Quando Veronica tornò da Napoli, tutte
le navi e gli aliscafi del porto caprese
la festeggiarono a sirene spiegate. Il suo
trapianto di cuore era riuscito, il suo corpo
piccolo e gracile era accolto con gioia
dall’isola delle vacanze. Ma l’allegria durò
poco. Un’altra infezione aggredì Veronica
ai reni, infliggendo a lei mesi e mesi di
dialisi, e nuove sofferenze, spese e fatiche
alla sua famiglia. Le cure non bastavano,
era necessario un nuovo trapianto. Dopo
la seconda tortura, la ragazza perse quasi
del tutto l’udito e il suo carattere (comprensibilmente)
peggiorò, costringendo i
genitori a ulteriori eroismi d’amore paziente.
Tonino, il padre, è autista, prossimo
alla pensione, la madre, Carmelina, coltiva
un orto di Anacapri. In questo feroce
gennaio, la malasorte accanita ha azzannato
Veronica allo stomaco, e l’ha uccisa.
E adesso che cosa faranno, Carmelina e
Tonino? Un cervello freddo potrebbe credere
che questa sciagura li abbia liberati
da un fardello asfissiante di apprensioni e
di pene quotidiane. Ma è più probabile
che siano ancora meno tollerabili lo smarrimento
e il vuoto che sopravvengono dopo
una lunghissima stagione dedicata ad
alleviare le sofferenze della figlia, a sopportare
le sue sacrosante ribellioni, a cercare
dottori capaci di salvarla. Questi sono
giorni in cui si esige che l’umanità intera
si carichi sulle spalle l’immane tragedia di
Haiti, e condivida lo strazio di quella gente
lontana che implora aiuto e che la Tv ci
rinfaccia in ogni casa. Io, come tutti, m’addoloro
profondamente davanti allo spettacolo
buio di Port-au-Prince, invio il mio
obolo, coltivo ragionamenti sociopolitici
perfettamente inutili. Ma la strage di Haiti
è troppo grande. Io volevo bene a Veronica.
E mi preme, mi allarma il lutto di
Carmelina e di Tonino.
Così prego per loro, in chiesa. E’ un
giorno feriale, a messa siamo in quattro:
due preti diversamente esotici, un terzo
migrante che legge le avventure di Davide
e io, che penso a Veronica ma che, a poco
a poco, sento che dovrei vergognarmi. Perché?
Per diversi motivi. Mi domando, innanzitutto,
come mai sono tornato in chiesa,
dopo aver fatto il laico (quasi) militante
per molti decenni, cioè da quando mi
parve di capire che il nuovo corso inaugurato
da Giovanni XXIII eliminasse i tabù e
le orgogliose insofferenze che (secondo
me) identificano ogni religione. Scrisse
Freud che “una religione o è intollerante
o non è”. Io ero d’accordo: non basta – mi
dicevo – essere bravi ragazzi per dirsi cattolici
(anche tanti atei sono onesti, anche
tanti socialdemocratici sono generosi). No,
va bene non disprezzare gli altri e non
maltrattarli, ma dobbiamo testimoniare
che la verità è nostra, e che gli altri sbagliano.
Questo pensavo, e ritenevo che fossero
indispensabili i misteri, le paure, i rimorsi
assurdi, gli inferni con i quali i preti
tormentarono la mia infanzia e la mia
adolescenza. E adesso, perché sono qui?
Per nostalgia, forse. Per ricordare anche
le preghiere della mia campagna che, a un
certo punto, mi sembrarono troppo rustiche:
“Santa Barbara e Santa Elisabetta/
scampateci da ogni fulmine e saetta”. “E
da capo c’era un angelo beato/e tutt’intorno
tutti gli angeli del mondo/E la santa
Margherita/O che Dio ci benedica”. No,
non sono qui per riabilitare i “dominustecu”,
ma per un motivo (forse) peggiore:
perché voglio affermare non soltanto di essere
un cattolico ma, soprattutto, di non essere
un musulmano. Dialogo? Ok, ma noi
siamo un’altra cosa, noi abbiamo ragione
e i (pochi? troppi!) estremisti fanatici sono
miei nemici, sempre. E lo sono, bestialmente,
quando aggrediscono le nostre
città, quando sbranano gli innocenti nei
mercati, quando sgozzano le figlie che vogliono
scegliersi il marito, o (Dionescampi)
andare in discoteca. Gli altri, i “moderati”,
dovrebbero isolare e condannare i delinquenti,
invece di lapidare gli adulteri.
Dovrei vergognarmi, lo so, in questa
chiesa romana di Gesù e Maria. Anche perché
non riesco a condensare emozioni religiose.
Mi distraggo: un prete ha le scarpe
da ginnastica e sbaglia qualche accento;
dall’altare santificano il Dio dell’Universo
ed io preferisco quello antico degli Eserciti
(Sabaoth); il re Davide in fondo era parecchio
perfido; tra dieci minuti chiude il
giornalaio; mannaggia dove ho lasciato
l’ombrello? Povero me, la luce di Damasco
è ancora troppo lontana. Certi studiosi, citati
in un prezioso libretto di Giuliano Scabia,
ipotizzano che l’universo sia nato da un
cosmico Mormorìo. Ma il geniale san Giovanni
l’aveva già scritto: “In principio era
il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo
era Dio”. Il Verbo e il Mormorìo non saranno
mica la stessa Cosa? Ecco, finalmente,
un pensiero abbastanza teologico. Adesso,
però, il sacerdote più esotico invita “tutti
noi”, “fratelli e sorelle” (cioè, il lettore di
Davide e io) ad innalzare i cuori. Avrebbe
detto “sursum corda” nelle mie messe gesuite.
Quindi alzo lo sguardo e la mia attenzione
precipita. Dalle pareti del tempio
sporgono, in pose acrobatiche, i monumenti
di molti defunti illustri, più numerosi dei
presenti alla messa. Io li contemplo e, stoltamente,
annoto che essi sono antenati indiretti
di miei parenti indiretti. Mi pavoneggio
in questa frivola meditazione: vanitas
vanitatum. Me ne pento, mentre ricevo
l’immeritata benedizione. “Buona giornata”,
augura infine il prete ginnico. Grazie
altrettanto. Devo spedire i fiori sull’isola,
per la mia piccola Veronica. Che me ne importa,
di quelle statue vanitose?
Giuliano Zincone