DISCERNERE
Uno sguardo profetico sugli eventi
Moschee e minareti Il referendum elvetico svela preoccupazioni in Europa
ROMA, domenica, 13 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Il referendum in Svizzera contro la costruzione di minareti per le moschee ha sollevato ancora una volta la questione della crescente presenza islamica nell’Europa occidentale. Secondo lo spoglio finale, il 57,5% dei votanti e la maggioranza dei cantoni si sono espressi in favore del divieto.
In Svizzera sono presenti circa 200 moschee e luoghi di preghiera, in gran parte situati in fabbriche e magazzini in disuso, secondo un rapporto dell’agenzia stampa Swissinfo del 29 novembre. Solo quattro di queste dispongono di un minareto.
Come riportato da ZENIT il 30 novembre, i vescovi svizzeri hanno criticato il divieto alla costruzione di minareti. In un comunicato pubblicato lo stesso 30 novembre, la Conferenza episcopale svizzera ha dichiarato che il divieto rappresenta “un ostacolo e una grande sfida sul cammino dell’integrazione nel dialogo e nel rispetto reciproco”.
Fortunatamente, poco prima del referendum svizzero, Stefano Allievi, un sociologo italiano dell’Università di Padova, ha stilato un rapporto sulle moschee dal titolo: “Conflicts Over Mosques in Europe: Policy Issues and Trends”.
Pubblicato con il patrocinio del Network of European Foundations, il rapporto inizia ripercorrendo le diverse controversie emerse in Europa a causa della presenza islamica.
-- Conflitti su principi e idee: dalla questione Rushdie in Gran Bretagna, a quella sulle vignette pubblicate in Danimarca.
-- Conflitti derivanti da episodi di violenza verificatisi in Europa e riguardanti l’Islam o provocati dal terrorismo islamico e dalle sue conseguenze nei Paesi europei.
-- Controversie sollevate di frequente e oggetto di dibattito pubblico relative a questioni di gender, come per esempio il ruolo delle donne nell’Islam.
Il culto
Per quanto riguarda la questione delle moschee, Allievi spiega che non riguarda solo la costruzione dei luoghi di culto, ma anche la questione della loro visibilità nelle città europee, cosa che ha un’evidente valore simbolico.
Poi vi è la questione della diffusione dell’adhan, la chiamata alla preghiera dei muezzin, oltre alla questione dei cimiteri musulmani e il diritto di disporre di zone riservate nell’ambito dei cimiteri già esistenti.
È un errore, osserva il rapporto, interpretare questi conflitti come se fossero solo il risultato di strumentalizzazioni politiche. In realtà – prosegue Allievi – si tratta di questioni profonde di natura sociale e culturale.
Nel recente passato, la questione dei luoghi di culto islamico era legata alla presenza di lavoratori musulmani arrivati in Europa a partire da qualche decennio fa. Inizialmente – spiega Allievi – le sale di preghiera sorgevano negli spazi comuni degli edifici in cui i lavoratori vivevano o lavoravano.
Verso la fine degli anni Settanta e soprattutto negli anni Ottanta, vi è stata una progressiva diffusione delle sale di preghiera, basata sulla crescente consapevolezza del carattere permanente dell’immigrazione, osserva il rapporto.
Con il tempo, il numero delle sale di preghiera si è moltiplicato ed è aumentata la concentrazione dei musulmani nelle comunità locali. Di conseguenza, soprattutto nelle grandi capitali, sono stati costruiti grandi centri islamici. Questo è stato normalmente fatto con finanziamenti esteri – osserva il rapporto – provenienti spesso dalla Lega musulmana mondiale, un’organizzazione sotto il controllo dell’Arabia Saudita.
Al di fuori delle principali città, le moschee che sono state costruite sono state collocate nei sobborghi industriali, dove era più facile trovare edifici delle dimensioni adatte allo scopo, oppure nei quartieri etnici, nelle periferie delle grandi città.
I numeri
Una parte del rapporto di Allievi contiene un’analisi dei dati sul numero delle moschee presenti in Europa. In questo contesto l’autore mette in rapporto il numero delle moschee con il totale degli abitanti musulmani.
Per quanto riguarda l’Europa occidentale, egli calcola che vi siano 18,06 milioni di musulmani e 10.869 moschee, grosso modo equivalenti ad una mosche per ogni 1.660 musulmani. Questo rapporto è paragonabile alla situazione propria di molti Paesi musulmani, nonché, in Europa, ai luoghi di culto delle maggiori religioni cristiane del luogo.
