Nonostante tutto, occorre rilanciare le buone ragioni di un cammino insieme, cattolici ed ebrei. Per trovare uno sbocco che si radichi nelle chiese locali e nei cristiani comuni.
Poco meno di ventiquattro anni dopo la storica visita di Giovanni Paolo II (13 aprile 1986), un papa tornerà a varcare la soglia della sinagoga di Roma. L’evento è fissato per il pomeriggio del 17 gennaio 2010, quando Benedetto XVI incontrerà la comunità ebraica della capitale in occasione della tradizionale Giornata del dialogo tra cattolici ed ebrei e della commemorazione di un importante fatto storico per la comunità ebraica romana.
Era stato lo stesso Benedetto XVI, significativamente, a parlare della sua imminente visita al tempio romano, nel telegramma di auguri inviato il 17 settembre scorso al rabbino capo della comunità, Riccardo Di Segni, per le festività di Yom Kippur e Sukkot. Inizialmente, la visita era stata ventilata per l’autunno del 2009, poi la scelta è caduta felicemente sul 17 gennaio, in coincidenza con la 21ª edizione della Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei. Una data, ricordiamolo, stabilita dalla Cei non a caso, ma per ragioni teologiche e simboliche a un tempo: la ricorrenza, infatti, viene immediatamente prima della classica Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (18-25 gennaio), con la doppia intenzione di evidenziare la priorità dell’incontro con Israele, radice santa della fede cristiana rispetto a qualsiasi pur apprezzabile sforzo ecumenico, e l’impossibilità che quest’ultimo possa dare risultati concreti senza un rinnovato invito a porsi, tutti insieme, alla scuola di Israele.
Dopo la ferita
È altrettanto evidente che la visita pontificia va collegata con la crisi della Giornata verificatasi l’anno scorso, quando – da qualche anno si sta meditando sulle Dieci Parole descritte nel capitolo 20 dell’Esodo – sarebbe stato il turno, seguendo la numerazione ebraica, della quarta parola: «Ricordati del giorno di sabato per santificarlo». Non è stato così, però, perché da parte ebraica l’iniziativa fu sospesa, a causa dell’incidente legato al testo rinnovato della preghiera per gli ebrei del venerdì santo, contenuta nell’ultima stesura del Missale Romanum, anteriore al Vaticano II, pubblicata nel 1962 da Giovanni XXIII. La preghiera era già stata modificata, nel ’59, da Giovanni XXIII, eliminando l’aggettivo perfidis e il riferimento alla perfidia giudaica, creando in tal modo le premesse per la fine dell’insegnamento del disprezzo e per la svolta decisa che sarebbe stata avviata da Nostra aetate n. 4.[i] Anche se occorre chiarire che l’uso del nuovo testo dovrebbe in teoria riguardare solo pochi gruppi, mentre nella stragrande maggioranza dei casi si continuerà a pregare con la formula del Messale di Paolo VI («Preghiamo per gli ebrei: il Signore Dio nostro, che li scelse primi fra tutti gli uomini ad accogliere la sua parola, li aiuti a progredire sempre nell’amore del suo nome e nella fedeltà alla sua alleanza»), le reazioni ebraiche non si erano fatte attendere, in alcuni casi assai dure. A cominciare dall’assemblea rabbinica italiana presieduta da rav Giuseppe Laras, che era giunta a dichiarare la necessità di una «pausa di riflessione nel dialogo» con i cattolici, ritenendo il testo in sostanziale continuità con il tradizionale conversionismo verso gli ebrei, oltre che il segno di una vistosa marcia indietro preconciliare rispetto al cammino del dialogo.
Si parlò all’epoca – lo fece Vincenzo Paglia, vescovo di Terni-Narni-Amelia e presidente della Commissione per l’ecumenismo e il dialogo della Cei – di un 17 gennaio ferito, invitando le parti a ricucire in fretta gli strappi.[ii] Solo il 22 settembre scorso, in un incontro svoltosi tra il card. Angelo Bagnasco, presidente della Cei, e i rabbini Laras e Di Segni, è stato deciso di riprendere la celebrazione comune della Giornata di riflessione ebraico-cristiana del 17 gennaio.
