Si può cavalcare il campo teologico con
un linguaggio da spaghetti western? No.
Ma siccome a MicroMega sprezzano il pericolo,
Paolo Flores D’Arcais nell’ultimo numero
si è lanciato in una pistolettata contro
“Il Papa inquisitore” e il suo “costantinismo
postmoderno”. Come nei tre anni del Concilio
la chiesa ribaltò la sua storia – dice – così
ora “un analogo lasso di tempo è bastato
al ‘papa inquisitore’ per disfare accuratamente
quanto intrapreso dal ‘Papa buono’”.
Passando dalla “volontà di amicizia col
mondo” alla “volontà di anatema”.
Come abbrivio, forse un po’ grossier. Del
resto soggiace a un cliché datato, e comico,
al quale molte menti illuminate non riescono
a sottrarsi: il Papa morto è sempre meglio
di quello regnante. Ci è cascato, con la
sua prosopopea ormai persino patetica, anche
Eugenio Scalfari. Qualche settimana fa
sull’Espresso definì Benedetto XVI “un modesto
teologo che fa rimpiangere i suoi predecessori”.
Forse dimenticando quel che
diceva in passato di Montini e Wojtyla, ma
evidentemente l’età addolcisce i ricordi. A
parte ciò, Scalfari non sente il bisogno di
portare prove della mediocrità teologica di
Ratzinger, che nemmeno gli acerrimi rivali
gli hanno mai imputato. Chiederemo a Corrado
Augias. Ugualmente, Flores dà per
apoditticamente dimostrato che il grande
balzo all’indietro sia stato fatto. E che oggi
l’autonomia dell’uomo, il “darsi da sé la legge”
base di ogni democrazia, sia “il grande
Satana contro cui papa Ratzinger ha indetto
la crociata del terzo millennio, la bestia e
l’abisso da cui un costantinismo postmoderno
deve salvare il nostro empio aldiquà”.
In venti pagine, il giudizio meno filisteo è
“impresa anacronostica e dissennata”. Del
resto, un saggista che definisce la Cdu tedesca
un “partito confessionale”, forse esagera
anche quando afferma che il Papa avrebbe
compiuto l’impresa di “scontentare tutto
lo scontentabile” con il suo disegno di “imporre
al mondo la verità della sua Chiesa…
nell’intero orizzonte etico-politico”. Una
“restaurazione” che “rovescia la stagione e
la vocazione del Concilio Vaticano II”. Ma
poi, di questa mitica “stagione e vocazione”,
non si dice nulla, resta nell’aria come un’eco.
Lo “spirito del concilio” è ormai un “a
priori” indimostrato, ma indiscutibile. Una
ridicola “anticipazione cattolica del Sessantotto”.
Cos’abbia da dire, al “mondo” di oggi,
non è questione da discutere. L’importante
è affermare che Ratzinger è “perfettamente
conscio della marcia trionfale” della
secolarizzazione ma, invece di rassegnarsi
saggiamente e senza disturbare a “una traversata
nel deserto” in cui “tutto il resto è
wishful thinking”, ha addirittura la tracotanza
di voler aggredire la “modernità sazia
e disperata” che gli si offre “come terra di
conquista”. Flores, magnanimamente, concede
una crisi della secolarizzazione; ammette
persino che “crollano le architravi
della modernità: scienza e universalismo”.
Ma non ammette per principio che un pensiero
diverso, quello del cattolicesimo versione
Papa teologo, possa avere la capacità
e il buonumore necessari per provare a raddrizzare
quelle architravi cascanti. No. Per
Flores, Ratzinger cerca con “odio” uno spazio
“per la riconquista”. E per di più, “riesce
a lucrare sul versante culturale”.
Un Papa mentitore e manipolatore, che
“ha imparato la lezione dei filosofi post-heideggeriani:
nessuna negazione dei valori
della modernità, ma la loro decostruzione
fino a far dire l’opposto di quanto hanno
sempre significato. Una logica degna della
neo-lingua di Orwell”. Con che logica lo sostenga,
dopo aver illustrato le débâcle mediatiche
del Papa, dall’Aids ai lefevbriani,
non è dato capire. Comunque, dice, “io non
insisterò sulla disinvoltura semantica di
Ratzinger e quella di Berlusconi”. Dare di
disinvolto semantico a Ratzinger, è quantomeno
da disinvolti culturali. Senza del resto,
al pari di Scalfari, portare in giudizio le
sue presunte disinvolture. Si cita solo l’illuminsimo,
un po’ vago: basterebbe leggere il
discorso di Regensburg con la sua disamina
della ragione occidentale. Invece, nascondendo
sotto il tappeto la polvere del crollo
della modernità, Flores riduce tutto a “una
crociata contro il relativismo”, in cui l’appello
all’unità degli opposti monoteismi nel
nome della legge naturale, sarebbe solo un
tranello che prepara l’ordalia delle guerre
sante, e “il dovere di ottemperare ai diritti
dell’uomo è solo l’ultimo travestimento del
Sillabo”. E alla fine, il coniglio dal cappello:
“Se ne può uscire solo col primato della
coscienza, interprete definitiva ma con ciò
definitivamente ‘plurale’ il cui esito è la dissoluzione
della chiesa in un caleidoscopio
cangiante (‘tot capita, tot Ecclesiae’)”. Poco,
e troppo caricaturale, per ritenere sistemato
il mediocre Papa teologo.
Maurizio Crippa
Il Foglio 2 dic. 2009