DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

STORIE DI RINASCITA «La mia vita fuorilegge salvata dalla maternità» Barbara, dal traffico di droga al rifiuto dell’aborto

PAOLO VIANA
U
na perdita, in fondo, è solo un filo di sangue. Routine per un pronto soccorso - «vada a casa e riposi» ­ma Barbara trema. Si regge al mancorren­te. Pochi passi e ci fermiamo al primo bar, i camionisti hanno scaricato i peperoni al­l’Ortomercato di Milano e ora puntano ver­so Genova. Una carezza furtiva al ventre, u­na gravidanza di sei mesi, uno strano ma­trimonio e un compagno che alla bella no­tizia ha cambiato la serratura di casa. Ra­gazza madre senza essere stata una ragaz­za: «le mie compagne di classe abbassava­no lo sguardo mentre passavo». Le si inu­midiscono ancora gli occhi, chiari e indu­riti come le cicatrici; tante, si confondono ai tatuaggi. Sceglie il tavolino contro la pa­rete, poi ci ride su. «Non ho paura di nes­suno se non per lei, la piccola. Ma basta u­na ferita a ricordarmi quel mattino». Quan­do i grumi la guardavano da vicino, ran­nicchiata sul pavimento, dove il dolore me­scolava sangue, lacrime, quant’altro.
«Prima dello stupro non ho mai avuto que­sta reazione, e dire che ne ho visti con la fac­cia rotta perché facevano i furbi». Il distacco irrita, tant’è ostentato, marchio di fabbri­ca di una vita
border line , notti brave a Mi­lano, le strade dello spaccio, i locali di via­le Bligny, i Navigli sbarluccicanti e l’Oltre­po delle ville e delle Ferrari. «Anche lo zio ne aveva una»: sovente, le porte della ma­la si spalancano in famiglia. Anni prima, un’altra zia, la Rosa del Giambellino, ave­va tirato su con gli stessi metodi il bel René: «Renato Vallanzasca. Mi pare che si cono­scessero, lui e lo zio. Ma sono storie vecchie. Per 22 anni ho vissuto la vita sbagliata, al suo fianco. Lo seguivo, lo veneravo, lo zio mi usava come palo, per portare messag­gi, incontrare persone ricche e potenti». Ti prostituivi? «Mai». Droga? «Cocaina, a fiu­mi. Lo zio faceva affari tra la Calabria e la Croazia, a quanto ho capito». Secon­do gli inquirenti, Barbara aveva capi­to ben più di quello che ha rivelato, quando si è presen­tata al commissa­riato vogherese per essere arrestata: « Non ce la facevo più a vivere di not­te, a vestire Prada e Moschino, a bere, tirare di coca, tra pestaggi e intimidazioni contro chi non voleva pagare la roba . E io al mattino ero niente di niente: le mie com­pagne di classe, al solo vedermi, cambia­vano marciapiede». La mano cerca lei: «La sento crescere e mi rendo conto di essere una donna diversa, voglio che lei lo sia, un giorno. Ho paura per lei, sono felice per lei e lavoro per lei. Fac­cio l’imbianchina, lavoro pesante, per una come me: perché Voghera non dimentica». Adesso Barbara va a Milano per imbianca­re pareti e se entra in un night è per ri­strutturarlo: «Ma i clienti appena sanno chi sono mi mandano via, dicono che non vo­gliono noie». Ha tentato di mettere a frut­to il diploma di infermiera: solo porte chiu­se. È tornata a vivere dai genitori. Giura di aver smesso con le piste ma intercetta il mio sguardo, che è poi il medesimo dei vo­gheresi. «Quando lo dico mi guardano tut­ti con il tuo scetticismo, ma gli esami del sangue non mentono: leggili anche tu, so­no pulita». Tira fuori dalla borsa un mazzo di fogli stropicciati, le stesse analisi che ha mostrato ai responsabili dell’Associazione Giovanni XXIII: «Loro non mi hanno giu­dicata, mi hanno aiutata ad avere co­raggio. Vivo del mio lavoro, cercavo so­lo qualcuno che mi dicesse che faccio bene a tenerlo, que­sto figlio » . L’eco­grafo dice femmi­na: « la chiamerò Carol » precisa di getto e tu pensi alla faccia che farà il parroco; pensi che potrà sempre mimetizzarsi tra le tante Ca­rolina di queste campagne; pensi che co­munque nell’Italia delle Noemi poteva an­darle anche peggio. Anche nel nome, però, c’è un indizio di questa rinascita. «La chia­merò Carol – m’illumina Barbara – perché se era un maschietto si sarebbe chiamato Giovanni Paolo».
