DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Schillebeeckx è morto a 95 anni. Una teologia tramontata con il “secolo breve”. L'Olanda e i disastri post-conciliari

di Franco Giulio Brambilla

Edward Schillebeeckx, il teologo olandese del Concilio e postconcilio, ci ha lasciato alla vigilia di Natale. Chi si sofferma a considerare le date della sua biografia umana e intellettuale resta colpito da una circostanza significativa. Il teologo domenicano nasce nel 1914, alla vigilia del primo conflitto mondiale, e scrive la sua ultima opera, “Umanità, la storia di Dio”, nel 1989. Dopo quell’anno la sua fatica conosce un lungo periodo di silenzio. Fino alla sua dipartita dal mondo. La sua parabola intellettuale si colloca dunque tra le due date che delimitano quello che è stato definito il “secolo breve”.

Il giovane teologo nasce ad Antwerpen. Dopo la scuola primaria a Kortenberg, un paesino tra Bruxelles e Leuven, compie gli studi umanistici a Turnhout dai gesuiti. La vocazione religiosa lo indirizza però dai domenicani per l’ispirazione tomista che proponeva un’armonia tra religioso e umano-mondano, nel noviziato in Gent dove si insegnava filosofia con grande attenzione per la teologia.

La sua formazione teologica avviene a Lovanio tra le due guerre mondiali, tra fermenti di novità sul fronte culturale e timidi accenni di apertura nella Chiesa. Questi momenti di sotterranea ricerca che fanno capo alla fenomenologia, all’esistenzialismo e al personalismo trovano sbocco nel confronto appassionato della cultura francese con l’engagement nel mondo, facendo da sfondo ideologico ai nuovi movimenti democratici dell’immediato dopoguerra.

La specializzazione a Parigi (1945) influenzerà profondamente la sua mentalità teologica. L’inizio dell’insegnamento allo Studio teologico domenicano a Lovanio (1946-1956) è solo un momento di apprendistato di una prospettiva teologica che farà di Schillebeeckx un teologo molto ascoltato e ancor più letto, per la sua maggiore accessibilità rispetto alla tormentata lingua di Rahner. Inoltre, il docente domenicano poteva vantare un’approfondita conoscenza della scolastica, in particolare di san Tommaso, non solo per tradizione, ma per la lettura geniale che aveva coltivato durante il suo dottorato di ricerca presso lo studio teologico di Le Saulchoir, nella scia di Chenu. Una lettura che cercava intensamente di coniugare senso storico e intento teorico o, come si diceva allora, teologia positiva e teologia speculativa. La rivisitazione della tradizione si presentava non solo provocata, come nei francesi, da un ricupero delle fonti con il programma di ressourcement, ma motivata da un tratto speculativo più forte, radicato nella fenomenologia ontologica del maestro Dominicus Maria de Petter. Egli cercherà di accreditarlo come l’omologo di Joseph Maréchal, a sua volta ispiratore della “svolta antropologica” di Karl Rahner.

L’opera di Schillebeeckx trovò ascolto presso l’episcopato olandese per l’abilità delle formule della sua produzione teologica prima del Concilio e durante la stessa assise vaticana. In questo periodo fece studi approfonditi sulla tematica sacramentaria, confluiti nella dissertazione “De sacramentele heilseconomie” e nel fortunato testo “Cristo, sacramento dell’incontro con Dio” (1959).

Nel 1957 l’università di Nimega lo chiama all’insegnamento di teologia dogmatica, nel momento di trapasso della Chiesa olandese. Nel crogiolo incandescente dell’Olanda del postconcilio, Schillebeeckx fu un testimone privilegiato del travaglio con cui la Chiesa cattolica voleva ricuperare la distanza accumulata rispetto al mondo moderno. Al di là del giudizio di merito circa il risultato, si trattava di una distanza che sottoponeva la fede a un’obiettiva insignificanza. Schillebeeckx ha accompagnato con la forza della riflessione e la competenza della ricca conoscenza della tradizione gli impulsi e le intemperanze di quel popolo, dove ognuno si sente “homo theologicus”, che non perde mai l’occasione di parlare della religione e della fede. Il teologo fiammingo si è sentito prestato all’Olanda cattolica e ha inteso dare un contributo critico alle trasformazioni operatesi nella Chiesa olandese, divenuta capofila di un avventuroso progressismo.

L’approdo in Olanda segna una svolta non solo nella vita, ma anche nella teologia del domenicano. Il cambiamento ha un periodo di incubazione che risale ai primi anni del suo magistero a Nimega (1957-1966). Da quel momento la sua riflessione diventa una teologia militante. Il “primo” Schillebeeckx assume la veste di mediatore critico, dinanzi ai nuovi fermenti della Chiesa olandese, che fino a quel momento aveva avuto tratti tradizionalisti.

