DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Nuovo comandamento: appaio quindi sono. Sconcertante l’immagine dei familiari di Amanda Knox che si scattano una foto ricordo nell’aula del processo

Un’immagine resterà impressa più d’ogni altra nella memoria di chiunque abbia seguito anche distrattamente il processo di Perugia. È quella scattata nell’aula di giustizia il giorno dell’ultima udienza, poco prima che la Corte d’assise si ritirasse in camera di consiglio per decidere i destini di Amanda Knox e Raffaele Sollecito: ritrae la mamma e la sorella della giovane americana intente a fotografare e a fotografarsi col telefonino. Sulla loro congiunta incombeva l’ergastolo e la preoccupazione delle due qual era? Consegnarsi alla storia attraverso uno scatto. Detto in altre parole: apparire. Dell’inconsistenza umana una volta si diceva: tutta apparenza. O anche: l’apparenza inganna. Oggi sembra esserci un solo modo per esistere: farsi notare. È il tempo dell’apparenza, appunto. Se una telecamera non ti riprende, se un’istantanea non ti fissa in una memoria digitale, se un giornale non pubblica la tua faccia, se non hai mai avuto un passaggio in Tv, non sei nessuno. E se non sei nessuno, a che serve vivere? L’apparenza è diventata l’unica certificazione dell’esistenza, conta molto più della carta d’identità e dell’affetto di chi ti circonda. Da qualche tempo vado ritagliando dai giornali i più strabilianti esempi di questo narcisismo. Intendiamoci, gli eccentrici che pur di finire nelle pagine di cronaca si facevano scolpire in vita la lapide da mettere sulla tomba, lasciando lo spazio vuoto per la data di morte, ci sono sempre stati. Ma qui stiamo parlando di una patologia della psiche che sta contagiando un po’ tutti, persino i sacerdoti. Penso a don Giuliano Gatto, parroco di Tempera, frazione terremotata dell’Aquila, che nella ricorrenza dei defunti ha fatto affiggere finti avvisi funebri sui muri del paese per attirare i fedeli a messa e così s’è guadagnato una passerella (con foto) sul Centro di Pescara e persino sulla Repubblica, con tanto di lode per la sua abilità nel «marketing liturgico». E che dire dello sgangherato presenzialismo di Genny Di Virgilio, che prete non è, ma si vanta d’aver dedicato la sua vita alle rappresentazioni iconografiche della natività di Gesù? Pur di avere una foto sull’Ansa, a partire da settembre il maestro artigiano ha esposto nella sua bottega in via San Gregorio Armeno, la strada dei presepi nel centro storico di Napoli, prima la statuina di Mike Bongiorno, fresco inquilino del paradiso; poi di Pier Luigi Bersani, nuovo segretario del Pd; infine di Walter Mazzarri, allenatore della squadra di calcio partenopea. Non contento, nelle settimane successive è riuscito a inserire nella scena sacra persino Piero Marrazzo, presidente dimissionario della Regione Lazio, risparmiandoci peraltro, con rara sensibilità, Natalì. Il Di Virgilio s’è quindi cimentato nel presepe dedicato ai terremotati dell’Abruzzo, col Bambinello deposto in una tenda della Protezione civile anziché nella mangiatoia. Ha preparato anche la variante suina: la Madonna, San Giuseppe e i pastori hanno le mascherine sul viso per non trasmettere al divino neonato l’influenza A, mentre i re magi recano in dono il vaccino contro il virus H1N1 invece dei soliti oro, incenso e mirra. Totale delle foto che l’Ansa ha riservato a Genny Di Virgilio in tre mesi: 20. Totale delle foto dedicate a Fiorello nello stesso periodo: 13, ma solo perché era morto il suo collega di spot Mike Bongiorno, altrimenti non ne sarebbe stata diramata neppure una. Se ne deduce che sulla principale agenzia di stampa di questo Paese l’intraprendente artigiano di Napoli gode di una visibilità doppia rispetto al più famoso showman italiano. Continuo? Nel quarantesimo anniversario dello sbarco sulla Luna, il quotidiano della mia città non ha