La leggenda nera su Pio XII è un
format di grande successo, dura
da decenni e si nutre di rivelazioni e
polemiche a getto continuo. L’ultima
all’annuncio, qualche settimana fa,
della firma di Benedetto XVI sul decreto
che riconosce le virtù eroiche di
Eugenio Pacelli, passo decisivo in vista
della beatificazione. Un eroismo
di cui settori importanti del mondo
ebraico non trovano traccia nel suo
atteggiamento di fronte alla shoah,
caratterizzato da un silenzio – o meglio
da accenni impliciti ma trepidanti
– che tuttora fa discutere. Ebraismo
a parte, Pio XII è considerato, specie
dalla scuola storica progressista, e
non da oggi, un Papa oscurantista. Eppure
Pacelli non fu uomo timido né
reticente. E all’accusa di oscurantismo
si può replicare facilmente. Basta
guardarlo nelle immagini d’archivio:
ieratico e dotato di grande senso
scenico, abile oratore prima alla radio
e poi in Tv (fu protagonista pure
di un documentario, “Pastor Angelicus”),
voce accorata e ferma. La sue
braccia spalancate al cielo, in mezzo
alla folla del quartiere romano di San
Lorenzo bombardato dagli Alleati, sono
un fermo immagine del Novecento.
Papa regnante per vent’anni nel
mezzo del secolo (2 marzo 1939-9 ottobre
1958), ha parlato e scritto moltissimo:
solo le encicliche (la forma più alta
e impegnativa del magistero pontificio)
sono quarantuno; decine le
esortazioni apostoliche, i messaggi, le
lettere; centinaia i discorsi, le omelie,
le udienze. Costringere questa mole
di parole e gesti in un cliché (Pio XII
Papa antimoderno, e magari un po’
antisemita) è ridicolo.
“Io andrei molto piano a definirlo
un papato reazionario, ebbe dei notevoli
spunti di modernità che furono il
terreno di coltura del Concilio Vaticano
II”, ci dice Paolo Prodi, uno dei nostri
storici più insigni, autore di opere
fondamentali sul papato come istituzione
originaria dell’occidente. Secondo
il professore di Bologna, “basterebbe
leggere il discorso che tenne il 7
settembre 1955 ai partecipanti al decimo
Congresso internazionale di scienze
storiche. Ricollegandosi alla riapertura
degli Archivi vaticani dall’epoca
di Leone XIII, Pacelli poneva tra
parentesi un cupo periodo, il cinquantennio
della lotta antimodernista, e si
apriva alla critica storica riconoscendo
i grandi progressi da essa compiuti.
La chiesa come realtà storica, affermava,
partecipa al mutamento dei
tempi e non può essere legata ad alcuna
cultura determinata” (“L’Eglise
catholique ne s’identifie avec aucune
culture; son essence le lui interdit”,
nell’originale francese).
Un senso acuto della storia e quindi
una libertà intellettuale che in
qualche modo Pio XII mostrò sempre
di avere, sia quando tolse le briglie
agli esegeti con la “Divino afflante
Spiritu” (1943) sia quando le mise ai
teologi con la “Humani generis”
(1950), per citare le sue encicliche più
significative. Allora ci fu chi provò a
metterle una contro l’altra, o a privilegiare
una per svalutare l’altra (vizio
ricorrente nel caso di pronunciamenti
papali), vietandosi così il gusto della
dialettica. In realtà meritano di essere
lette per quello che dicono, senza
troppi retropensieri.
La prima, in particolare, dà il via libera
definitivo a una lettura moderna,
scientifica, della Scrittura dopo
decenni di diffidenza e qualche timida
apertura. Come spesso capita, il testo
nasce per celebrare un anniversario,
il cinquantesimo della “Provvidentissimus
Deus” (1893), l’enciclica
di Leone XIII che tentava di rilanciare
gli studi biblici cattolici alla fine di
un secolo, l’Ottocento, dominato dalle
ricerche di area protestante o positivista.