Tutto riceve un’improvvisa accelerazione con la preparazione immediata e la celebrazione del Concilio. Basterà ricordare i suoi interventi degli anni Sessanta sulla cristologia, la presenza eucaristica e il celibato ecclesiastico, ma più ancora il serrato dibattito con la stagione della secolarizzazione e della cosiddetta teologia della morte di Dio. Sullo sfondo la sua teologia della Rivelazione, che forse ha influito per la sua maggiore flessibilità più di ogni altra sull’elaborazione del Concilio.

Solo con il viaggio in America del 1966-1967, il teologo domenicano, per sua esplicita ammissione, non solo diviene l’interlocutore delle nuove istanze culturali e sociali, ma si getta nell’arena della battaglia del rinnovamento ecclesiale. È a partire da queste circostanze che si parla di un “secondo” Schillebeeckx (1966-1989), sovresposto alle luci della ribalta e più difficile da tratteggiare. Intorno agli anni Settanta Schillebeeckx sembra cavalcare un più accentuato rinnovamento. Si pensi alla questione della cristologia — alla quale ha dedicato due voluminose opere — che ha dato origine a un vero e proprio caso, su cui è intervenuta ripetutamente la congregazione per la dottrina della fede. Ma soprattutto si rammentino i suoi volumi degli anni Ottanta sul ministero ecclesiale, assai problematici sotto il profilo degli esiti pratico-pastorali, che hanno di nuovo richiesto l’intervento della stessa congregazione.

Infatti, il discusso saggio “Gesù, la storia di un vivente” (1974), che resta il suo capolavoro, intendeva essere una risposta di alto profilo al pamphlet pubblicato con molto rumore in Germania nel 1972 da Rudolf Augstein, direttore di “Der Spiegel”, cioè alle obiezioni radicali mosse al centro stesso della fede cristiana da un editore molto potente. La sottovalutazione della risurrezione di Gesù, come esperienza di conversione, poneva però dubbi sulla sufficienza della sua ricostruzione storico-teologica.

Il giudizio sull’opera di Schillebeeckx – e del “secondo” in particolare – non può essere formulato solo confrontandosi con i singoli temi del dibattito teologico, ma risalendo alle fonti della sua teologia e all’impianto stesso della sua opera. Soprattutto non è possibile stabilire una cesura di comodo tra “primo” e “secondo” periodo del suo lavoro teologico tale da occultare i motivi di continuità e le strutture di pensiero ricorrenti della sua teologia.

Se è innegabile che la riflessione del teologo olandese accompagni con puntigliosa precisione i problemi e i temi dell’effervescente periodo postconciliare (l’ermeneutica, la teoria critica, la dimensione politica della fede, la cristologia e la soteriologia, i temi del ministero e della Chiesa, la questione del pluralismo religioso), altrettanto non si può nascondere l’impressione che la fine delle grandi ideologie sembri sottrarre forza propulsiva al suo pensiero. Così appare un segno non piccolo che il crollo del muro di Berlino (1989) coincida con la data di pubblicazione dell’ultima sua opera significativa. Nonostante che la pubblicistica si sia impegnata a lanciarla come una “summa” del suo itinerario teologico, essa appare piuttosto un canto del cigno, sia per forza di disegno che per profondità delle questioni trattate.

Più interessante forse è la presentazione dell’opera di Schillebeeckx come parabola della teologia del Novecento. Essa sembra condividerne il destino: come il secolo sembra terminare anzitempo, così sulla sua opera scende il silenzio in anticipo.

La teologia di Schillebeeckx è testimonianza del Novecento come “secolo breve”. Chi la percorre si immerge con passione nelle grandi questioni teologiche e non solo che hanno travagliato il secolo, nel trapasso dalla teologia neoscolastica (o “concettualista”, come la definisce il teologo scomparso) passando per la teologia della Rivelazione fino alle “teologie del genitivo” (del futuro, della speranza, della liberazione e la teologia politica). Ma non si renderà giustizia al lavoro teologico del teologo domenicano se non si renderà conto della tensione epistemologica che l’attraversa.

Schillebeeckx è stato certamente un autore in movimento, ma non ha prodotto un pensiero eclettico. Nella sua stessa idea di teologia era presente il germe dell’attenzione alle cangianti figure del mutamento culturale. Col rischio di professare una visione intuizionista della verità, depotenziando la concettualità a mera mediazione culturale, e di dover sottoporre la verità della fede al cambiamento della sua mediazione storica.

La fine delle “grandi narrazioni”, però, sembra far crollare anche l’opera insonne del teologo olandese e forse spiega il suo “cecidere manus”. Così pare spegnersi – a differenza di altri autori che hanno avuto un successo postumo – anche l’interesse alla sua produzione. Essa cade nell’oblio. Restando tuttavia emblematica, non solo per quello che ha di caduco, ma anche per ciò che lascia in eredità ancora da pensare.

(Da “L’Osservatore Romano” del 29 dicembre 2009).