Il rapporto esclude poi i dati relativi alla Bosnia, dove l’Islam ha una presenza storica e radicata, e relativi alla Tracia, dove è presente una minoranza musulmana storica. Il risultato è che il mondo degli immigrati islamici, che ammonta a circa 16,44 milioni di persone, dispone di 8.701 moschee, che corrisponde a un luogo di preghiera per ogni 1.890 musulmani che vivono in Europa.
“Il dato può sembrare sorprendente, dato il diffuso luogo comune sulla scarsità dei luoghi di culto musulmani”, osserva Allevi.
Mentre questa diffusa impressione può essere vera per alcuni Paesi, esposti ad un fenomeno immigratorio più recente, non risulta fondata in termini di media europea, aggiunge.
Inoltre – prosegue il rapporto – se si mettono a confronto questi dati, con il numero delle persone di origine musulmana che effettivamente praticano la loro religione, che ammonta a circa un terzo, secondo un recente studio citato, il numero dei musulmani per moschea si riduce significativamente. “Pertanto, il problema di una carenza di luoghi di culto non esiste”, conclude l’autore.
Il rapporto poi prende in esame la situazione di quei Paesi in cui la presenza islamica è particolarmente concentrata. In Francia i musulmani ammontano a circa 5,5 milioni di persone, corrispondenti all’8% della popolazione. Questi dispongono di circa 2.100 luoghi di culto islamici nel Paese. Si tratta di una proporzione inferiore rispetto ad altri Paesi, ma secondo il rapporto, questo dato è simile a quello delle altre religioni ed è ascrivibile al fenomeno di secolarizzazione proprio dell’ideologia repubblicana della nazione.
A confronto
La Germania si colloca al secondo posto, dopo la Francia, tra i Paesi europei con maggiore popolazione musulmana – dai 3,2 ai 3,4 milioni – che, se messa in rapporto alla popolazione totale, risulta essere considerevolmente minore: circa il 3%.
Il numero delle mosche in Germania è invece il più elevato in Europa (almeno 2.600), secondo lo studio. Infatti, il rapporto tra il numero delle mosche e la popolazione musulmana è il più alto del Vecchio Continente, esclusa la Bosnia, e la loro presenza è significativa e altamente visibile, secondo Allievi.
Nel Regno Unito, il numero delle moschee è piuttosto rilevante se si tiene conto che la popolazione musulmana di circa 2,4 milioni dispone di più di 1.000 moschee, osserva il rapporto.
Inoltre, molte di queste moschee sono state costruite da zero, soprattutto nelle grandi comunità etniche del Paese. Vi sono infatti 116 moschee a Birmingham, di cui 10 costruite ex novo, per una popolazione musulmana di 140.000 persone. A Bradford ve ne sono 44, di cui 6 costruite ex novo, per un totale di 75.000 musulmani. Mentre a Manchester ve ne sono 31, di cui 5 costruite ex novo, per 125.000 musulmani.
Nell’insieme, il rapporto moschee/musulmani è circa il doppio rispetto alla media europea, essendovi quasi una moschea per ogni 1.000 musulmani. Inoltre si trovano spesso luoghi di preghiera islamici e altre forme di strutture religiose in diverse tipologie di posti: aeroporti, centri commerciali e luoghi di incontro di vario tipo, tra cui gli stadi di calcio.
Sempre nel rapporto, l’autore osserva che il minareto “sembra essere diventato il simbolo per eccellenza del conflitto concernente l’Islam, o meglio, la sua visibilità nella sfera pubblica”.
Allievi osserva che, storicamente, la costruzione delle torri è sempre stata un segno di potere e di dominio. Per esempio, nelle città medievali italiane, la vittoria di una famiglia o di una città su un’altra, era sempre corredata dalla distruzione delle torri della parte sconfitta.
In conclusione l’autore afferma che le moschee in se stesse non sono un problema. Il problema sta invece nel dilagante relativismo culturale e religioso che sta ora portando ad un cambiamento non solo quantitativo ma anche qualitativo negli Stati europei. Il modo in cui l’Europa dovrà affrontare questa situazione continuerà ad essere un argomento di grande interesse per gli anni a venire.
Zerlenga spiega perché vietare i minareti è come (non) farsi una doccia
sulla Quarantonevesima strada di
Manhattan, all’angolo con la Sesta avenue.
Il pensatore newyorchese Franco Zerlenga,
già professore di Storia dell’islam alla
New York University e poliedrico operatore
culturale della città, ordina un filetto e
un’insalata verde e racconta di aver partecipato,
sabato scorso, a una manifestazione
downtown contro la decisione dell’Amministrazione
Obama di processare in una
Corte penale federale di New York Khaled
Sheik Mohammed, l’architetto degli attacchi
islamisti all’America dell’11 settembre.