«È stata comune la convinzione – recita la nota diffusa nell’occasione dalla Cei – che la ripresa di tale celebrazione aiuterà la comprensione reciproca e renderà più fruttuosa la collaborazione per la crescita dell’amore verso Dio e il prossimo». Secondo la Cei, «il cammino compiuto in questi ultimi decenni è stato straordinario e pieno di frutti per tutti», tanto che nel frangente le due parti hanno auspicato che si favoriscano in ogni modo, sia a livello istituzionale sia di base, le occasioni d’incontro: la fede nel Dio dei Padri, ricevuta in dono, rende responsabili i credenti cristiani ed ebrei per l’edificazione di una convivenza basata sul rispetto dell’insegnamento di Dio».
Il card. Bagnasco ha concluso ribadendo che «non è intenzione della chiesa cattolica operare attivamente per la conversione degli ebrei», rimarcando altresì la propria preoccupazione «per quei focolai di antisemitismo e di antigiudaismo che, di tempo in tempo, continuano ad apparire, ribadendo la necessità di un’attenta vigilanza, auspicando che i legami già profondi tra le due parti si stringano ancor più».
Verso un’interpretazione condivisa
Quella di Roma sarà la terza sinagoga ad essere visitata da Benedetto XVI, dopo quelle di Colonia, in Germania, nell’agosto 2005, e di Park East a New York, nell’aprile del 2008. A Colonia, in particolare, tenne un discorso importante, durante il quale disse fra l’altro: «Dobbiamo conoscerci a vicenda molto di più e molto meglio. Perciò incoraggio un dialogo sincero e fiducioso tra ebrei e cristiani: solo così sarà possibile giungere ad un’interpretazione condivisa di questioni storiche ancora discusse e, soprattutto, fare passi avanti nella valutazione, dal punto di vista teologico, del rapporto tra ebraismo e cristianesimo». Ma già subito dopo la sua elezione al soglio pontificio, nell’aprile del 2005, egli aveva manifestato con un messaggio a rav Di Segni la sua volontà di confidare «nell’aiuto dell’Altissimo per continuare il dialogo e rafforzare la collaborazione con i figli e le figlie del popolo ebraico».
Il 17 gennaio prossimo, inoltre, vedrà anche il ricordo di una rilevante pagina di storia per gli ebrei capitolini, quella del Mo’èd di Piombo, di cui si fa memoria il due del mese di shevàt in memoria di un avvenimento considerato miracoloso. Nel 1793, infatti, gli ebrei del ghetto di Roma scamparono alla furia del popolino romano che si era radunato presso i portoni del ghetto per incendiarli e penetrare all’interno del recinto con intenzioni ostili, convinto che gli ebrei dessero aiuto e protezione agli odiati sostenitori delle nuove idee rivoluzionarie provenienti dalla Francia. Episodi di violenta intolleranza si erano già verificati altrove e si temeva ormai il peggio, quando un provvidenziale acquazzone, quasi un diluvio torrenziale, contribuì a spegnere le fiamme appiccate ai portoni e, insieme, i bollori dei più scalmanati. Il nome di Mo’èd di Piombo dovrebbe ricollegarsi al colore del cielo di quella giornata, scuro e livido come il piombo.
Il senso del sabato
Anche alla luce della straordinarietà dell’avvenimento, non resta che sperare con forza che la prossima Giornata del 17 gennaio sia colta da tutte le comunità cristiane come un kairòs privilegiato per studiare a fondo il legame intrinseco tra chiesa ed ebraismo, poiché «cristiani ed ebrei, pur non identificandosi, non si escludono né si oppongono, ma sono legati al livello stesso della loro identità» (Giovanni Paolo II, 6/3/1982).
