del conflitto, il tentativo – presto abortito – di rovesciare il regime hitleriano da parte di alcuni circoli militari tedeschi in contatto con i britannici, mentre dopo l’attacco della Germania all’Unione Sovietica a metà del 1941 Pio XII dapprima si rifiutò di schierare la Santa Sede con quella che era presentata come una crociata contro il comunismo e poi si adoperò per smussare l’opposizione di moltissimi cattolici statunitensi all’alleanza degli Stati Uniti con la Russia staliniana.
Certamente, non per questo cambiò il giudizio del papa e dei suoi più stretti collaboratori sul comunismo, giudizio che restò sempre radicalmente negativo, accentuandosi dal 1943 e culminando nel decreto di condanna emanato nel 1949 dal Sant’Uffizio. L’immagine di un Pio XII “al soldo degli Americani” – diffusa e sempre sostenuta dai sovietici a causa dell’indubbio anticomunismo del papa – è però dal punto di vista storico insostenibile.
Proprio in questa polemica – frutto della propaganda sovietica e più in generale comunista, ripresa presto anche da esponenti della Chiesa ortodossa russa – trovarono posto, fin dal 1944, le accuse a papa Pacelli e al Vaticano, che s’innestavano così sugli interrogativi espressi da Mounier e che si ritrovano nei diplomatici accreditati presso la Santa Sede, ma questa volta a proposito della politica nazista di sterminio degli ebrei.
Nel quadro del progressivo distanziamento e irrigidimento dei due blocchi vittoriosi che avrebbe portato negli anni del dopoguerra all’imposizione dell’egemonia sovietica in quasi tutti i paesi dell’Europa orientale e centrale e quindi alla guerra fredda, a Pio XII fu imputato di avere sostenuto la Germania nazista e il fascismo, di averli perdonati, di avere nascosto criminali di guerra tedeschi, di non aver condannato la barbarie hitleriana, di avere taciuto e di essersi schierato con l’Occidente capitalista.
Già durante la guerra, il 13 giugno 1943, il pontefice replicò alle accuse “che il papa ha voluto la guerra, che il papa mantiene la guerra e fornisce il denaro per continuarla, che il papa non fa nulla per la pace. Mai forse fu lanciata una calunnia più mostruosa e assurda di questa”.
Dopo la guerra, il 24 dicembre 1946, Pio XII alluse esplicitamente alla propaganda contro la Santa Sede: “Noi ben sappiamo che tutte le nostre parole, le nostre intenzioni rischiano di essere male interpretate e svisate a scopo di propaganda politica”.
E nel 1951 l’interrogativo che Mounier aveva sollevato una dozzina d’anni prima a proposito dell’aggressione italiana all’Albania diveniva, nelle parole di un altro intellettuale cattolico francese – François Mauriac, che l’anno dopo sarebbe stato insignito del premio Nobel per la letteratura – un duro rimprovero a Pio XII per non aver condannato la mostruosa persecuzione degli ebrei.
Nella prefazione al “Bréviaire de la haine. Le IIIe Reich et les Juifs” di Léon Poliakov, dopo aver sottolineato che il libro era in primo luogo diretto ai tedeschi, Mauriac scriveva:
“Questo breviario è stato scritto anche per noi francesi, il cui tradizionale antisemitismo è sopravvissuto a quegli eccessi di orrore nei quali Vichy ha avuto la sua timida e ignobile parte; per noi cattolici francesi, soprattutto, che, se abbiamo salvato l’onore, senza dubbio ne andiano debitori all’eroismo e alla carità di molti vescovi, preti e religiosi verso gli ebrei braccati, ma che non abbiamo avuto il conforto di sentire il successore del Galileo, Simone Pietro, condannare con parola netta e chiara, e non con allusioni diplomatiche la crocifissione di questi innumerevoli ‘fratelli del Signore’. Al tempo dell’occupazione, chiesi un giorno al venerando cardinale Suhard, che d’altra parte tanto aveva fatto, nell’ombra, a favore dei perseguitati: ‘Eminenza, comandateci di pregare per gli ebrei’, ed egli per tutta risposta levò le braccia al cielo. Certamente, la potenza occupante aveva mezzi di pressione cui non si poteva resistere, e il silenzio del papa e della gerarchia altro non era che un repugnante dovere; si trattava di evitare sciagure peggiori. Ciò non toglie che un crimine di tanta ampiezza ricada in parte non indifferente su tutti i testimoni che hanno taciuto, quali siano state le ragioni del loro silenzio”.
