di Roberto Volpi
La storia è nota. E inizia a marzo di
quest’anno, in Messico. E’ lì, nell’area
della capitale, una delle aree
più compromesse della terra dal punto
di vista ambientale, tra mega allevamenti
disumanamente intensivi di
suini che a loro volta rappresentano
l’epicentro dei rischi di quell’area disastrata,
che fa la sua prima apparizione
il virus A/N1H1. Una apparizione
a un tempo cruenta e controversa.
Cruenta perché i morti sembrano
tantissimi già dal primo giorno. Controversa
perché le cifre subito sparate
sui morti vengono via via ridimensionate.
Non alcune centinaia ma,
sembra, una cinquantina. Il virus viene
dai volatili, il grande serbatoio virale,
passa ai suini e da questi all’uomo.
Indi, variamente ricombinato,
dall’uomo all’uomo, direttamente,
grazie a un salto di specie che non è
da tutti (i virus).
L’undici giugno l’OMS dichiara la
“pandemia universale” con il passaggio
alla fase sei, quella di massima allerta
sanitaria. E i giochi – ecco là –
sono bell’e fatti.
Anche in Italia già in molti, per la
verità, facevano il tifo per questa soluzione.
Sui giornali, anzi, sembrava
proprio che non si aspettasse altro. Ci
si chiedeva perché l’OMS indugiasse,
mentre il virus intanto iniziava a
compiere il giro del mondo. L’OMS
per la verità ha indugiato assai poco,
un battito di ciglia, ma a ogni modo il
problema erano i morti. Perché va
bene che il virus viaggiava, attraversava
gli oceani, veniva segnalato in
un numero sempre maggiore di paesi.
Ma erano i morti che scarseggiavano,
e senza un congruo numero di
morti come si poteva passare alla
massima allerta sanitaria possibile
immaginabile? Si passa, si passa.
Evocando, più che conteggiando. E
infatti è stato tutto un citare la celeberrima
spagnola che non si è più
fermato e che non recede neppure di
fronte alla dura realtà di cifre che,
per quanto gonfiate, non sono che
bruscolini rispetto all’allarme sollevato,
agli scenari poco meno che apocalittici
evocati (e a volte sembrava
perfino invocati, da tanto che si davano
per vicini e inevitabili), al mostruosamente
fantozziano delle raccomandazioni
che hanno cominciato
a piovere da tutte le parti sulla testa
di incolpevoli cittadini che non erano
più padroni di accendere il televisore,
di sfogliare un quotidiano, una rivista,
di entrare in Internet, senza trovarsi
accerchiati da ogni parte, come
una carovana di pionieri nel far west
alle prese con frenetici indiani ululanti
e sparacchianti da tutte le posizioni,
da decaloghi tutti eguali di consigli
e ammonimenti medico-sanitari
e previsioni di immancabili amarissimi
destini nell’eventualità che quei
consigli e quegli ammonimenti fossero
stati non si dica ignorati ma anche
soltanto abbracciati senza la dovuta
convinzione.
Non c’è stato quotidiano, non c’è
stato settimanale, non c’è stato magazine
che non abbia proposto il suo
bel libriccino sulla nuova influenza,
del tipo “dieci consigli per non ammalarsi”
o venti per prevenire o cinquanta
per proteggersi dalla peste
suina, quest’ultima qualificata nel
frattempo come influenza, e neppure
suina, poi marchiata con tanto di codice
scientifico-virologico (A/N1H1), e
in ultimo ricondotta alla sua essenza
primordiale, neutra, micidiale: A,
senza tanti fronzoli. E, del resto, volete
mettere A con, poniamo, B o peggio
ancora I? Ve la immaginate un’influenza
I? Da morire dal ridere. E invece
dire A è già dire tutto. Anzi, meglio,
niente. Perché intanto che non
passava trasmissione televisiva dove
non riuscisse a intrufolarsi qualche
chiacchiera sull’influenza, di questa
A non si riusciva a capire, tra profluvi
di allarmi previsioni e consigli, un
beneamato tubo, se si può dir così. Insomma,
era o non era un’influenza? E
se era un’influenza, perché tutto
quello schieramento in servizio permanente
effettivo di virologi, infettivologi,
assessori regionali alla sanità,
epidemiologi dell’Istituto Superiore
di Sanità, e naturalmente vario personale
governativo, sempre affacciati
a qualche balcone televisivo? Si
era mai visto niente di simile per
un’influenza, e sia pure considerando
che alla nostra televisione di influenza
si comincia a parlare quando
ancora dalle spiagge non sono del
tutto evacuati i vacanzieri settembrini?