trovato di meglio che pubblicare un’intera pagina su tre balordi che, per celebrare la missione del primo cosmonauta Jurij Gagarin, nel 1961 spedirono in orbita da Valeggio sul Mincio la gattina Rikalba. La povera micetta fu rinchiusa dentro un razzo fatto in casa, alimentato da una miscela propellente di zolfo e salnitro. Potete immaginare quale sia stata l’orribile fine dell’animale. Il titolo, crudelissimo, uscito all’epoca fu: «Riuscito l’esperimento ma morto l’astrogatto». Come rileva oggi il cronista, «un’impresa del genere - botto spaventoso, scia di fumo in cielo, strazianti miagolii - non poteva passare inosservata». Infatti i tre, all’epoca diciottenni, furono multati dai carabinieri per maltrattamento di animali e uso illegale di esplosivi. Ora, una malvagità del genere avrebbe consigliato a qualsiasi persona di buon senso di stendere per l’eternità un velo pietoso sul passato. Macché. Quasi settantenne, uno dei tre protagonisti del misfatto si fa intervistare, fornisce la prova fotografica di quella follia e fa sapere, bontà sua, che lui e i suoi amici volevano «imitare il lancio in orbita della cagnetta Laika effettuato dai sovietici il 3 novembre 1957». Un benemerito della scienza. Di sicuro si sentirà moralmente superiore a quel padre del Colorado che nell’ottobre scorso ha tenuto per 24 ore il mondo col fiato sospeso sostenendo d’aver smarrito in cielo il figlio di 6 anni. Non era affatto vero che il piccolo avesse preso il volo per sbaglio su una mongolfiera costruita dal genitore: se ne stava semplicemente nascosto in soffitta. Ma la recita è valsa all’intera famigliola una comparsata al Larry King live sulla Cnn e la prossima partecipazione a un reality show. «Quella lì non fregarmela, ché poi non la rivedo più... Vabbe’, portatela via, tanto rubar foto è il nostro mestiere», mi disse Sergio Saviane, mentre nella sua cucina di Castelcucco staccavo dalla vetrina della credenza il ritratto stinto dal sole della figlia Caterina, morta di droga a 31 anni. Era vero: mi stavo impossessando di un documento raro, e quante volte m’era capitato di fare la stessa cosa, da cronista di nera principiante, nelle abitazioni delle vittime di incidenti stradali. Fosse ancora vivo, il critico televisivo non potrebbe più rivolgermi quella frase. Né io dovrei mettermi nelle condizioni di fargliela pronunciare. Mi basterebbe andare su Internet e accedere a Facebook, la più completa raccolta di facce mai messa insieme da quando apparvero i primi dagherrotipi. Lì troverei - sempre aggiornate, a colori e in ottima definizione - le foto di 18 milioni di italiani, circa la metà della popolazione fra i 15 e i 64 anni. Tutta gente che vuol far sapere di esistere. Un archivio sterminato, accessibile a chiunque, e soprattutto perenne, perché i profili restano nel cervellone centrale di Facebook anche dopo che un utente s’è cancellato, a meno che l’esibizionista pentito non presenti esplicita richiesta di damnatio memoriae e non aspetti 14 giorni per sapere se è stata accolta. Il che non gli darà comunque la garanzia di veder sparire per sempre ciò che fino a quel momento ha rivelato on line sul proprio conto. È la prima volta nella storia dell’umanità che una scienza, l’informatica, mette a disposizione del singolo una platea planetaria. Si capisce come la prospettiva possa aver suggestionato lo studente Giovanni Minchio, il quale - apprendo sempre dal quotidiano della mia città - è stato eletto fra i rappresentanti d’istituto nel più antico liceo classico d’Italia per il solo fatto di comparire in una «campagna elettorale» autoprodotta su Youtube. Tralascio di investigare sugli argomenti illustrati nel video rap Minchio è con voi: il titolo mi pare già esplicativo. Ricapitolando. Loro sono disposti a tutto pur di finire sui giornali, ma noi che ce li mettiamo non siamo migliori, credetemi.

stefano.lorenzetto@ilgiornale.it