Roma. Giovanni Paolo II discusse con
Ratzinger la possibilità di dimettersi. Se
non fosse stato Papa avrebbe passato il resto
della sua vita a Medjugorje a confessare
i pellegrini. E, nella metà degli anni 90,
era “sconcertato” da una cosa: dall’avanzare
al nord della Lega. Sono queste alcune
delle notizie inedite che il postulatore
della causa di canonizzazione di Giovanni
Paolo II, monsignor Slawomir Oder, ha voluto
dare in un libro scritto assieme al
giornalista di Famiglia Cristiana Saverio
Gaeta e prossimo all’uscita: “Perché è santo”
(Rizzoli). Un libro dato alle stampe con
tempismo – sono passate soltanto poche
settimane dalla firma da parte di Benedetto
XVI del decreto sulle virtù eroiche
di Wojtyla – con lo scopo dichiarato di dire,
attraverso i documenti e le testimonianze
raccolte, chi sia “il vero Giovanni
Paolo II”. Certo, non tutto di quanto è contenuto
nel libro è inedito, ma alcuni passaggi
lo sono e dicono tanto. Soprattutto
mostrano cosa il postulatore della causa di
canonizzazione ritenga valga la pena sottolineare
ai fedeli e alla chiesa.
Partiamo dalla Lega. Secondo Oder,
Wojtyla guardava con preoccupazione alle
spinte secessionistiche che minavano l’unità
del paese. Scrive un testimone diretto
di quei giorni: “Ricordo ancora vivamente
lo sconcerto del Papa nell’estate
del 1996, quando la Lega nord andò alle
fonti del fiume Po. Sentiva questo gesto come
un crimine contro l’unità del paese e
mi chiedeva perché non intervenivano i
carabinieri e il presidente della Repubblica
non facesse nulla”.
Quindi l’ipotesi delle dimissioni. Un’ipotesi
fattasi sempre più presente nella
mente di Wojtyla con l’avanzare dell’età
nel caso si fosse manifestata l’impossibilità
di adempiere al proprio ministero. Fece
studiare il tema dal punto di vista storico
e teologico, consultando l’allora cardinale
Ratzinger, prefetto della congregazione per la Dottrina della fede. Ma alla fine
decise di rimettersi alla volontà di Dio.
Spiega Oder: “Il Papa era ormai prossimo
ai settantacinque anni (che avrebbe compiuto
il 18 maggio 1995), avviò una consultazione
con i responsabili della segreteria
di stato e con i suoi più intimi amici e collaboratori,
discutendo con essi anche dell’eventualità
di applicare a se stesso la
norma del diritto canonico che prevede
per i vescovi di lasciare il proprio incarico
al compimento dei settantacinque anni.
Il peggiorare delle condizioni fisiche lo induceva
a prendere seriamente in considerazione
questa possibilità, per quanto egli
fosse ben consapevole dei problemi che la
presenza di un Papa emerito avrebbe potuto
generare”. Ma il risultato della consultazione
non fece altro che confermare
quanto lui stesso aveva detto nel 1994 al
chirurgo Gianfranco Fineschi che lo aveva
appena operato per la frattura al femore:
“Professore, sia lei che io abbiamo una
sola scelta. Lei mi deve curare. E io devo
guarire. Perché non c’è posto nella chiesa
per un Papa emerito”. Fu così che abbandonò
l’idea delle dimissioni seppure firmò
una lettera (pubblicata per la prima volta
interamente nel libro) nella quale scriveva
di voler seguire le disposizioni e l’esempio
di Paolo VI, il quale, prospettandosi
lo stesso problema, giudicò di non poter
rinunciare al mandato apostolico se
non in presenza di una infermità inguaribile
o di un impedimento tale da ostacolare
l’esercizio delle funzioni.
Infine Medjugorje. Wojtyla non prese
una posizione ufficiale. Ma in privato
espresse più volte il proprio pensiero. A
Murilo Sebastiao Ramos Krieger, arcivescovo
di Florianopolis (Brasile) che stava
andando nella ex Jugoslavia, disse:
“Medjugorje è il centro spirituale del
mondo”. In un breve colloquio confidò alla
veggente Mirjana Dragicevic: “Se non
fossi Papa, sarei già a Medjugorje"
Il Foglio 27 gennaio 2010