La spagnola, sissignori. Ancora lei.
Si trovava sempre il modo, per quanto
obliquamente, di associare l’influenza
A alla spagnola (altra pandemia,
peraltro, mitica come poche altre,
essendo le stime dei morti da essa
provocati lievitate nel tempo come
soufflé, riuscendo a passare da alcuni
milioni su su fino a 100 milioni di
morti, roba che se non smettono di
farle, le stime, diventano più i morti
di spagnola degli abitanti del secondo
decennio del Novecento, quando
imperversò). E l’associazione con la
spagnola non appariva neppure così
improponibile, dato che di un’influenza
stagionale si sa pressappoco
come evolve e cosa comporta, ma di
un’influenza come la A, arrivata direttamente
dai maiali con un salto
acrobatico di specie, cosa mai si poteva
sapere? Simulazioni sulle possibilità
diffusive del virus presentate a
importanti convegni si spingevano come
niente fosse fino ai 20 milioni di
contagi in Italia e perfino oltre. E
dunque, hai visto mai?
E così via col vaccino. Ma proprio
via, nel senso di più veloci della luce.
L’OMS era ancora lontanissima dal
portare al massimo il livello di allerta
che già in un meeting del 19 maggio
analizzava la situazione sotto il
profilo delle capacità produttive del
nuovo vaccino, stimando in 5-6 mesi
da allora il tempo necessario alla
produzione e distribuzione del nuovo
vaccino e optando per una campagna
con due vaccini antinfluenzali. I colossi
del settore, dalla Big Farma alla
Aventis alla Merck, non si sono certo
fatti pregare, per loro si aprivano
le porte di un paradiso di miliardi e
miliardi di euro.
In passato, questa la giustificazione
addotta per tanta fretta, sembra
che i vaccini non fossero mai stati disponibili
in quantità sufficienti nei
tempi giusti per riuscire a contenere
la morbosità e la mortalità in corso di
pandemia – e ciò per quanto un vaccino
per l’anno dopo venga “tarato”
sul virus dell’anno prima. Confesso di
non essermene accorto, sarà perché
non sono un consumatore di vaccini.
E comunque, che non avesse a succedere
anche questa volta con l’influenza
A. E invece proprio questo è
successo. Perché l’influenza A è stata
più “veloce” del previsto – è stata la
giustificazione. Fatto sta che il vaccino
è risultato disponibile quando in
una parte del mondo l’ondata influenzale
era già trascorsa e in un’altra,
come la nostra, aveva già raggiunto
il suo massimo e si apprestava
a entrare nella fase discendente.
Ma ben altre sorprese che non il
relativo ritardo doveva riservarci il
vaccino, peraltro venuto alla luce tra
non pochi dubbi circa la congruità
delle sperimentazioni e la sua presunta
innocuità (tanto che la Swissmedic,
l’autorità elvetica sui farmaci,
ha deciso di non autorizzare il
Pandemrix, prodotto dalla Skf, a causa
della presenza, in esso, di un adiuvante
ritenuto pericoloso).
La prima sorpresa è stata quella
della men che lieve mortalità associata
all’influenza A. La seconda
quella di un tasso di vaccinazione
che si stenterebbe a credere così basso
dopo tutto il can-can mediatico e il
clima peggio che di allarmismo, di
terrorismo quasi, che ha dominato la
scena per mesi.