“Eravamo quasi tutti liberal – dice
Zerlenga che è democratico da una vita ed
è stato elettore, finanziatore e sostenitore
di Barack Obama – Ma anche noi liberal
non ci vogliamo arrendere al ritorno alla
mentalità da 10 settembre. Non siamo tutti
come gli editorialisti del New York Times”.
Zerlenga ce l’ha con molti, si fa fatica
a contenerlo. Si comincia con l’attorney
general Eric Holder, l’uomo dell’Amministrazione
che ha deciso di processare KSM
a New York: “Sono d’accordo con chi, sul
palco, lo ha ridicolizzato ricordando le risposte
evasive che ha dato al Senato.
Com’è possibile che questo sia davvero il
nostro attorney general?”.
Zerlenga tende a non prendersela troppo
con Obama, anche se gli imputa a denti
stretti di voler evitare lo scontro diretto
con quella che il pensatore newyorchese
considera la vera minaccia dell’umanità:
l’islam. Al presidente, però, Zerlenga ha
scritto una lettera: “Obama dice che bisogna
rispettare l’islam. Vorrei sapere che
cosa dobbiamo rispettare dell’islam: gli
stupri delle bambine? Le teste mozzate?
Vorrei saperlo. Dice anche che l’islam vero
è un’altra cosa. Ecco dica qual è l’altra
cosa”. Il terzo obiettivo polemico di Zerlenga
sono i repubblicani, secondo lui anch’essi
incapaci di ribellarsi all’imperante
ideologia del politicamente corretto sul
caso KSM. L’ex vicepresidente Dick Cheney,
ovviamente, non sarebbe d’accordo,
ma Zerlenga dice che se i repubblicani
avessero voluto davvero opporsi alla decisione
di processare il capo terrorista con
tutti i diritti garantiti al cittadino americano
avrebbero potuto chiedere l’impeachment
del ministro della Giustizia Holder.
Il quarto obiettivo di Zerlenga è, come si
può immaginare, il New York Times. Secondo
il prof. italo-americano, il giornalone
liberal della città nei giorni scorsi ha
pubblicato “un editoriale indegno” a commento
del referendum svizzero sui minareti.
“Sono ignoranti – comincia Zerlenga
– non sanno nemmeno che i minareti nonsono
luoghi di culto, ma le torri da cui il
muezzin cinque volte al giorno chiama i fedeli
alla preghiera. Sono come i campanili,
sono stati copiati dall’impero bizantino.
Nessuno ha vietato ai musulmani svizzeri
le moschee. E, in ogni caso, le moschee
non sono luoghi di culto, sono nate come
luoghi sociali dove tra le altre cose si prega.
Le moschee non sono come le chiese
cristiane, i musulmani possono pregare
ovunque, basta che si rivolgano verso la
Mecca”.
Zerlenga è difficile da contenere su
questo tema: “Mia moglie è svizzera e mi
racconta che lì, dopo le 10 di sera, è vietato
farsi la doccia perché lo scarico dell’acqua
disturba gli inquilini del piano di sotto.
Gli svizzeri sono fatti così. Vogliono vivere
in pace, senza essere disturbati. Il
muezzin che canta cinque volte al giorno
dà fastidio come la doccia. Non si capisce
perché il New York Times inviti sempre a
rispettare e comprendere la cultura islamica,
ma non gliene freghi niente delle
abitudini degli svizzeri”. Senza dimenticare,
aggiunge Zerlenga, “che non si può rispettare
la democrazia soltanto quando
produce risultati politicamente corretti”.
Il pensatore newyorchese ricorda, inoltre,
che anche in Italia le chiese e i sindaci si
mettono d’accordo per non disturbare i
cittadini con le campane: “Se uno vuole
sapere a che ora c’è la preghiera, accende
il computer e lo scopre su Internet. Non
c’è bisogno che ce lo ricordi un muezzin,
specie se i paesi musulmani non garantiscono
la reciprocità. Il New York Times,
per esempio, si occupi dei tanti filippini
cattolici che lavorano in Arabia Saudita, a
cui è impedito pregare”. (chr.ro)
Il Foglio 11 dic. 2009
Cardinal Barbarin: una moschea ha bisogno di un minareto? Commenta il referendum in Svizzera
LIONE, lunedì, 7 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Quella dei minareti è una “questione di secondo piano”. Ciò che conta è che “i musulmani che sono in Europa” abbiano “diritto a luoghi di culto”, ha affermato il Cardinale Philippe Barbarin, Arcivescovo di Lione (Francia) e primate delle Gallie, dopo il voto svizzero che proibisce la costruzione di minareti.
In alcune dichiarazioni all'emittente RCF Lyon Fourvière, il porporato ha dichiarato che la “paura” non è mai “un buon segno”.