Erano anni in cui si respirava
un clima di assedio, come ricorda la
“Divino afflante Spiritu” nelle prime
righe: “Nei tempi più recenti, venendo
minacciata da speciali assalti la
divina origine dei Sacri Libri e la retta
loro interpretazione, con ancor
maggiore impegno e diligenza la
Chiesa ne prese la difesa e la protezione”.
Il “razionalismo dilagante”
con cui veniva letta la Bibbia non risparmiava
gli esegeti cattolici (esemplare
il caso di Alfred Loisy, massimo
esponente del modernismo) che andavano
richiamati all’ordine; al tempo
stesso, bisognava rimettere mano
agli studi biblici assicurando uomini
e mezzi e riformando i programmi di
insegnamento nei seminari.
Pio XII non si accontenta di un tributo
ai predecessori (Leone XIII, Pio
X e Pio XI), capisce che nel frattempo
le condizioni “sono grandemente cambiate”.
Le esplorazioni archeologiche
ormai “sono cresciute enormemente
di numero e si praticano con più severo
metodo e con arte raffinata dalla
stessa esperienza, sicché più copiosi e
più certi derivano i risultati”. Ma chi
ha il compito di valutarli? “Quanto poi
da quelle indagini si tragga lume a
meglio e più a fondo comprendere i
Sacri Libri, lo sanno gli esperti, lo sanno
tutti coloro che si applicano a questo
genere di studi”. Gli specialisti sul
campo (archeologi, filologi, etnologi,
storici) non sono più dei temibili rivali
né tantomeno dei fastidiosi scocciatori,
ma degli alleati. L’esegeta cattolico,
da parte sua, dovrà conoscere le
lingue antiche e i testi originali superando,
senza abolirla, la Volgata di
san Girolamo, la versione latina della
Bibbia. Una svolta rispetto al Concilio
di Trento che aveva decretato la Volgata
come la versione “di cui tutti dovessero
valersi come autentica”. Pio
XII precisa che “quell’autenticità va
detta non critica, in prima linea, ma
piuttosto giuridica” perché legittima
un uso secolare e dunque non esclude
l’uso dei testi originali né la possibilità
di traduzioni della Bibbia nelle
lingue nazionali. Ben equipaggiato dal
punto di vista linguistico e critico, “l’esegeta
cattolico si applichi a quello
che fra tutti i suoi compiti è il più alto:
trovare ed esporre il genuino pensiero
dei Sacri Libri”. Per farlo deve individuare
il significato letterale del
testo; esercizio indispensabile, tra l’altro,
“per ridurre al silenzio coloro che,
asserendo di non trovare nei commenti
biblici nulla che innalzi la mente a
Dio, nutra l’anima e fomenti la vita interiore,
mettono innanzi, quale unico
scampo, un genere d’interpretazione
spirituale e, com’essi dicono, mistica”.
In effetti, contro l’esegesi storica si
era compattato un movimento spiritualista
che scongiurava il magistero
di non cedere al metodo scientifico
ed esaltava l’ermeneutica dei Padri
della chiesa; d’altronde in quegli anni
anche esponenti di spicco del rinnovamento
teologico, come Henri de
Lubac e Jean Daniélou, prediligevano
le allegorie e le tipologie di Origene
e colleghi. Ma Pio XII non ha dubbi:
“Anche dai nostri tempi possiamo
aspettarci che si apporti del nuovo
per meglio approfondire e con più
accuratezza interpretare le Sacre
Carte. Infatti non poche cose, specialmente
in ciò che riguarda la storia, a
malapena o imperfettamente furono
spiegate dagli espositori dei secoli
scorsi, mancando ad essi quasi tutte
le notizie necessarie per maggiori
schiarimenti. Quanto ardui e quasi
inaccessibili agli stessi Padri siano
rimasti alcuni punti, ben lo mostrano,
per tacer d’altro, i ripetuti sforzi di
molti fra essi per interpretare i primi
capi della Genesi, ed anche i ripetuti
tentativi di San Girolamo per tradurre
i Salmi in guisa che il loro senso
letterale, cioè espresso nelle parole
stesse del testo, chiaramente trasparisse.