Cominciamo da questa seconda
sorpresa. A oggi, in Italia il personale
medico e socio-sanitario, il primo
chiamato a vaccinarsi, si è vaccinato
nella misura del 14,6 per cento. Le fasce
a rischio, dalle donne in gravidanza
ai bambini piccoli, sono ricorse
alla vaccinazione in proporzioni
ancora minori e di pochissimo superiori
al 10 per cento. Il numero delle
persone vaccinate in cifre assolute è
inferiore alle 700 mila, a fronte del
quale stanno 24 milioni di dosi di vaccino
già acquistate. Cifre che suonano
come campane a morto per autorità
sanitarie, virologi e infettivologi,
strateghi e comunicatori, a cominciare
da Topo Gigio che ogni volta che
passa in televisione viene voglia di tirargli
contro una scarpa.
La seconda sorpresa sta nel fatto
che la mortalità dell’influenza A è almeno
cinquanta volte, dicasi almeno
cinquanta, inferiore alla mortalità di
una comune influenza stagionale. Ormai
quasi tutti, epidemiologi e autorità
sanitarie, stanno convenendo che
mai si era vista un’influenza tanto
blanda. Il ministro Fazio, dopo un bel
po’ d’indecisioni iniziali, ha chiarito
più volte che si trattava di un’influenza
come o perfino più blanda di
un’influenza stagionale. Ma non ha
mai lasciato neppure balenare un divario
del genere, l’avesse fatto le persone
si sarebbero guardate attonite
negli occhi le une con le altre e si sarebbero
vicendevolmente interrogate
su che cavolo di bisogno c’era allora
di scatenare tutto quel po’ po’ di
putiferio. E probabilmente l’avrebbero
mandato a quel paese.
Ora, a proposito di quel che sarà, si
può certo dire che nessuno ha la sfera
di cristallo, ma ciò che sconcerta è
che sempre si assiste a un susseguirsi
di previsioni “ufficiali” fosche se
non addirittura catastrofiche, che
puntualmente vengono smentite, ed è
dire poco, dalla realtà. E dunque è
l’atteggiamento che non funziona, è il
modello interpretativo, è il paradigma
di riferimento scientifico e culturale
cui si richiamano istituzioni, autorità
e agenzie sanitarie che fa acqua
e invece di aiutarle le mette puntualmente
sulle strade sbagliate.
Strade che infatti continuano a battere
imperterrite, senza ricavare, così
almeno sembrerebbe, alcuna lezione
da quel che succede.
La più formidabile lezione da ricavare
da questa storia è invece proprio
la seguente: che le due sorprese
appena indicate non sono scindibili,
ma le due facce di una stessa realtà.
Per intenderci: la diffusione dell’influenza
A ha toccato il suo massimo
per poi intraprendere la china discendente,
sempre con una mortalità
prossima allo zero assoluto, in completa
assenza di vaccini e di vaccinati.
Qui sta il quanto. Ora, che nessuno
– istituzioni e ministro, agenzie e assessori
– mostri di volere associare
questi due elementi – un’influenza
raccontata come spaventosa che spaventosa
non si è dimostrata affatto e
un vaccino agognato come salvifico
che un po’ non ha avuto tempo di arrivare
e un po’ è stato snobbato alla
grande nonostante tutte le raccomandazioni
– è qualcosa che non depone
a favore dell’apertura mentale di
quanti sono deputati alla protezione
della nostra salute. Né fa prevedere
alcunché di buono e di diverso alla
prossima occasione. Dunque prepariamoci:
alla prossima sarà ancora la
stessa solfa. Del resto, ecco la dichiarazione
di uno dei massimi esponenti
dell’establishment scientifico-sanitario,
l’epidemiologo dell’ISS Giovanni
Rezza: “La realtà è che da questa
crisi abbiamo imparato due lezioni.
