DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Scola spiega che l’eclissi di Dio è trascorsa: è l’ateismo, assoluto terrestre, a non avere futuro. La relazione

Asuo tempo Augusto Del Noce ha affermato:
“L’ateismo si fa destino della
modernità” dal momento che la modernità
immanentista termina nella rinuncia
radicale alla domanda sul senso. Anzi, insiste
il filosofo, l’in-sensatezza della modernità
altro non sarebbe che la prova del
deicidio compiuto. Ma quale Dio sarebbe
stato ucciso? Ed anche: quale Dio è quello
che la modernità filosofica religiosa ha
affermato e difeso? Per identificarlo possiamo
far ricorso a un celebre passaggio
della Lettera ai Romani in cui San Paolo,
parlando di Abramo, dice: “Sta scritto: ‘Ti
ho costituito padre di molti popoli’; (è nostro
padre) davanti al Dio nel quale credette,
che dà vita ai morti e chiama all’esistenza
le cose che ancora non esistono”
(Rm 4, 17). L’Apostolo sa bene Chi è il Dio
di cui vuol parlare. Dio è “colui che dà vita
ai morti e chiama all’esistenza le cose
che ancora non esistono” (Rm 4, 17). Nel
primo capitolo della stessa Lettera ai Romani,
l’apostolo aveva ammonito che non
ha alcuna scusa chi non riconosce “ciò
che di Dio si può conoscere… perché Dio
stesso lo ha manifestato. Infatti le sue perfezioni
invisibili, ossia la sua eterna potenza
e divinità, vengono contemplate e
comprese dalla creazione del mondo per
le opere da Lui compiute” (Rm 1, 19-20).
Ciò che di Dio si può conoscere, dice
Paolo. Cioè: di Dio non si può conoscere
tutto, ma quel che di Dio si può conoscere
lo possono conoscere tutti. Ebbene la modernità
ha veramente ucciso questo Dio?
O lo si può invece ancora oggi nominare?
La “notitia Dei” continua ad essere pertinente
alla condizione dell’uomo postmoderno
(P. Sequeri)?
Eclissi sembra a me la parola più adeguata
per descrivere il tormentato rapporto
della modernità euroatlantica con Dio.
La metafora del frapporsi della luna tra la
terra e il sole esprime il carattere transitorio
di tale nascondimento. Già Theilard De
Chardin l’aveva evidenziato: “L’umanità ha
momentaneamente perduto il suo Dio”.
La perdita di Dio
La parola eclissi per indicare questa
temporanea sparizione venne usata a partire
dagli anni Cinquanta da Martin Buber,
che la pose come titolo di una celebre
raccolta di saggi. Che cosa intendeva Buber
per “eclissi di Dio”? Con questa metafora
l’esponente del pensiero dialogico
certamente contestava l’idea della “definitiva”
morte di Dio annunciata da Nietzsche
ed affermava la possibilità che Dio
stesso potesse presentarsi, anche a breve,
nuovamente accessibile.
Si riferiva piuttosto a quelle movenze
del pensiero moderno che, in campo sia filosofico
sia teologico, hanno progressivamente
oscurato il rapporto con Dio, perché
hanno ridotto Dio a un contenuto oggettivabile
di una teoria, in ossequio all’epistemologia
razionalistica moderna modellata
cartesianamente sul rapporto soggetto-
oggetto: l’intelligibile è tale nella
forma di una oggettivazione operata dal
soggetto. In tal modo, qualunque sviluppo
teorico abbia raggiunto la riflessione
umana, Dio in quanto eterno “Tu” scomparirebbe
e diventerebbe sempre più difficile
parlare con Dio, ricevere la sua parola
e potervi rispondere.
Già Agostino aveva messo in guardia da
questa tentazione – “Si comprehendis non
est Deus» – e la prima scolastica aveva un
vivo sentimento dell’insuperabile funzione
della “teologia negativa” per parlare di
Dio senza perdere il senso del suo mistero.