In altri libri o testi solamente
l’età moderna scoperse difficoltà prima
insospettate, poiché una conoscenza
ben più profonda dei tempi
antichi fece sorgere nuove questioni,
per le quali si getta più addentro lo
sguardo nel soggetto. A torto perciò
alcuni, mal conoscendo lo stato della
scienza biblica, vanno dicendo che
all’odierno esegeta cattolico nulla resta
da aggiungere a quanto ha prodotto
l’antichità cristiana; al contrario
bisogna dire che il nostro tempo molte
cose ha tirato fuori, che nuovo esame
richiedono le nuove ricerche e
non leggero sprone mettono all’attività
dell’odierno scritturista”.
L’enciclica cita la teoria dei generi
letterari che era un po’ l’ultimo grido
in fatto di esegesi. Da allora, di strada
se n’è fatta: abbiamo sentito parlare di
Formgeschichte (storia delle forme), Redaktionsgeschichte
(storia delle redazioni),
di ipotesi documentale, di critica
delle fonti, critica formale o critica
canonica, e tutte le infinite ramificazioni.
Forse qualcuno ha perso di vista
la meta, magari perché confonde i
piani. Nel “Rapporto sulla fede”
(1985) l’allora prefetto della congregazione
per la Dottrina della fede, Joseph
Ratzinger, sosteneva che “grazie
al lavoro dell’esegesi, noi percepiamo
la parola della Bibbia in modo nuovo,
nella sua originalità storica, nella varietà
di una storia che diviene e che
cresce, carica di quelle tensioni e di
quei contrasti che costituiscono contemporaneamente
la sua insospettata
ricchezza”; ma senza una teologia biblica
all’altezza, che sappia decifrare
con l’occhio del credente i risultati
dell’esegesi, la Bibbia rimane un “libro
chiuso”. Nella prefazione al documento
della Pontificia commissione
biblica “L’interpretazione della Bibbia
nella Chiesa” (1993), Ratzinger dice
che a suo tempo Pio XII fece bene
ad accettare il metodo storico-critico
ma che il dibattito sulla sua “utilità”
e sulla sua “giusta configurazione”
non si è affatto concluso, anche perché
“nel frattempo la gamma metodologica
degli studi esegetici si è ampliata
in un modo che non era prevedibile
trent’anni fa. Nuovi metodi e
nuovi approcci vengono proposti, dallo
strutturalismo all’esegesi materialista,
psicanalitica e liberazionista”.
Di recente Benedetto XVI è tornato
sull’argomento, più nei panni di
teologo che in quelli di Papa. Nell’introduzione
al suo “Gesù di Nazaret”
mette in guardia dai limiti e dai rischi
che nascono dalle distinzioni sempre
più sottili di tradizioni stratificate e
dalle trasformazioni di ipotesi in verità
indiscutibili: l’ibrido Gesù della
storia/Cristo della fede è l’emblema
di questa deriva. Come per lo scriba
evangelico, dunque, la vera sapienza
sta nell’estrarre dal tesoro della Scrittura
cose vecchie e cose nuove insieme.
Certo, senza vagheggiare un futuro
in cui tutti gli enigmi saranno sciolti.
Pio XII nella “Divino afflante Spiritu”
lo dice bene: “Non vi sarebbe
pertanto motivo di meravigliarsi se a
questa o quell’altra questione non si
avesse mai a trovare una risposta appieno
soddisfacente, perché si ha da
fare più volte con materie oscure e
troppo lontane dai nostri tempi e dalla
nostra esperienza, e perché anche
l’esegesi, come le altre più gravi discipline,
può avere i suoi segreti, che rimangono
alle nostre menti irraggiungibili
e chiusi ad ogni sforzo umano”.