La prima è che gli opposti estremismi,
allarmismo e negazionismo, sono
controproducenti. La seconda è che
dobbiamo imparare a produrre i vaccini
più rapidamente per prevenire
situazioni più gravi”.
Un po’ di umiltà, non guasterebbe.
I tecnici dell’Istituto Superiore di Sanità
condannano l’allarmismo che loro
per primi hanno sollevato e il negazionismo
che proprio non si è sentito,
e che comincia ad alzare la testa
solo adesso a, come diciamo in Toscana,
“pappa scodellata”. I grandi
giornali hanno schierato sin dall’inizio
commentatori di vario conio sulle
tracce dell’influenza A, ma tra di loro
di negazionisti neppure a parlarne;
più allarmisti dell’OMS semmai,
anche se ora è tutto un interrogarsi:
non sarà che abbiamo ingigantito
qualcosa che sta tra il niente e il comune
raffreddore?
Il fatto è che per negazionismo all’ISS,
nelle agenzie e nei circoli medico-
scientifici intendono tutto quel
che non si allinea con le loro analisi,
non ne sposa le previsioni, non ne
condivide la filosofia che è sempre e
inesorabilmente quella di apprestare
cannoni per sparare contro qualsivoglia
moscerino, ogni volta contrabbandato
come un elefante che
minaccia di entrare, se già non c’è entrato,
nella cristalleria. E i cannoni
sono in occasioni come questa i vaccini,
in altre gli screening, in altre test
ovviamente ultramoderni e ultrasensibili,
oltre che infallibili, in altre
ancora pillole e strumentazione varia
del prima del dopo e del durante per
impedire che le ragazzine incorrano
in gravidanze indesiderate. E i cannoni
nelle cristallerie fanno più danni
che altro, segnatamente quando i
moscerini sono moscerini e non elefanti.
Perché, dunque, non c’è più alcuna
misura nella sanità, nel mondo medico,
nel sistema medico-sanitario in
tutte le sue articolazioni ed espressioni,
e meno ancora ce n’è quando si
parla e si agisce sul terreno della prevenzione?
Ecco la domanda delle domande.
Ecco su cosa ci si dovrebbe
interrogare a fondo. Anche perché il
vizio di allarmare, riproponendo di
continuo lo schema allarme superato
uguale allarme rinnovato, non abbandona
mai la scena. L’influenza A non
è più in ascesa ma comincia a regredire?
Ecco subito approssimarsi all’orizzonte
la polvere sollevata dagli zoccoli
delle possibili, cattive, mutazioni
del virus. Le mutazioni non allignano,
non mostrano di diffondersi? Ecco allora
levarsi, sempre all’orizzonte, il
fumo dall’accampamento della possibile
seconda ondata dell’influenza,
data praticamente per certa. Una seconda
ondata quando un virus è in
rotta, in ritirata? Quando si è già
espresso, ha già dato? Ma quando
mai? Ah, sì, la spagnola, sempre lei.
Fu la spagnola a progredire per ondate.
Tre, addirittura. Ma non venne a
rimorchio e nel pieno della Prima
guerra mondiale – la spagnola? E non
si mischiò con le spaventose condizioni
generali delle popolazioni di
quel tempo e di quella guerra? E le
popolazioni di allora non avevano, anche
a non considerare la terribile
guerra, una speranza di vita poco più
alta della metà di quella di adesso?
Insomma, non è forse vero che non c’è
alcun possibile paragone tra la capacità
di resistenza alle malattie infettive
di allora e quella di oggi, moltiplicata
in popolazioni come la nostra
per dieci o meglio ancora per cento?
Certo che è vero, cosicché ogni riferimento
alla spagnola è in sé fuorviante.
E infatti loro, i non allarmisti,
vi ricorrono così, tanto per fare. Tanto
per non allarmare.
Il Foglio 16 dic. 2009