DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Figli e bamboccioni d'Europa ecco a che età se ne vanno di casa

Brian, 26 anni, ha mollato tutto quando la "tigre celtica" irlandese ha smesso di fare miracoli. "Ma a Dublino vivevo già da solo - ci tiene a ricordare - anche se questa scelta non aveva fatto piacere ai miei". Ha chiesto e ottenuto una borsa di studio del programma Leonardo, ora da due anni ha anche un lavoro (da tecnico informatico, precario ma ben pagato), vive a Glasgow e intende restarci: "Se torno indietro finirò col tornare anche dalla mamma, è molto più comodo: fino a quando sono rimasto con lei lasciavo che mi facesse anche il letto, ora mi vergogno a ricordarlo".

Solo l'Irlanda, del resto, compete con Italia e Spagna per l'altissima percentuale di giovani tra i 20 e i 30 anni che scelgono di restare in famiglia: 61 per cento, contro il 70% degli italiani e il 72 degli spagnoli, mentre la Francia, col 35%, si colloca in una posizione intermedia, la Gran Bretagna viaggia verso l'autonomia dei figli col 28% e la Svezia straccia tutti col suo irrisorio 18% di bamboccioni attaccati al divano e alle comodità garantite dai genitori.
Così, dopo la sentenza del giudice di Trento che ha condannato un padre a mantenere la figlia trentenne, fuoricorso all'università e ancora senza un lavoro, e mentre il ministro Brunetta invoca una legge che costringa a uscire dal bozzolo familiare fin dai 18 anni, le famiglie italiane si confrontano con una mappa d'Europa che - in questo campo - offre una fotografia ricca di contrasti. A fare la differenza sono i sistemi di welfare (dove non esiste sussidio statale per chi studia e per chi cerca lavoro, restare in casa è spesso una scelta obbligata), le usanze e i modelli familiari, i livelli di istruzione e la durata degli studi, che in Italia è tra le più lunghe e registra come normale o quasi l'arrivo del diploma di laurea tra i 25 e i 30 anni.


Non è un caso se tra i ragazzi d'Europa chi vuole andarsene mette il maggior numero di chilometri possibili tra sé e la casa paterna, e se le storie di questi "coraggiosi" si trovano soprattutto sui blog di chi ha partecipato almeno una volta a programmi come Erasmus o Socrates. E non è un caso neppure se Italia, Spagna e Irlanda presentano cifre così simili, pur partendo da situazioni economiche e da sistemi di welfare piuttosto diversi: il denominatore comune è la religione prevalente, quella cattolica, e un'idea di famiglia che vede ancora il matrimonio come il principale motivo per allontanarsi da casa. "Parlando con gli amici che sono passati da noi - racconta da Parigi Alexandre Heully, 31 anni, amministratore delegato di cafebabel. com, il giornale online nato dagli scambi Erasmus e pubblicato in sei lingue che si propone di parlare ai nuovi europei - ho verificato che molto dipende dalla durata degli studi, che in Francia è assai più breve e in Germania e in Italia molto lunga. I nostri colleghi italiani lasciano i genitori solo, o perlopiù, per andare a vivere con la fidanzata, mentre sia in Francia sia in Inghilterra è normale affittare un piccolo monolocale o coabitare con altri studenti".

Ma le ragioni economiche e sociali prevalgono su quelle culturali secondo Chiara Saraceno, che ha curato con Manuela Olagnero e Paola Torrioni il primo rapporto comparativo tra famiglie, lavoro e reti sociali in Europa: "In Italia, come in Spagna o in Grecia, gran parte del welfare è affidato alle famiglie e gran parte delle famiglie non può semplicemente permettersi di sostenere le spese di un figlio fuori di casa. Altrove, come nel nord Europa, dove le borse di studio vengono assegnate in modo più ampio e con criteri diversi e dove esiste un vero welfare per i giovani, è considerato anomalo che un ragazzo resti in famiglia. Diverso è anche il mercato immobiliare: dove gli affitti sono facili e accessibili, i giovani se ne vanno".