“Ciò che mi interessa è sapere se i musulmani che sono in Europa hanno o meno il diritto a luoghi di culto. La risposta è 'sì, è evidente!', e ci sono moschee”, ha affermato il Cardinale. “E' necessario che in queste moschee ci siano minareti? E' una questione di secondo piano, il che non vuol dire che sia secondaria”.
Il primate delle Gallie ha anche sottolineato di aver parlato “per telefono con il rettore della grande moschea di Lione”, che gli ha detto che “per lui ciò che conta è la moschea. Il minareto è una questione di secondo piano”.
Citando il Concilio Vaticano II, il porporato ha ricordato che “ciascuno ha il libero diritto di esercitare la propria religione e deve essere rispettato da tutti in questo campo”. “Pertanto, quando la paura dice 'd'accordo le moschee, ma non i minareti', non è un buon segno (come hanno detto i Vescovi svizzeri fin da prima della votazione). Ci sono sicuramente motivi per questo e bisogna comprenderli”, ha aggiunto.
Il Cardinale Barbarin ha infine ricordato la “tradizione già antica di dialogo profondo con i musulmani e gli ebrei” a Lione, “il che ci permette di dire che questo diritto libero deve essere lo stesso ovunque, anche nei Paesi musulmani”.
“Durante il nostro viaggio in Algeria, circa tre anni fa, abbiamo detto insieme, cristiani e musulmani, che eravamo colpiti dal 'cattolicesimo delle catacombe'”, ha segnalato. “Il Presidente Sarkozy ha ricordato a sua volta 'l'islam delle catacombe'”.
“In alcuni Paesi c'è un cattolicesimo delle catacombe – ha insistito –. Io l'ho detto e anche alcuni musulmani lo deplorano”.
Cattolici e ortodossi uniti contro il secolarismo ma divisi sui minareti. B-XVI INCONTRA MEDVEDEV E SBARCA NELLE LIBRERIE DI MOSCA
russo Dmitri Medvedev e il Papa – ha
avuto il risultato dell’elevazione della
rappresentanza russa presso il Vaticano
ad ambasciata – è stato preceduto da importanti
segnali sul fronte dei rapporti tra
cattolici e ortodossi. Il più importante riguarda
la pubblicazione che il patriarcato
russo ha fatto del libro “Europa patria
spirituale”. E’ un volume che raccoglie i
discorsi che Joseph Ratzinger ha dedicato
all’Europa. Il presidente del Dipartimento
per le relazioni esterne del Patriarcato
di Mosca, l’arcivescovo Hilarion
Alfeyev di Volokolamsk (il numero due
del patriarcato), ha dedicato al libro
un’ampia prefazione nella quale chiama
i cristiani a fare fronte comune contro “il
secolarismo militante”. Scrive Hilarion:
“L’Europa deve accettare il diritto delle
varie comunità di conservare le proprie
identità culturali e spirituali, il nucleo
delle quali molto spesso è costituito dalla
religione”. E ancora: “Credo che la solidarietà
tra cristiani europei debba divenire
sempre più manifesta al fine di salvaguardare
le rispettive identità, combattere il
secolarismo militante e affrontare le altre
sfide della modernità”. E rispettare le diverse
identità significa che “le libertà democratiche
dell’individuo, compreso il
suo diritto all’autodeterminazione religiosa”,
non devono prevaricare “i diritti delle
comunità nazionali a preservare la propria
integrità, la fedeltà alle proprie tradizioni,
etica sociale e religione”.
La chiesa cattolica è in sintonia con
questa visione? E ancora: può un serio
dialogo ecumenico fondarsi, con le conseguenze
pratiche che ciò comporta, su una
difesa pubblica e tenace di quei princìpi
che separano il cristianesimo dal secolarimo
militante? Dice al Foglio Alberto
Melloni: “Il dialogo ecumenico prospettato
dal Concilio aveva un respiro teologico
ampio. Era impensabile intendere i rapporti
tra cristiani come un mero arroccamento
contro il secolarismo. Mentre trovare
punti di contatto tra cristiani esclusivamente
nella lotta al secolarismo è la
fine dell’ecumenismo così come il Vaticano
II l’ha inteso. E’ la vittoria di quei settori
del cristianesimo più conservatori. Il
Concilio apriva al confronto tra posizioni
teologiche diverse e non voleva chiudersi
sulla difensiva. In questo senso credo che
la prefazione che Hilarion fa al libro non
aggiunga nulla al dialogo ecumenico tra
le parti. Un dialogo serio e profondo deve
ancora avvenire”.