Ai fini di una sua fruttuosa celebrazione, andrà ricordato che lo scopo di quest’appuntamento non è mai stato quello di pregare per gli ebrei, ma di iniziare i credenti in Gesù Cristo al rispetto, al dialogo e alla conoscenza della tradizione ebraica, in armonia con la svolta del Vaticano II, dopo secoli di persecuzioni e di incomprensioni reciproche.
Sarebbe necessario, pertanto, che le diocesi e le parrocchie promuovessero nei giorni della visita di Benedetto XVI dei momenti di riflessione lungo questi due filoni complementari: la riflessione sul vincolo particolare, anzi unico, che lega chiesa e Israele, da un lato; e l’esistenza viva e attuale del popolo ebraico, dall’altro. Ad esempio, con lo studio dei documenti principali sul dialogo cristiano ebraico. O, anche, meditando sul senso profondo della quarta parola del Decalogo e sul suo rapporto con la domenica cristiana, su cui s’incentra la Giornata del 2010, a partire dalle belle considerazioni di rav Avraham J. Heschel tratte dal suo Il sabato: «Per sei giorni della settimana noi lottiamo con il mondo, spremendo profitto dalla terra, il sabato ci interessiamo con cura speciale dei semi dell’eternità piantati nella nostra anima. Al mondo diamo le nostre mani, ma la nostra anima appartiene a Qualcun Altro. Per sei giorni della settimana noi cerchiamo di dominare il mondo, nel settimo cerchiamo di dominare il nostro io».
Una volta di più: il dialogo cristianoebraico ha bisogno di essere rivitalizzato, perché la sua posta in gioco è, per i cristiani, «l’acquisizione della coscienza dei loro legami con il gregge di Abramo e delle conseguenze che ne derivano sul piano dottrinale, per la disciplina, la liturgia, la vita spirituale della chiesa e persino per la sua stessa missione nel mondo di oggi» (C.M. Martini). Da questo punto di vista, il prossimo 17 gennaio rappresenterà un banco di prova, ma anche un sicuro rilancio delle buone ragioni di un cammino che – dopo la pedagogia dei gesti di Giovanni Paolo II e le riflessioni del suo successore – è chiamato a trovare uno sbocco radicato nelle chiese locali e nei cristiani comuni.
Brunetto Salvarani
[i] Ecco una traduzione del testo odierno: «Preghiamo per gli ebrei. Il Signore Dio nostro illumini i loro cuori perché riconoscano Gesù Cristo Salvatore di tutti gli uomini. Dio onnipotente ed eterno, Tu che vuoi che tutti gli uomini si salvino e giungano alla conoscenza della verità, concedi propizio che, entrando la pienezza dei popoli nella tua chiesa, tutto Israele sia salvo».
[ii] Alla questione riportata, si è poi aggiunto, agli inizi del 2009, il caso della revoca da parte di Benedetto XVI della scomunica ai quattro vescovi ultratradizionalisti ordinati illegittimamente da Marcel Lefebvre nel 1988, fra i quali spiccava il vescovo negazionista inglese Richard Williamson: che ha contribuito a rafforzare le proteste di parte ebraica verso la chiesa cattolica. E a fronte delle quali il papa ha più volte ribadito che nulla è cambiato nella lettura postconciliare della Shoà, riaffermando, in occasione della Giornata della memoria, la propria «piena e indiscutibile solidarietà con i nostri fratelli destinatari della prima alleanza», e dicendo inoltre: «La memoria della Shoà sia per tutti monito contro l’oblio, il negazionismo e riduzionismo perché la violenza fatta contro un solo essere umano è violenza contro tutti. La Shoà insegni specialmente sia alle vecchie sia alle nuove generazioni che solo il faticoso cammino dell’ascolto e del dialogo, dell’amore e del perdono conduce i popoli, le culture e le religioni del mondo all’auspicato traguardo della fraternità e della pace nella verità» (27/1/2009).
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