Un'analisi confermata dai dati dell'Isae (l'Istituto di studi e analisi economica) che dimostra come un lavoro, anche precario o a tempo parziale, o comunque un reddito autonomo sia alla base della scelta di lasciare il nido un po' in tutta Europa: se si guarda ai giovani che guadagnano, infatti, la percentuale italiana di chi resta a vivere con i genitori scende dal 70 al 60 per cento, quella svedese precipita al 12%, quella irlandese scende al 57, e così via. Gioca contro, invece, la diffusione della precarietà contrattuale: in Italia e in Spagna i lavori a progetto, interinali e simili si sono diffusi soltanto negli ultimi anni, contribuendo a frustrare ulteriormente l'autonomia di ventenni e trentenni. Per andare a vivere da soli, i giovani inglesi sono disposti a fare debiti e a vivere in affitto, così come i loro coetanei svedesi, francesi e irlandesi, mentre la casa di proprietà o prestata gratuitamente da un parente prevale in Italia e in Spagna.

La crisi economica non aiuta: non solo in Italia la percentuale di ragazzi che restano a casa è salita in pochi anni di 6 punti percentuali, ma i ricercatori dell'Isae ritengono che "il fenomeno sia destinato a durare, penalizzando chi vive nei piccoli centri, chi è iscritto all'università ma non si è ancora laureato, i maschi e in generale i giovani del Sud".

Sara, Kiko, Luza, Leire e Mario sono cinque ragazzi spagnoli tra i 22 e i 26 anni che dividono un appartamento a Parigi: "Se fossimo rimasti a Madrid - raccontano sul loro blog - vivere fuori casa sarebbe stato impossibile. I nostri genitori si sono convinti a darci un aiuto iniziale solo perché sanno che in Francia è meno difficile trovare un lavoro dopo la crisi che ha colpito il nostro paese e che essere di lingua madre spagnola ci avrebbe aiutato". E quanto sia diversa la situazione dei ragazzi italiani, spagnoli e greci rispetto a quella di inglesi e scandinavi lo dicono anche i dati, recentissimi, dell'analisi Istat sulla "transizione allo stato adulto": il matrimonio resta al primo posto (col 43,7 per cento delle risposte) tra le ragioni per le quali è opportuno andarsene, seguito (ma solo col 28%) da "esigenze di autonomia", mentre le "difficoltà economiche" (47,8%) sono tra le buone ragioni per restare solidamente installati nel salotto (e nella cucina) di mamma e papà, seguiti (col 44,8%) dal fatto che "in famiglia si sta bene, si ha ugualmente la propria libertà". Il 23 per cento (un dato inquietante se si pensa che la ricerca comprendeva un'ampia fascia di età, dai 19 ai 39 anni) non se ne va perché "sta ancora studiando". La paura di volare colpisce soprattutto i maschi (che non sono obbligati a contribuire ai lavori domestici e godono di maggiore libertà): il 7,1 dichiara, candidamente, di "non sentirsela" di vivere da solo, mentre lo stesso motivo è citato soltanto dal 4,9 delle coetanee.

E se la ragione di tanta differenza tra il Nord e il Sud d'Europa fosse da ricercare, come sostiene invece un gruppo di studiosi che, all'Università di Lione, si occupa della "sindrome di Peter Pan", nell'infanzia e nei modelli educativi? Forse è proprio così, se è vero che in Norvegia il 70% dei piccoli frequenta un asilo già prima dei 3 anni, e che entro i dodici anni oltre il 60% ha già vissuto fuori casa per almeno una settimana grazie ai campi estivi e ai soggiorni di studio. In Italia, invece, il 56% delle madri, secondo un sondaggio sulle abitudini alimentari, non ritiene necessario insegnare a cucinare né ai maschi né alle femmine: "Sporcano troppo la cucina, preferisco farlo io".

© La Repubblica (18 gennaio 2010