Meno severi invece erano gli accenti dell’ebreo Poliakov che – a proposito della tradizione antiebraica e dell’atteggiamento di Pio XII, e appena prima di alcuni acuti cenni sull’“essenza anticristiana dell’antisemitismo” – esprimeva un giudizio ben più sfumato:
“Non spetta a uno scrittore israelita pronunciarsi in merito a dogmi secolari di un’altra religione; ma, di fronte all’immensità delle conseguenze, non si può non essere profondamente turbati. Che il senso del nostro turbamento non vada frainteso. Noi non ammettiamo che vi sia stato anche soltanto una traccia di antisemitismo nel pensiero del papa. Se, contrariamente a tanti vescovi francesi, egli non fece sentire la sua voce, ciò fu dovuto senza dubbio al fatto che la sua giurisdizione si estendeva all’Europa tutta intera e che egli doveva tener conto non soltanto delle gravi minacce sospese sulla Chiesa, ma anche della condizione di spirito dei suoi fedeli di tutti i paesi”, che erano influenzati dalla tradizione antiebraica del cristianesimo.
In questo contesto si colloca la svolta nella questione del silenzio di Pio XII, quando il pontefice era morto (il 9 ottobre 1958) da più di quattro anni.
Questa svolta fu avviata dal dramma teatrale “Der Stellvertreter” di Rolf Hochhuth, che venne rappresentato per la prima volta a Berlino il 20 febbraio 1963 e che, per le sue tesi estreme avverse a papa Pacelli e per le forti polemiche da subito suscitate, ha da allora esercitato un influsso enorme sulla formazione dell’immagine di Pio XII e della Santa Sede nell’opinione pubblica e nello stesso dibattito storiografico.
Particolarmente significativa, nel divampare immediato della polemica, fu quasi subito la difesa del pontefice da parte di uno dei suoi più stretti collaboratori, Giovanni Battista Montini, che dalla fine del 1954 era arcivescovo di Milano e nel 1958 era stato creato cardinale da Giovanni XXIII.
Occasione dell’intervento di Montini fu un articolo in difesa di Pio XII – pubblicato dalla rivista cattolica inglese “The Tablet” nel numero dell’11 maggio 1963 – che tra l’altro sottolineava la vicinanza del lavoro teatrale di Hochhuth a una “pubblicazione comunista” sul Vaticano e la seconda guerra mondiale.
Il cardinale di Milano – in una lettera giunta a “The Tablet” lo stesso giorno della sua elezione al pontificato, il 21 giugno 1963, quando assunse il nome di Paolo VI – difendeva il comportamento di Pio XII di fronte alla persecuzione e allo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti, crimini di cui il papa sarebbe stato corresponsabile per non averli condannati, secondo la tesi di Hochhuth.
“Un atteggiamento di condanna e di protesta, quale costui rimprovera al papa di non avere adottato, sarebbe stato, oltre che inutile, dannoso; questo è tutto”, scriveva tra l’altro l’antico collaboratore di papa Pacelli, e concludeva:
“Non si gioca con questi argomenti e con i personaggi storici che conosciamo con la fantasia creatrice di artisti di teatro, non abbastanza dotati di discernimento storico e, Dio non voglia, di onestà umana. Perché altrimenti, nel caso presente, il dramma vero sarebbe un altro: quello di colui che tenta di scaricare sopra un papa, estremamente coscienzioso del proprio dovere e della realtà storica, e per di più d’un amico, imparziale, sì, ma fedelissimo del popolo germanico, gli orribili crimini del nazismo tedesco. Pio XII avrà egualmente il merito d’essere stato un ‘Vicario’ di Cristo, che ha cercato di compiere coraggiosamente e integralmente, come poteva, la sua missione; ma si potrà ascrivere a merito della cultura e dell’arte una simile ingiustizia teatrale?”.