A dare man forte a Pio XII nella
stesura dell’enciclica fu un personaggio
straordinario, Augustin Bea. Gesuita
tedesco, aveva insegnato Sacra
Scrittura prima di diventare, nel 1930,
rettore di quel Pontificio istituto biblico
che era il fiore all’occhiello del
rinnovamento esegetico e per questo
bersaglio di attacchi molto duri. Nella
primavera del 1941 era stato spedito
a tutti i vescovi italiani un libello
anonimo e il cardinale di Napoli,
Alessio Ascalesi, lo aveva portato al
Papa. Il titolo diceva tutto: “Un gravissimo
pericolo per la chiesa e per le
anime. Il sistema critico-scientifico
nello studio e nell’interpretazione
della Sacra Scrittura. Le sue deviazioni
funeste e le sue aberrazioni”. Lo
aveva scritto un prete, don Dolindo
Ruotolo, coagulando il malumore e la
diffidenza di molti. Prendeva di mira
il Pontificio istituto biblico dove si insegnava
un’esegesi scientifica che
causava la “rovina delle anime” e
una “profonda decadenza”. Ma l’attacco
ebbe l’effetto opposto. Pochi
mesi dopo, la Pontificia commissione
biblica scrisse una lettera per difendere
con vigore l’esegesi storica. Il
Papa era pienamente d’accordo e due
anni dopo, il 30 settembre, “nella festa
di San Girolamo, Dottor Massimo
nell’esporre le Sacre Scritture”, firmò
la “Divino afflante Spiritu”, frutto
della stretta collaborazione con Bea
che, due anni dopo, diverrà anche il
suo confessore.
Scrive Mauro Pesce, docente di
Storia del cristianesimo all’Università
di Bologna che ha studiato a lungo
la questione biblica: “Bea fu forse
il principale artefice del rinnovamento
dell’esegesi cattolica romana. Egli
perseguì instancabilmente questo
rinnovamento, anche se in un modo
estremamente accorto e cauto che
consisteva nell’occupazione di precise
posizioni nelle istituzioni romane
e nella costruzione di una fitta rete di
rapporti personali e mediazioni diplomatiche.
A partire dal 1949, quando
cessò di essere rettore del Pontificio
istituto biblico, Bea cercò di instaurare
un rapporto di collaborazione
e di fiducia con il cardinal Ottaviani,
prefetto del Sant’Uffizio, e con il
cardinal Pizzardo… I suoi numerosi
commenti ai documenti ecclesiastici
sulla Bibbia e gli sviluppi degli studi
biblici sono un capolavoro di diplomazia
che tende a evidenziare, nei
documenti di Pio XII, i passi che costituiscono
effettivamente delle novità,
senza tuttavia sottolinearne la discontinuità
col passato”. Un paziente
lavoro di tessitura che fu prezioso anche
in seguito, quando Giovanni
XXIII lo fece cardinale e presidente
del neonato Segretariato per la promozione
dell’unità dei cristiani, autentica
centrale dell’ecumenismo e
del dialogo con gli ebrei. In quegli anni
di fermento che sfoceranno nel
concilio, Bea non dimenticherà il magistero
illuminato di Pio XII: “Ci sarebbero
da dire tante cose belle che
molti forse non sospettano”. Senza
dubbio la “Divino afflante Spiritu” ha
preparato il terreno alla “Dei Verbum”,
vertice teologico del Vaticano
II, sgombrando il campo da malintese
letture spirituali – cioè astratte – della
Bibbia. Perché la parola di Dio è
incarnata in una storia, quella di un
ebreo fedele fino in fondo al patto tra
Dio e il popolo d’Israele. Promuovere
lo studio storico dell’Antico Testamento,
cioè la radice giudaica della
fede cristiana, e farlo solennemente,
con un’enciclica, mentre gli ideologi
del nazismo sollecitavano i cristiani a
rinnegare la Torah e riconoscere in
Gesù il Signore della razza ariana,
non è stato certo sintomo d’ignavia.
Il Foglio 16 gennaio 2010