Con acume Sergio Quinzio, introducendo
una traduzione italiana del volume di
Buber, denuncia il pericolo di questa interpretazione
dell’esperienza religiosa in
chiave decisamente soggettiva. Se l’eclissi
di Dio è dovuta alla perdita del rapporto
personale con Lui, non si rimedia portandosi
a livello di un’incontrollabile ispirazione
soggettiva, ma ritornando ai dati
reali e oggettivi che in ultima analisi permettono
tale rapporto. L’uscita teologica
dal secolarismo chiede di ripensare in
modo unitario storia, ontologia ed esperienza,
affinché si dia di nuovo relazione
con il Dio di Gesù Cristo.
Tuttavia l’odierna età ci riserva una
grossa sorpresa: in essa non solo è presente
l’istanza critica nei confronti della coscienza
religiosa, ma anche la riaffermazione
del religioso nella vita personale e
sociale (G. Mucci). La questione della secolarizzazione
ha lasciato decantare i suoi
plurimi significati, mostrandone le diverse
attualità. Per esempio, come suggerisce
J. Casanova, oggi è più chiaro che il frutto
duraturo del processo di secolarizzazione
è la “differenziazione” tra sfera religiosa
e sfera secolare, mentre le tesi della secolarizzazione
come inevitabile “declino religioso”
e come irreversibile “privatizzazione”
della religione non sono più attuali.
Anzi, osserva ancora Casanova, “le religioni
di tutto il mondo”, quelle tradizionali
piuttosto che i “nuovi movimenti religiosi”,
“stanno facendo il loro ingresso nella
sfera pubblica” e partecipano alle lotte
per la ridefinizione dei confini moderni
tra sfera pubblica e privata, tra sistema e
mondo vitale, tra legalità e moralità, ecc.
Tuttavia è innegabile che questo ritorno
del sacro, delle religioni, di Dio, possiede
un carattere problematico e non privo di
vistosi equivoci, che hanno dato luogo a
molte valutazioni contrastanti.
Se la sociologia mette in evidenza l’irriducibilità
del sacro, ponendolo in relazione
con l’insoddisfazione lasciata dalla modernità
e con l’inconsistenza della postmodernità,
tuttavia vi appare probabilmente
sovrastimata l’importanza attribuita al fallimento
degli ideali “moderni” nel loro
rapporto con il futuro della religione e in
particolare del cristianesimo. E’ sicuramente
vero che la fine del socialismo reale,
del sogno scientista, di un “pensiero
forte” filosofico autofondantesi, insomma
il tramonto degli “assoluti terrestri”, potrebbe
riaprire lo spazio per altri assoluti
di carattere trascendente. E’ però altrettanto
vero che rimane ancora inesaurito il
compito di comprendere i motivi per cui
l’uno o l’altro assoluto terrestre possa aver
goduto, malgrado la sua interna problematicità,
di tanto successo. Soprattutto, nulla
assicura che questi spazi oggi divenuti liberi
vengano di fatto occupati da una religiosità
in qualche misura davvero teologica,
e non piuttosto lasciati vuoti da un disincanto
universale circa la possibilità in
sé di un assoluto. Resta lo slogan con cui
Gianni Vattimo riassume la significativa
fase terminale della modernità, “addio alla
verità”, addio a quel senso della verità
forte per cui anche la fede cristiana è destinata,
come tutti gli altri assoluti, a sfaldarsi.
Negli ambienti teologici, al momento
stesso in cui ci si accorge dell’urgenza di
ricominciare a parlare di Dio (G. Angelici),
resta marcato il sospetto nei confronti
del ritorno di Dio (D. Tracy), caratterizzato
in modo preoccupante da due estremismi
opposti e connessi. Il religioso si ripresenta
sulla scena della storia da protagonista
accompagnato:
a) dal grave rischio di una estrema soggettivizzazione
dell’esperienza religiosa.
b) dal carattere fondamentalista di talune
correnti religiose, soprattutto quelle legate
all’islam e alla sua presenza massiccia
in Europa, attraverso l’immigrazione.