Gli stessi accenti e spunti critici contro la tesi propagandistica del drammaturgo tedesco si ritrovano quasi due anni più tardi in un articolo dello storico liberale Giovanni Spadolini, pubblicato il 18 febbraio 1965 dopo le prime rappresentazioni del testo teatrale di Hochhuth a Roma, che furono subito proibite e seguite da aspre polemiche.
L’articolo dell’autorevole intellettuale e uomo politico laico esordiva con un attacco diretto alla posizione assunta dai partiti di sinistra e soprattutto dai comunisti: “Il partito che propugna il dialogo coi cattolici ha bandito una specie di crociata per la libertà di pensiero sulla base di questo libello di diffamazione anticlericale e di autodifesa nazionalista”.
E ricordando la difesa di Pio XII da parte di Montini – nel 1963 appena prima di essere eletto papa e poi durante lo storico viaggio del pontefice in Terra Santa nel gennaio del 1964 – Spadolini insisteva sugli elementi di propaganda politica presenti nel dramma appena rappresentato a Roma: così l’allora cardinale di Milano “era insorto, con la lealtà del collaboratore e del discepolo che non dimentica, contro le assurde e inique requisitorie di una propaganda politica appena ammantata di moralismo”, mentre quando “Paolo VI pose piede in terra israeliana, in quella che fu la tappa più significativa e rivoluzionaria della sua missione palestinese, tutti avvertirono che il pontefice intendeva rispondere, dallo stesso cuore del focolare nazionale ebraico, ai sistematici attacchi del mondo comunista che non mancavano di trovare qualche complicità o qualche condiscendenza anche nei cuori cattolici – o almeno in certi cattolici non ignoti neppure all’Italia”.
Nell’articolo di Spadolini chiarissima risulta dunque la percezione dell’origine delle accuse a papa Pacelli: dapprima, tra il 1939 e il 1951, in due intellettuali cattolici francesi come Mounier e Mauriac, e poi soprattutto nella propaganda sovietica degli anni di guerra e più in generale in quella comunista durante il dopoguerra e la guerra fredda.
Accentuatasi dopo la morte di Pio XII e durante il pontificato così diverso di Giovanni XXIII, la polemica esplose definitivamente al tempo di Paolo VI e s’intrecciò con la contrapposizione dei pontificati pacelliano e roncalliano che, tra l’altro, indusse nel 1965 papa Montini a introdurre simultaneamente le cause dei due predecessori:
“Sarà così assecondato il desiderio, che per l’uno e per l’altro è stato in tal senso espresso da innumerevoli voci; sarà così assicurato alla storia il patrimonio della loro eredità spirituale; sarà evitato che alcun altro motivo, che non sia il culto della vera santità e cioè la gloria di Dio e l’edificazione della sua Chiesa, ricomponga le loro autentiche e care figure per la nostra venerazione e per quella dei secoli futuri”.
Con il trascorrere del tempo la questione del silenzio di Pio XII si è molto complicata perché le reiterate accuse a papa Pacelli si sono trasformate in una leggenda nera. Questa non facilita certo i nuovi positivi rapporti tra Chiesa cattolica ed ebraismo, mentre si sono dimenticate le origini delle accuse, nate in ambienti cattolici e amplificate soprattutto dalla propaganda sovietica e comunista e dai suoi nostalgici, che non perdonano a Pio XII il suo anticomunismo.
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Il link alla rivista della facoltà di storia ecclesiastica della Pontificia Università Gregoriana su cui è uscito l’articolo di Giovanni Maria Vian:
> “Archivum Historiae Pontificiae”