Pubblichiamo due brani della relazione
“Le vie di Dio nella ragione
contemporanea” pronunciata ieri a
Roma del cardinale Camillo Ruini
nel corso del convegno “Dio oggi”.
Il primo percorso, che potremmo denominare
“ontologico” ma “a posteriori”,
inizia dalla constatazione – immediatamente
evidente e non negabile se non
vogliamo cadere, come si è visto, in una
contraddizione tra il contenuto che affermiamo
e l’atto con cui lo affermiamo
– che esiste qualcosa piuttosto che nulla.
Qui sorge spontanea la domanda “perché
esiste qualcosa piuttosto che nulla?”,
classica nel pensiero filosofico da
Leibniz ad Heidegger. Essa esprime la
meraviglia davanti al dato primigenio
che qualcosa esiste, davanti cioè all’incontro
con la realtà. Nell’esperienza
stessa che qualcosa esiste possiamo discernere
però tra la sua determinatezza
particolare – per cui io sono me stesso,
un altro uomo è un altro uomo, ciascun’altra
cosa è quella cosa e non una
diversa, inserita in quel determinato
contesto spaziale e temporale – e l’atto
per cui essa esiste: nei termini di San
Tommaso l’“atto di essere”. Quest’ultimo
per un verso è proprio e peculiare di
quella realtà particolare, ma per l’altro
la supera e la deborda da ogni parte,
perché alla base di ogni esperienza di
qualsivoglia realtà esistente ritroviamo
analogamente l’atto di essere. Anzi, si
può e si deve dire che ogni realtà della
nostra esperienza in certo senso è e al
contempo non è: è come una realtà ben
concreta dell’esperienza, non è nella misura
in cui esiste in maniera limitata,
mutevole, condizionata e transitoria,
quindi non da se stessa. Sotto questo
profilo il suo atto di essere non le appartiene
in proprio, ma piuttosto le è dato, e
soltanto così la pone in essere. Per questo
la nostra intelligenza non può non interrogarsi
sull’origine dell’essere delle
realtà che sperimentiamo e ricercarlo in
una realtà profondamente diversa, non
condizionata e trascendente, a cui l’atto
di essere appartenga in proprio, anzi,
che coincida con esso. Nello stesso tempo
diventa chiaro che questa sorgente
trascendente, e finalmente ineffabile,
non può dare l’essere alle realtà del
mondo se non in maniera conforme alla
propria incondizionatezza. Non può
quindi rientrare in alcuna serie di cause
mondane né essere legata da alcun
vincolo necessario con i suoi effetti. Una
necessità può e deve sussistere solo in
direzione inversa, per così dire non dall’alto
al basso ma unicamente dal basso
all’alto, nel senso che le realtà della nostra
esperienza non potrebbero esistere
se non ricevendo in dono da quella sorgente
il loro atto di essere. Pertanto i
concetti di causa e causalità vanno uniti,
in questo ambito, a quelli di dono e
donazione, per esprimere in qualche
modo, secondo le modeste possibilità
della nostra comprensione e del nostro
linguaggio, il rapporto misterioso tra le
realtà della nostra esperienza e la loro
sorgente ineffabile .
Sono ben note le obiezioni che vengono
opposte ad ogni uso trascendente del
principio di causalità: in particolare la
critica che ne ha fatto Kant, anche con la
terza e quarta antinomia della ragion
pura, è tuttora ritenuta da molti la parola
definitiva su questo punto. Poi, con
l’affermarsi della meccanica quantistica,
il principio di indeterminazione è stato
considerato una conferma scientifica
della non universalità, anche all’interno
del mondo fisico, del principio di causalità.
Occorre dunque precisare, sia pure
molto brevemente, il senso in cui facciamo
riferimento all’espressione “principio
di causalità”, gravata nella storia del
pensiero da mille equivoci. Non si tratta
del senso che tale principio assume nelle
scienze empiriche, per indicare una
successione necessaria di fenomeni fisici,
e nemmeno semplicemente di un’estensione
della causalità di cui facciamo
esperienza nel nostro agire. Il significato
che gli attribuiamo – che potremmo denominare
“ontologico” o “metafisico” e
che abbiamo cercato di mostrare concretamente
motivando il passaggio dalle
realtà della nostra esperienza alla realtà
originaria – è invece anzitutto quello di
non limitare in maniera aprioristica la
nostra tendenza a conoscere e quindi di
non sottrarsi alle domande che l’intelligenza
umana si pone quando riflette fino
in fondo sull’esperienza stessa.
L’ambito su cui possiamo interrogarci
– ossia l’intenzionalità della nostra conoscenza
– è infatti illimitato e non ammette
restrizioni, dato che queste diventerebbero
a loro volta automaticamente oggetto
di interrogazione circa la loro legittimità.