La chiesa cattolica ha avuto la possibilità
di confrontarsi con la modernità prima
della chiesa ortodossa. Quest’ultima,
schiacciata dal regime sovietico, è rimasta
in impasse per quasi tutto il XX secolo.
Non così Roma: il Concilio Vaticano II
ha rappresentato una volontà di confronto
con la modernità mai manifestatasi prima.
Ricorda l’artista gesuita padre Marko
Ivan Rupnik – docente al Pontificio istituto
orientale e alla Gregoriana, ha ideato
sul tema dell’incontro tra oriente e occidente
i mosaici della Cappella vaticana
“Redemptoris Mater” – che “la chiesa cattolica
ha avuto, a differenza di quella ortodossa,
il Vaticano II per confrontarsi
con la modernità. E questo è un bel vantaggio
che pone inevitabilmente Roma su
un altro piano rispetto a Mosca. All’inizio
del XX secolo Mosca stava per indire un
Concilio, poi ha rinunciato. E’ naturale
che oggi gli ortodossi chiedano una difesa
dei propri princìpi contro quell’aspetto
della modernità più deteriore che è il secolarismo.
E’ il loro modo per cercare di
affrontare la modernità dopo anni in cui
la modernità è stata tenuta fuori dai confini
del loro stato. Credo però che non
debba procedere su questa difesa la ricerca
dell’unità tra le due chiese. Occorre
piuttosto prendere sul serio le radici
della nostra comune fede”.
Uno dei principali collaboratori del
cardinale tedesco Walter Kasper nella sezione
orientale del Pontificio consiglio
per la promozione dell’unità dei cristiani
è il gesuita Milan Zust. E’ stato lui a presentare
due giorni fa a Roma il volume
“Europa patria spirituale”. Dice padre
Zust che “la pubblicazione del volume da
parte degli ortodossi mostra un’affinità
particolare tra Mosca e l’attuale papato.
Un’affinità che nella battaglia al secolarismo
trova un suo motivo d’espressione. Lo
dimostrano anche le dichiarazioni che
Mosca ha fatto a seguito della sentenza
europea sui crocifissi in Italia: combattere
il secolarismo significa anche difendere
i propri simboli religiosi”.
Certo, un conto sono i crocefissi, un altro
i minareti. Sui crocefissi gli ortodossi
si sono espressi in un certo modo. Sul referendum
inerente i minareti in Svizzera
hanno invece detto altro. E’ stato il rappresentante
del patriarcato di Mosca al
Consiglio d’Europa, padre Filarete, a dire
che il “no” ai minareti “non è un problema
di libertà religiosa”. E ancora: “Sarebbe
non equilibrato accusare la Svizzera
di discriminare in qualche modo la minoranza
islamica: la Svizzera non ha alcuna
restrizione sulla costruzione di luoghi
di preghiera per nessuno”. Il Vaticano, invece,
ha detto altro, praticamente l’opposto.
C’è dunque una concezione diversa
della libertà religiosa? Il problema dell’espressione
religiosa la chiesa cattolica
l’ha affrontato nella dichiarazione del
Concilio Vaticano II “Dignitatis Humanae”.
Spiega don Nicola Bux, consultore
della Dottrina della fede: “La dichiarazione
conciliare dice a mo’ di premessa che
l’unica vera religione ‘sussiste nella chiesa
cattolica e apostolica’. E’ la stessa cosa
che pensano di sé gli ortodossi. In questo
senso la religione che ha plasmato un intero
popolo non può che venire prima
dell’autodeterminazione religiosa dei singoli.
In cosa consiste allora la libertà religiosa?
Nel fatto che a tutti deve essere
concesso l’accesso alla verità. Ovvero: tutti
devono poter ricercare la verità. E’ in
questa luce (altrimenti non capisco la cosa)
che leggo il disappunto vaticano verso
l’esito del referendum sui minareti. Il ‘no’
ai minareti soffoca questa ricerca della
verità”.
Il Foglio 4 dicembre 2009
Ma la religione non c’entra, i minareti sono simboli politici
Pensare che laggiù cercasse di affermare un messaggio politico oltre che religioso significherebbe andare oltre ciò che è legittimo per una persona democratica, liberale, rispettosa della cultura, della religione altrui. Di fatto l’islamofobia, salvo per alcuni casi patologici, è un’invenzione dell’Onu quando nel 2004 il segretario Kofi Annan la definì ufficialmente causa della frustrazione di molti musulmani, senza dedicare una parola alla jihad che allora impazzava e ad altri immensi problemi. Infatti nella sua maggioranza l’Islam ufficiale, nei suoi luoghi d’origine e all’estero, non ha accettato la dichiarazione universale dei diritti umani, contrapponendovisi con altre come la Dichiarazione del Cairo che afferma «ognuno ha diritto a sostenere ciò che è giusto, e a mettere in guardia contro ciò che è sbagliato e malvagio in conformità con la Sharia islamica».