Finalmente trovo il coraggio di metterle sotto gli occhi una foto di don Benzi: «Cre­diamo nello stesso Dio, non dico di essere stata una buona cristiana ma so di volere il meglio per la mia bambina e per il nostro futuro. Ho chiesto aiuto al Signore nei mo­menti
peggiori, anche quel mattino, e que­st’aiuto è arrivato». Quel mattino erano in due e sono entrati in casa con lo spacca­denti tra le dita. Il ricordo strizza gli occhi: «Mi hanno detto 'vai a raccontare anche questo'. Con il tempo ho dimenticato il dolore fisico. Del resto, non posso mica passare tutta la vita a odiare quei due». Del resto, uno degli stupratori è sparito nel nul­la.
«Il mio incubo peggiore – confida – è la vi­ta che ho sprecato. Non cerco alibi, è av­venuto anche per volontà mia. Ho iniziato a lavorare per lo zio che avevo sei anni: è entrato nella mia cameretta, mi ha messo una valigia sotto il letto e mi ha detto: non alzarti neanche per fare pipì. Andandose­ne, mi ha lasciato una mancia di cinquan­tamila lire: era il 1982, giocavo ancora con le bambole. Poche settimane prima di mo­rire, mi ha chiesto scusa di ciò che aveva fatto di me. Non so se sono riuscita a per­donarlo ». A trentatre anni, Barbara è una donna che rinasce scegliendo di dare la vita. Inquieta e incerta, sola contro tutti, assistita dalla Papa Giovanni e protetta da quei genitori ai quali aveva voltato le spalle. «Ho voluto raccontare questa storia perché so cosa sia la violenza e forse posso convincere qual­che donna incinta, indecisa e stordita dal­la paura, che si può credere nella vita an­che quando il passato ti assedia. Ne ho par­lato con un amico che fa il prete e ho deci­so di raccontare la mia storia a Natale, per­chè è oggi che rinasce la speranza. La mia è che il passato sia veramente passato».
Per strapparselo via, tutto quel suo passa­to pesante, Barbara ha dovuto implorare i poliziotti, ha rivelato dove si trovava la
ro­ba
ed è quasi impazzita di fronte ai loro sguardi increduli. «La prima volta è stata cacciata in malo modo. È tornata all’indo­mani e pian piano si è conquistata la loro fiducia» spiega oggi Maurizio Sorisi, l’av­vocato che l’ha assistita per anni. Fu sua una delle prime istanze di ricusazione di un giudice in base alla legge Cirami: «Era ap­pena entrata in vigore la legge - ricostrui­sce - e abbiamo scoperto che la possibilità di ricusazione era molto più restrittiva, tant’è che la Cassazione ce l’ha negata».
Nell’estate del ’99 Barbara si è trovata ad es­sere la principale confidente degli inqui­renti nell’operazione Intreccio: decine di inquisiti, altrettante condanne, un giro di coca e complicità su cui la stampa locale ha versato fiumi d’inchiostro. Si sa, alla ca­salinga di Voghera certe storie torbide piac­ciono alquanto. Che poi a vuotare il sacco fosse una delle regine delle notti dell’Ol­trepo bastava a far tremare la buona so­cietà delle cascine e degli studi professio­nali, quella dello shopping da Melchionni e del crodino in piazza Duomo... «Raccon­terò tutto a mia figlia - giura - , senza tace­re nulla e il racconto finirà con l’assoluzio­ne, perché alla fine il giudice mi ha assol­to ». A non essersi assolta è lei: «Negli anni in cui facevo quella vita - racconta - un mio amico fu stroncato da un’overdose. Ho la sensazione di averlo ucciso anch’io. Ma al­la mia bimba insegnerò che, se ci tieni dav­vero, puoi cambiare». Lo sguardo è diven­tato quello di una mamma.


Avvenire 20 dic 2009