Tale ambito illimitato su cui possiamo
interrogarci è esattamente l’essere,
sul quale vertono le due domande
fondamentali “an sit” e “quid sit”. In concreto,
l’essere è ciò che in qualche modo
conosciamo fin dall’inizio dell’uso della
nostra intelligenza e che però rimane
sempre anche il non ancora conosciuto,
l’oggetto di ogni ulteriore domanda, conservando
al tempo stesso una sua profondamente
differenziata ma fondamentale
unità, poiché ogni sua effettiva differenziazione
a sua volta esiste e quindi rientra
nell’ambito dell’essere. Analogamente,
ogni suo limite, se reale, apparterrebbe
in qualche modo all’essere . E’ eliminata
così, fin dall’inizio, la questione del
“ponte” che ha travagliato il pensiero
moderno prima di Kant e che ha contri-
nelbuito
a spingere Kant stesso ad operare
la sua “rivoluzione copernicana”.
Il nostro secondo percorso razionale
verso l’esistenza di Dio ha una profonda
corrispondenza con il percorso precedente:
riprende infatti sotto il profilo della
nostra conoscenza ciò che finora avevamo
considerato sotto il profilo dell’essere.
Il suo punto di partenza è la constatazione
che l’universo è conoscibile da
parte dell’uomo, sia pure in maniera
sempre imperfetta e rivedibile. Tutti i
tentativi di conoscere noi stessi e la natura,
che l’umanità da sempre
ha compiuto nel corso
dei millenni, hanno
questo fondamentale
presupposto.
La nascita e lo sviluppo
delle scienze
moderne e delle relative
tecnologie,
con la loro specifica
razionalità e
fecondità operativa,
che costituiscono
qualcosa di
nuovo e di assai rilevante
nella storia del pensiero,
presuppongono a maggior ragione
la conoscibilità dell’universo e
consentono di cogliere con particolare
chiarezza che non si tratta di semplice
esperienza sensibile, ma di vera e
propria intelligibilità, che si pone a un livello
diverso e più profondo. La struttura
stessa della scienza moderna è caratterizzata
infatti da una stretta sinergia
tra l’esperienza e la matematica: è questa
la chiave dei risultati giganteschi e
sempre crescenti che si ottengono attraverso
le tecnologie operanti sulla natura,
così da mettere a nostro servizio le sue
immense energie. La matematica si spinge
però al di là di tutto ciò che noi possiamo
immaginare e rappresentare sensibilmente,
e proprio così consente i più
straordinari risultati conoscitivi e operativi,
ad esempio nelle equazioni della
meccanica quantistica e della teoria della
contrila
relatività. D’altra parte, i riscontri sperimentali
delle previsioni scientifiche e
il successo delle loro applicazioni pratiche
confermano che esiste una corrispondenza
profonda tra la natura e questa
nostra conoscenza empirico-razionale
(e non soltanto empirica): questo è il
senso nel quale affermiamo che l’universo
è intelligibile. Si tratta di un’intelligibilità
intrinseca alla natura e non ad essa
esterna, dato che è la natura stessa ad
essere, almeno in qualche modo, conoscibile
scientificamente. Non può essere
però qualcosa di cui la natura sia
dotata di per se stessa e in maniera
autonoma: sarebbe infatti del tutto
ingiustificata e alla fine assurda
un’intelligibilità che esista di per
sé, senza essere frutto
ed espressione di
un’intelligenza. Siamo
rimandati così a
un’intelligenza
originaria, che
sia la fonte comune
della natura
e della nostra razionalità:
un’intelligenza
distinta e trascendete
rispetto alla natura e
però, al tempo stesso, ad essa
così originariamente e costitutivamente
presente da porre in essere
una natura in se stessa intelligibile.
Riguardo a questo percorso verso l’esistenza
di Dio a partire da quell’intelligibilità
del mondo che emerge soprattutto
dall’analisi della struttura della conoscenza
scientifica moderna e contemporanea,
sembrano necessarie alcune precisazioni.
Esso appare particolarmente
adatto all’odierna situazione culturale,
nella quale le scienze e gli uomini di
scienza giocano un ruolo quanto mai
grande. Ha inoltre il vantaggio di mettere
in discussione, in certo senso “dall’interno”,
quella tendenza a considerare la
conoscenza scientifica come la sola capace
di farci conoscere qualcosa di razionale
e valido per tutti che spesso sfocia nella
della
negazione della possibilità di conoscere
Dio e anche nella riduzione del soggetto
umano ad un oggetto tra gli altri. Va
detto però chiaramente che anche questo
percorso verso Dio, pur valorizzando
la struttura della scienza empirica, non
sta sul piano di tale genere di scienza e
nemmeno dell’epistemologia intesa come
studio dei metodi e dell’indole proprio
della conoscenza scientifica, ma si
sviluppa invece a livello filosofico e più
precisamente metafisico, come riflessione
sulle condizioni ontologiche che rendono
possibile la conoscenza scientifica.