Al fondo della problematica che ha condotto gli svizzeri a rispondere di no a nuovi minareti non c’è una scarso rispetto della libertà religiosa. Non c’è nemmeno la perdita di identità che ora ci fa correre, sbagliando, a chiedere di mettere una croce sulla bandiera. Non c’entra nulla. C’è una quantità di semplici ragioni di diffidenza che impediscono di desiderare l’allargamento dell’Islam. Né si deve immaginare che la scelta inviti i musulmani all’estremismo: ben altre ragioni guidano lo jihadismo, che è nutrito solo da sé stesso, dalla decisione indefettibile di convertire il mondo. Gli svizzeri vedono la TV e si preoccupano: la sharia porta alla pena di morte, all’impiccagione di omosessuali, alla lapidazione. In generale, nei paesi islamici, vige la dittatura, i dissidenti soffrono, muoiono. I cristiani sono perseguitati, gli ebrei poi non se ne parla nemmeno.
I gruppi e i Paesi che più forte gridano la loro fede sono anche i più evidenti, e certo sia l’Iran di Ahmadinejad che gli Hezbollah o Hamas o Al Qaida rappresentano modelli negativi, terroristi. Certo, non tutto l’Islam è così. Ma parliamone, esaminando i problemi senza censure con accuse di islamofobia; abbiamo un problema, che lo si risolva guardando negli occhi l’immigrazione islamica, o alla prima occasione la preoccupazione si trasformerà in rifiuto. E non vale a calmare la pubblica opinione l’idea che comunque il vero Islam è altrove rispetto alla jihad: sono pochi e minoritari gli episodi in cui una voce islamica valorosa si levi per garantirci il rispetto della democrazia, della sessualità altrui, dei convertiti, dei dissidenti. La negazione politically correct, quella sì che lascia fiorire la jihad: in Svizzera dopo l’arresto di otto persone sospettate di aver collaborato in alcuni attentati suicidi in Arabia Saudita la reazione del capo di un gruppo musulmano locale, fu che «il problema non è l’aumento dell’integralismo islamico ma l’intensificarsi dell’islamofobia». Anche negli Usa si è ripetuto lo stesso per l’episodio di Fort Hood.
È proibito ridere di vignette che parlano dell’Islam, è proibito occuparsi della terrificante oppressione delle donne, è abbietto notare che fra Islam e regimi autoritari sussiste un’evidente identificazione, è orrido sollevare il tema del delitto d’onore, della poligamia che ci trascinano decenni indietro, e soprattutto è generico parlare della jihad, e allora visto che tutto ciò che è concreto è vietato la reazione si concentra sui simboli dell’islam.
Esistono milioni di moschee senza minareto nei paesi islamici. Ma se si costruiscono vicino alle chiese, sono generalmente più alti, orgogliosi, potenti. La costruzione del luogo di culto islamico ha in sé una serie di espliciti significati secolari che sempre ribadiscono la santa competizione dell’Islam per conquistare il mondo. Molte moschee sorgono su antichi templi ebraici e cristiani. Una rivolta contro il politically correct sull’Islam può avvenire ovunque, e la molla non sarà l’intolleranza religiosa: non è nostra, né Svizzera, né europea.
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Il divieto di costruire minareti in Svizzera non intacca la libertà religiosa Afferma monsignor Marchetto, Presidente del dicastero per i Migranti
ROMA, giovedì, 3 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Il Segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, monsignor Agostino Marchetto, ritiene che il divieto di costruire minareti in Svizzera non vada contro la libertà religiosa.
In alcune dichiarazioni rilasciate a I.Media in seguito alla decisione del popolo svizzero, durante un referendum, di includere nella propria Costituzione il divieto di costruire minareti, il presule ha lamentato il fatto che i promotori della consultazione abbiano giocato sui “sentimenti di paura” anziché promuovere un “dialogo” tra i musulmani e la popolazione locale.
Il risultato del referendum, ha detto monsignor Marchetto, “esprime una preoccupazione che riguarda la fisionomia del Paese, la questione della visibilità, ma che non intacca la libertà religiosa”, che, ha precisato, “non è stata messa in discussione”.
“E' una questione che non infrange direttamente il diritto di culto perché sarà sempre possibile costruire moschee”, ha aggiunto, sostenendo che ci si riferisce piuttosto alla “visione che i musulmani hanno delle proprie moschee”. “Bisogna tener conto della loro sensibilità, ma questa decisione non infrange la libertà di culto”, ha indicato.
