New York. Del Frisco’s, gran bisteccheria
sulla Quarantonevesima strada di
Manhattan, all’angolo con la Sesta avenue.
Il pensatore newyorchese Franco Zerlenga,
già professore di Storia dell’islam alla
New York University e poliedrico operatore
culturale della città, ordina un filetto e
un’insalata verde e racconta di aver partecipato,
sabato scorso, a una manifestazione
downtown contro la decisione dell’Amministrazione
Obama di processare in una
Corte penale federale di New York Khaled
Sheik Mohammed, l’architetto degli attacchi
islamisti all’America dell’11 settembre.
“Eravamo quasi tutti liberal – dice
Zerlenga che è democratico da una vita ed
è stato elettore, finanziatore e sostenitore
di Barack Obama – Ma anche noi liberal
non ci vogliamo arrendere al ritorno alla
mentalità da 10 settembre. Non siamo tutti
come gli editorialisti del New York Times”.
Zerlenga ce l’ha con molti, si fa fatica
a contenerlo. Si comincia con l’attorney
general Eric Holder, l’uomo dell’Amministrazione
che ha deciso di processare KSM
a New York: “Sono d’accordo con chi, sul
palco, lo ha ridicolizzato ricordando le risposte
evasive che ha dato al Senato.
Com’è possibile che questo sia davvero il
nostro attorney general?”.
Zerlenga tende a non prendersela troppo
con Obama, anche se gli imputa a denti
stretti di voler evitare lo scontro diretto
con quella che il pensatore newyorchese
considera la vera minaccia dell’umanità:
l’islam. Al presidente, però, Zerlenga ha
scritto una lettera: “Obama dice che bisogna
rispettare l’islam. Vorrei sapere che
cosa dobbiamo rispettare dell’islam: gli
stupri delle bambine? Le teste mozzate?
Vorrei saperlo. Dice anche che l’islam vero
è un’altra cosa. Ecco dica qual è l’altra
cosa”. Il terzo obiettivo polemico di Zerlenga
sono i repubblicani, secondo lui anch’essi
incapaci di ribellarsi all’imperante
ideologia del politicamente corretto sul
caso KSM. L’ex vicepresidente Dick Cheney,
ovviamente, non sarebbe d’accordo,
ma Zerlenga dice che se i repubblicani
avessero voluto davvero opporsi alla decisione
di processare il capo terrorista con
tutti i diritti garantiti al cittadino americano
avrebbero potuto chiedere l’impeachment
del ministro della Giustizia Holder.
Il quarto obiettivo di Zerlenga è, come si
può immaginare, il New York Times. Secondo
il prof. italo-americano, il giornalone
liberal della città nei giorni scorsi ha
pubblicato “un editoriale indegno” a commento
del referendum svizzero sui minareti.
“Sono ignoranti – comincia Zerlenga
– non sanno nemmeno che i minareti nonsono
luoghi di culto, ma le torri da cui il
muezzin cinque volte al giorno chiama i fedeli
alla preghiera. Sono come i campanili,
sono stati copiati dall’impero bizantino.
Nessuno ha vietato ai musulmani svizzeri
le moschee. E, in ogni caso, le moschee
non sono luoghi di culto, sono nate come
luoghi sociali dove tra le altre cose si prega.
Le moschee non sono come le chiese
cristiane, i musulmani possono pregare
ovunque, basta che si rivolgano verso la
Mecca”.
Zerlenga è difficile da contenere su
questo tema: “Mia moglie è svizzera e mi
racconta che lì, dopo le 10 di sera, è vietato
farsi la doccia perché lo scarico dell’acqua
disturba gli inquilini del piano di sotto.
Gli svizzeri sono fatti così. Vogliono vivere
in pace, senza essere disturbati. Il
muezzin che canta cinque volte al giorno
dà fastidio come la doccia. Non si capisce
perché il New York Times inviti sempre a
rispettare e comprendere la cultura islamica,
ma non gliene freghi niente delle
abitudini degli svizzeri”. Senza dimenticare,
aggiunge Zerlenga, “che non si può rispettare
la democrazia soltanto quando
produce risultati politicamente corretti”.
Il pensatore newyorchese ricorda, inoltre,
che anche in Italia le chiese e i sindaci si
mettono d’accordo per non disturbare i
cittadini con le campane: “Se uno vuole
sapere a che ora c’è la preghiera, accende
il computer e lo scopre su Internet. Non
c’è bisogno che ce lo ricordi un muezzin,
specie se i paesi musulmani non garantiscono
la reciprocità. Il New York Times,
per esempio, si occupi dei tanti filippini
cattolici che lavorano in Arabia Saudita, a
cui è impedito pregare”. (chr.ro)
Il Foglio 11 dic. 2009