Le obiezioni che vengono sollevate
contro un simile percorso riguardano
principalmente il fatto stesso che la natura
sia da noi intelligibile. Rimane classica
a questo proposito ed esercita tuttora
una grande influenza la tesi di Kant,
che già abbiamo discusso, secondo la
quale le scienze farebbero conoscere
non la realtà ma soltanto l’“oggetto” . Oggi
però le obiezioni fanno leva soprattutto
su quelle correnti dell’epistemologia
che sottolineano i limiti della conoscenza
scientifica, in particolare la sua rivedibilità
e provvisorietà, assai diversamente
da quel che si pensava al tempo di
Kant. Conoscenza rivedibile e provvisoria
non equivale però a nessuna conoscenza:
in concreto nessuna critica epistemologica
deve indurci a mettere tra
parentesi quella capacità di penetrazione
nella natura che, per quanto parziale,
rivedibile e imperfetta, consente alle
scienze di non limitarsi a descrivere i fenomeni
direttamente osservabili, ma di
indagare su di essi, per concludere ad altri
fenomeni, di cui si ottiene spesso riscontro
sperimentale, oltre che per conseguire
tramite le tecnologie crescenti risultati
pratici. Il principio di indeterminazione
della meccanica quantistica, con
la conseguente necessità che determinate
leggi siano soltanto statistiche e probabilistiche,
non impedisce che anche queste
leggi costituiscano una forma di conoscenza
dei fenomeni fisici, sebbene molto
diversa da quella delle leggi della
meccanica classica. Tali leggi implicano
a loro volta delle serie molto complesse
di processi logici, attraverso i quali è resa
possibile una nuova penetrazione all’interno
del mondo fisico.
E’ da prendere inoltre in attenta considerazione
l’esistenza di una grande abbondanza
di sistemi fisici caotici – il cosiddetto
caos deterministico: se ne occupano
le teorie del caos e della complessità
–, che possono essere studiati solo
con equazioni differenziali non lineari,
che però quasi sempre non sappiamo risolvere.
Ciò mette certamente in evidenza
che la natura non può essere totalmente
rappresentata attraverso un approccio
matematico (o quanto meno attraverso
gli strumenti matematici di cui
disponiamo attualmente), ma non implica
in alcun modo che tali sistemi siano
propriamente e assolutamente inintelligibili
. E’ chiaro, ad ogni modo, che il
caos non può essere il tutto dell’universo,
perché altrimenti le nostre tecnologie
sarebbero inapplicabili, non funzionerebbero.
Questo itinerario verso l’esistenza
di Dio a partire dall’intelligibilità
della natura è certamente vicino alla
“quinta via” di S. Tommaso. A differenza
di essa non parte però dalla presenza
della finalità nell’universo ma, in maniera
più globale e radicale, dalla constatazione
che l’universo è intelligibile.
Nel cercare di arrivare all’esistenza di
Dio partendo dalla nostra conoscenza
della natura non ho fatto riferimento agli
apporti che potrebbero essere forniti dai
risultati, e non solo dalla struttura, delle
attuali conoscenze scientifiche sia dell’universo
sia in particolare della vita. I motivi
di questa scelta sono principalmente
due: il continuo evolversi di tali conoscenze
e la necessità, in ogni caso, di un
passaggio non “fisico” ma metafisico se
con la nostra ragione vogliamo arrivare
davvero, per quanto imperfettamente, a
Dio. Ciò non significa però che l’immagine
dell’universo e della vita attualmente
proposta dalle scienze non sia di grandissimo
interesse per l’approccio razionale
a Dio (come del resto in ogni tempo l’approccio
a Dio è stato condizionato dall’immagine
dell’universo allora vigente).
Mi limito ad osservare che la concezione,
ormai affermatasi nel mondo scientifico,
dell’universo come “storia” non è certo
meno compatibile, ma piuttosto assai più
simpatetica con la contingenza dell’universo
– ossia con la sua non auto-sufficienza
ontologica – rispetto alla concezione
precedente dell’universo stesso, caratterizzata
soltanto dalla perennità delle
leggi fisiche. D’altra parte, i limiti intrinseci
delle scienze moderne, derivanti
dalla loro struttura e metodologia, e la
netta distinzione che va mantenuta tra
sapere scientifico e sapere filosofico e
metafisico, non implicano che vada ignorato
quel rinnovato interesse che le grandi
domande sull’uomo, sulla vita, sulla totalità
dell’universo suscitano sempre più
tra coloro che sono impegnati nella ricerca
scientifica, per il fatto che proprio l’avanzare
delle scienze stimola a porre
problemi che debordano dai canoni metodologici
delle scienze stesse. Non raffrenando
ma al contrario incoraggiando
tale interesse potrà progredire, nella distinzione
reciproca, una feconda interazione
tra le scienze e la filosofia, e anche
tra le scienze e la teologia, non senza la
mediazione della filosofia .
Camillo Ruini
cardinale e presidente del comitato per il
progetto culturale della Cei