Monsignor Marchetto ha quindi invitato a “riconoscere che in numerosi Paesi musulmani la visibilità delle chiese e dei campanili, ad esempio, deve tener conto del contesto in cui si vive e della mentalità della gente”.
Il presule ha anche espresso il desiderio che “si intavoli un dialogo tra quanti vogliono moschee di un certo tipo e le realtà locali che manifestano sensibilità, a volte anche ingiuste”.
Dal canto suo il Cardinale Jean-Louis Tauran, Presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, ha commentato alla “Radio Vaticana” i risultati del referendum svizzero dicendo che la questione è a suo avviso “prima di tutto il problema della libertà di religione, e la libertà di religione suppone la libertà di culto e quindi la libertà di praticare la propria fede in privato e in pubblico e quindi di avere anche i propri luoghi di culto”.
“Ma, ovviamente – ha chiarito –, quando si costruisce una chiesa in un Paese a maggioranza islamica o una moschea in un Paese a maggioranza cristiana, la preoccupazione di chi costruisce l’edificio di culto deve essere di armonizzare la costruzione nel paesaggio urbanistico e nel contesto culturale della società”.
Al di là di questi aspetti, ha sottolineato, “il problema pone, in realtà, la questione dello statuto giuridico dell’islam in Europa, oggi”, andando quindi “molto al di là dei fatti di cui parliamo”.
Dieci ragioni per un No. Le ragioni dei vescovi svizzeri sulla questione dei minareti
respingere l’iniziativa popolare contro i minareti. Le ho condensate in questi dieci punti.
I Vescovi ritengono che è una strada sbagliata:
1. perché non affronta i veri problemi posti dall’integrazione degli islamici nel nostro
contesto sociale e culturale;
2. perché per disciplinare la costruzione di luoghi di culto basta la legislazione ordinaria
che regola una urbanizzazione intelligente, di coerenza col paesaggio, di rispetto
dell’ordine pubblico, di proporzionalità verso le nuove presenze, di armonia sociale;
3. perché la Costituzione deve iscrivere i diritti e i doveri fondamentali validi per tutti e
non contenere proibizioni discriminanti per qualcuno;
4. perché i cattolici ticinesi non devono dimenticare i tre articoli d’eccezione una volta
presenti nella Costituzione federale che li riguardavano, proibendo di istituire nuove
diocesi, di costruire nuovi conventi, di accogliere i gesuiti. Perché percorrere una
strada che la storia ha già giudicato inopportuna e superata?
5. perché il vero problema non sta nei minareti, cui si attribuisce una valenza di
occupazione del territorio che non hanno, ma in quello che si predica nelle moschee,
che si insegna nelle scuole coraniche, nell’accettazione dei nostri principi democratici
di libertà, uguaglianza e distinzione tra leggi religiose e civili;
6. perché poniamo le premesse per azioni ricattatorie, esponendo a nuovi pericoli di
boicotto i cristiani dimoranti nei paesi islamici;
7. perché contravveniamo alla Carta internazionale dei diritti dell’uomo, che la Svizzera
ha firmato, aprendo un pericoloso varco a ritorsioni che si riterranno giustificate;
8. perché rendiamo più difficile l’azione del Governo che in politica estera si dichiara
neutrale e non nemico di qualcuno ed indeboliamo la sua credibilità sul piano
internazionale anche a difesa dei cristiani perseguitati;
9. perché non è con la paura né sventolando il panorama di una Svizzera riempita di
minareti, che è un falso evidente, che si risolvono i problemi, ma con il dialogo, la
difesa convinta della nostra civiltà e il rispetto dei nostri ordinamenti;
10.perché i cristiani non dovrebbero mai dimenticare uno dei principi fondamentali del
Vangelo: “Non fate agli altri quello che non volete che gli altri facciano a voi”.
Mi pare ce ne sia abbastanza per un voto sereno e coraggioso, perché critico, onesto e
giusto.
+ Pier Giacomo Grampa
Vescovo di Lugano
Il partito dei minareti. Massimo Introvigne
Parte dai neo-fondamentalisti islamici alla Tariq Ramadan – lupi travestiti da agnelli, meno solerti quando si tratta di chiedere libertà di culto per i cristiani in Arabia Saudita o in Pakistan –, passa per gli eurocrati di Bruxelles e di Strasburgo – quelli del no al crocifisso e del sì invece al minareto – e arriva fino all’immancabile Gianfranco Fini.