Il quadro sinteticamente tracciato pone
un problema cruciale alla filosofia della
religione chiamata a interpretare l’evoluzione
socio-religiosa della modernità. In
particolare, per quanto riguarda la proposta
dell’esperienza cristiana, ritorna l’alternativa
cui abbiamo fatto riferimento:
l’annuncio cristiano va effettuato diminuendo
il peso della sua oggettività, cioè
della sua densità ontologica, esponendosi
così all’ovvia perplessità su quale sia la
sorte di “Dio” una volta che il “soprannaturale”
in quanto tale sia sempre più ridotto
a gioco linguistico, oppure è proprio
tale riduzione una delle ragioni (o comunque
un grave segnale) dell’attuale perdita
di rilevanza, anche soggettiva, della fede
cristiana?
Un documentato studio pubblicato qualche
anno fa dallo storico Philip Jenkins,
“La terza Chiesa” (“The Next Christendom”),
ha sottolineato l’urgenza di distinguere
la riflessione sulle sorti dell’occidente
da quella sulle sorti del cristianesimo.
Questa osservazione ha il merito di
porre sul tappeto due questioni: la prima,
se si possa usare “la fine della secolarizzazione”
per formulare delle ipotesi sul destino
del cristianesimo nel suo senso universale
e cattolico; la seconda, più decisiva,
se il problema della trasmissione del
cristianesimo non stia, soprattutto oggi,
nell’assumere il linguaggio evangelico nella
sua “essenzialità”, piuttosto che nella ricerca,
forse ossessiva, circa il modo di tradurlo
nella complessità attuale.
Non si tratta ovviamente di tornare al
pre-moderno, quanto piuttosto di raccogliere
l’invocazione sottesa al ritorno di
Dio in atto, cioè la domanda radicale circa
l’identità più autentica di quel Dio a
cui anche l’uomo contemporaneo non
sembra in grado di rinunciare davvero.
Come non cessa di affermare Benedetto
XVI, la domanda di Dio incontra adeguata
ospitalità nell’orizzonte del Logos-Amore,
in cui la ragione, riconosciuta nella
sua interiore ampiezza, la fede e la vera
religione trovano il loro nesso profondo e
fecondo. E’ solo nel Dio che è Logos-Amore
che riceve senso il tema decisivo della
kenosi divina come modalità con cui Dio-
Verità-Bene si offre agli uomini (H.U. Von
Balthasar) è un Dio debole, ma un Dio che
ama e come tale si offre alla libertà dell’uomo.
E’ un Dio la cui assenza è in realtà
una forma di presenza (Giovanni Paolo II):
“Uno sconosciuto è il mio amico, uno che
non conosco… Per Lui il mio cuore è colmo
di nostalgia… Chi sei tu che colmi il
mio cuore della tua assenza? Che colmi
tutta la terra della tua assenza” (P. F. Lagerkvist)?
La questione del binomio eclissi/ritorno
di Dio assume così un’altra più adeguata
formulazione. Come nominare questo
Dio oggi, come narrare di Lui comunicando
questo Dio vivo all’uomo reale?
Nell’ottica cristiana Dio è Colui che viene
nel mondo e perciò si distingue da esso
senza che questo escluda la possibilità
di coglierlo come familiare. Per parlare di
Dio “si deve azzardare l’ipotesi che sia
Dio stesso ad abilitare l’uomo a divenirgli
familiare. La fede cristiana vive anche
dell’esperienza di Dio che si è fatto conoscere
e si è reso familiare” (E. Jüngel). E’
necessario stabilire prima la familiarità
con Dio perché Dio sia conosciuto. Allora
“Dio è una scoperta, che insegna a vedere
tutto con occhi nuovi”.

Angelo Scola
cardinale e patriarca di Venezia