C’è sempre un prete che torna. E nel ritorno
di un prete, cinematograficamente
parlando, c’è sempre qualcosa di
buono. Se non per la gente, se non per il
Padreterno, almeno per lui. E se quasi un
quarto di secolo fa l’insopportabile don
Giulio di Nanni Moretti tornava da un’isola
per riparare infine in una chiesetta in
mezzo alla Terra del Fuoco (geniale inversione
dell’ordine delle cose: invece di cercare
Dio, è il Padreterno che deve venire
a scovarti – del resto, fa parte del Suo mestiere),
adesso tocca al missionario padre
Carlo di Carlo (ma guarda un po’, prete e
attore si chiamano allo stesso modo) Verdone
nel film “Io, loro e Lara”. Che dubbi
ne ha (il preservativo, l’Aids, le tentazioni
della carne), e sconfitte ne subisce, come
quando ritrova sul ciglio della statale certe
sue pecorelle smarrite arrivate direttamente
dall’Africa, e stanno orbe di fede e,
oggettivamente, “pure di mutande”. E tanto
era insopportabile la famiglia di don
Giulio, tanto è insopportabile questa di
padre Carlo: dal babbo un po’ rincoglionito
e in tardo arrapamento dietro la badante
moldava al fratello cocainomane alla
sorella psicologa – che più che altro di
una psicologa avrebbe bisogno. Chiaro
che, piuttosto che una simile attruppata,
meglio: a) il seminario; b) la savana. Ma
non è una caricatura, quella di padre Carlo.
Anzi, ripetutamente Verdone ha spiegato
che ha voluto interpretare il missionario
(e dopo aver rassicurato sulle migliori
intenzioni i missionari tutti, comboniani
e gesuiti) proprio per non ripetere il
puttaniere borghese, il cinico arraffone, il
coglione modaiolo (quello che voleva chiamare
suo figlio Kevin: peccato per cui non
c’è assoluzione), il tenero pasticcione, l’insopportabile
psicolabile, “scusa cara, mi
dai qualche momento di concentrazione
onde avere un’eccellente erezione?”. Un
uomo perbene, voleva interpretare Verdone,
un uomo “etico”. Ha detto pure: “In
mancanza di altri punti di riferimento,
credo che questi preti siano sempre più al
centro dell’interesse della gente”. E di
più, quando qualche tonaca mostrò apprensione
per il progetto – sullo schermo,
e con una certa saggezza, i preti hanno
sempre il sospetto di un seguito possibile
di “Uccelli di rovo” adeguatamente aggiornato
– Verdone chiarì che, casomai, ne
poteva venir fuori “un bell’assist per la
chiesa”. Dal Gallo Cedrone al missionario
un po’ sperso, il sospetto di una conversione
del regista potrebbe farsi strada. Bastava
vederlo domenica sera, da Fabio Fazio,
mentre in lungo e in largo ripercorreva
tutta la sua vita alla luce tanto dei preti cinematografici
interpretati quanto dei preti
reali incontrati, a cominciare dai Pallottini
che stavano di convento davanti casa
sua, e nella cui chiesa servì messa per anni
– fino a quando il collega chirichetto
non fu beccato a fare la cresta sulle offerte,
e il sospetto di un’associazione a delinquere
si fece strada in sagrestia. “All’università
ho studiato storia delle religioni.
Se non avessi fatto l’attore, molto probabilmente
sarei diventato docente in questo
ambito, che mi ha sempre appassionato
molto”, ha aggiunto. Per fortuna, Verdone
ha assicurato che non andrebbe mai in
giro a parlare della sua fede e di sempre
possibili folgorazioni mariane – essendo
la casistica dei vip convertiti molto affollata
e piuttosto grottesca. Persino quelli
della Cei si sono goduti in anteprima l’opera,
e il giudizio è stato positivo, “guardarlo
è stata come una carezza”. Ha molti
amici preti, Verdone – scambio quantomeno
alla pari, tra la sua ammirevole conoscenza
degli ansiolitici e la loro profonda
convinzione della serenità che dà la fede.
E di molti parla con ammirazione. Forse
esagera un po’ solo quando batte e ribatte
sul fatto che padre Carlo è “un prete moderno”
– definizione ambigua, essendo
spesso il “prete moderno” ciarliero molto
e suggestivo poco, ben più moderno era il
suo caricaturale don Alfio di tanti anni fa,
con gli occhiali da sole, il linguaggio giovanile
e l’inconcludenza parolaia. Nell’attesa
del Papa morettiano, questo “bianco,
rosso e pretone” risulta intanto già una
bella prova di fede.
Stefano Di Michele
Il Foglio 6 gennaio 2010