Ma frequentando, come mi capita in questi giorni, qualche dibattito e talk show assisto pure a una strana rinascita di affetto e stima per la Chiesa cattolica da parte della sinistra nostrana. Zitti – ci intimano –: “il Vaticano” ha parlato e tutti i buoni cattolici devono stringersi intorno alla difesa dei minareti. L’antico motto “Roma locuta, quaestio soluta”, “Quando Roma ha parlato la questione è risolta” è invocato da comunisti, dipietristi e persino musulmani. Fateci caso: quando la Congregazione per la Dottrina della Fede – che, lei sì, esprime la posizione ufficiale della Chiesa – afferma che sospendere l’alimentazione e l’idratazione dei malati in coma è omicidio per molti media italiani si tratta dell’“opinione del cardinal Levada”, subito contraddetta nella colonna accanto dello stesso giornale da un altro cardinale, magari in pensione, anziano e milanese. Se invece un vescovo o un collaboratore dell’“Osservatore Romano” attacca gli elettori svizzeri sui minareti ecco che “il Vaticano” ha parlato e i cattolici devono stare zitti.
Non ignoro l’opinione dei vescovi della Svizzera. Ma il loro presidente eletto si è dichiarato anche contrario al celibato dei sacerdoti, ed è difficile presentare pure questa come opinione “del Vaticano”. Se poi dai titoli passiamo alla sostanza, vediamo che si fa una gran confusione tra tre questioni diverse. La prima riguarda la libertà di culto. Questa deve essere garantita anche ai musulmani, i quali hanno diritto di radunarsi in sale di preghiera – beninteso per pregare, non per reclutare (è successo) terroristi da inviare in Afghanistan – pulite, igieniche e note alle forze dell’ordine come tali. L’Occidente, che ha una cultura giuridica diversa, garantisce la libertà religiosa anche a chi non la offre in patria ai cristiani: anche se fa bene quando gli fa notare l’esigenza di reciprocità, come il Papa stesso ha fatto parlando agli ambasciatori dei Paesi islamici a Castel Gandolfo il 25 settembre 2006.
La seconda questione riguarda i minareti. Non sta scritto da nessuna parte che per esercitare la libertà di culto ci sia bisogno del minareto. La sua funzione propria è quella di chiamare i fedeli alla preghiera – oggi in genere tramite un altoparlante – ma questo di norma non avviene in Europa dove non ci sono muezzin, neppure elettronici. Pertanto il minareto è nel migliore dei casi un ornamento estetico, nel peggiore un’affermazione identitaria, volta a segnare la conquista di un territorio: di qui la corsa a minareti più alti dei campanili cristiani. Nel secondo caso quella che si risolve in una provocazione può essere vietata dallo Stato in nome del bene comune; nel primo, se del caso, in nome della tutela dell’identità architettonica e paesaggistica delle nostre città.
Ma c’è una terza questione, che viene prima del minareto: la moschea. Purtroppo si continuano a confondere moschee e sale di culto. A differenza della sala di culto, la moschea è un’istituzione globale dove la comunità musulmana si trova per affrontare questioni non solo religiose ma giuridiche, sociali e politiche. “È dunque scorretto – ha scritto l’islamologo gesuita padre Samir Khalil Samir su “Avvenire”, un quotidiano talora presentato anch’esso (erroneamente) come “il Vaticano” – parlando della moschea, parlare unicamente di ‘luogo di culto’. Com’è scorretto, parlando della libertà di costruire moschee, farlo in nome della libertà religiosa, visto che non è semplicemente un luogo religioso, ma una realtà multivalente (religiosa, culturale, sociale, politica, eccetera)”. Non si può escludere che ci siano in Europa situazioni locali in cui – dopo avere considerato con grande prudenza chi è che la propone, la finanzia e la gestirà – le dimensioni, la rilevanza e il contesto in cui si muove una comunità musulmana rendano accettabile che si prenda in esame l’idea della moschea. Ma non sempre e non dovunque. Non abbiamo bisogno di lezioni sulla libertà religiosa né da Fini né da Rosy Bindi. Si può essere a favore della libertà religiosa ma contro le autorizzazioni indiscriminate a costruire moschee. E minareti.
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Il commento del cardinale Tauran sulla questione dei minareti in Svizzera

“La questione dei minareti pone, secondo me, prima di tutto il problema della libertà di religione, e la libertà di religione suppone la libertà di culto e quindi la libertà di praticare la propria fede in privato e in pubblico e quindi di avere anche i propri luoghi di culto. Ma, ovviamente, quando si costruisce una chiesa in un Paese a maggioranza islamica o una moschea in un Paese a maggioranza cristiana, la preoccupazione di chi costruisce l’edificio di culto deve essere di armonizzare la costruzione nel paesaggio urbanistico e nel contesto culturale della società. Ma al di là di questi aspetti, penso che il problema pone, in realtà, la questione dello statuto giuridico dell’islam in Europa, oggi: quindi, va molto al di là dei fatti di cui parliamo”.