di Beatrice Iacopini e Sabina Moser
Un’idea condivisa: il dolore come «radice della conoscenza», che deve trovare il giusto spazio nell’animo
Capita, talvolta, di rimanere colpiti da eventi e coincidenze che stentiamo a classificare come «casuali», per il carico di significato di cui sono portatori e il ripensamento che sono capaci di provocare in noi. È questa la sensazione che abbiamo avvertito considerando la quasi perfetta contemporaneità tra le vite singolari di Etty Hillesum e Simone Weil, la coincidenza del loro essere giovani donne ebree nell’Europa del nazismo e della II Guerra Mondiale, la scelta di non sottrarsi al destino dei tanti che – a diverso titolo – soffrivano ingiustamente e, soprattutto, la sorprendente vicinanza del loro pensiero, che risalta ancor più se pensiamo a quanto le due erano, invece, differenti e distanti per profilo psicologico e formazione.
In particolare, il 1943 fu per entrambe – a solo un mese di distanza – l’anno di appuntamento con la morte che nessuna delle due, nonostante la giovane età, voleva mancare, ritenendolo l’esito e il compimento di una vita e non, banalmente, la sua cessazione. Vi arrivarono preparatissme, in virtù di ciò che forse le accomuna più di tutto il resto: l’esperienza spirituale, testimoniata sia dalla vita, sia dalla «conoscenza soprannaturale » che traspare dai loro scritti. In effetti, oltre ai numerosi punti di convergenza che troviamo nelle pagine di ambedue, stupisce la saggezza profonda che le percorre, soprattutto se consideriamo l’età giovanissima delle nostre pensatrici.
Così, se Etty ci ricorda che « quel che conta in definitiva è come si porta, sopporta, e risolve il dolore, e se si riesce a mantenere intatto un pezzetto della propria anima», Simone, altrettanto, ci insegna a non eliminare o fuggire la sofferenza, ma a usarla, piuttosto, in modo soprannaturale. E non è certo secondario il fatto che queste parole provengano da chi si è impegnato a viverle in prima persona nel cuore della sventura – la Hillesum a Westerbork, la Weil in fabbrica.
L’opera di smascheramento dell’immaginazione e della fantasticheria come espedienti alienanti che l’io usa per proiettare se stesso sul mondo, stravolgendone il vero volto e fuggendolo, è un elemento educativo molto importante in questo nostro tempo in cui, invece, ad esse si attribuisce un ruolo centrale ( si pensi all’invadenza del mezzo televisivo); lo stesso si dica per il coraggio di guardare in faccia e accogliere come naturale la sofferenza, in tempi in cui la felicità sembra dover coincidere con la spensieratezza e l’assenza di ostacoli, con la fragilità psicologica che ne deriva.
È, invece, idea condivisa da entrambe le autrici che il dolore, la sofferenza, siano «radice della conoscenza » e debbano trovare il giusto spazio nell’animo, senza che siano mescolati ad altri elementi, come la paura, la rabbia, il rancore, che li rendono – quelli sì – davvero negativi: tutte e due raccomandano di non cedere alla tentazione di lasciarsi degradare dall’odio, perché solo in tal modo ci rendiamo ad esso vulnerabili, dal momento che l’umiliazione di chi è vittima è resa possibile dal suo consenso a farsi umiliare. Così, l’atteggiamento comune di accettazione di tutto il reale, lungi dall’esser manifestazione di una debolezza e passività interiore è, invece, il miglior modo di resistere al male, l’unico per debellarlo senza opporvi la forza e la violenza di cui esso stesso si alimenta – il che equivarrebbe a ri-crearlo.
Esiste, infatti, una specie di meccanismo interiore secondo il quale, quanto più siamo condannati a una totale passività dalle circostanze esterne, tanto più siamo costretti a mobilizzare le nostre forze interiori. È il concetto dell’attività passiva, di cui parlano ambedue, che viene pensato dalla Weil come il raggiungimento dello stato di innocenza-purezza al contatto del quale ciò che è male si dissolve, e dalla Hillesum come un fare che consiste nell’ essere.
Proprio questo lavoro su se stessi è ciò che sia la Hillesum, sia la Weil propongono come unica soluzione al male, giacché esso porta all’acquisizione di uno sguardo nuovo con cui leggere ciò che ci circonda e rapportarsi al mondo.
È lo sguardo di chi non vuole imporre che tutto si svolga secondo i propri desideri e la propria volontà – ormai resa passiva – e che, proprio per questo, sa cogliere nella trama pur contraddittoria della vita quell’armonia profonda che costituisce la sua bellezza misteriosa e la sua bontà sostanziale: in virtù di questo nuovo modo di vedere le cose, il « cieco meccanismo », per dirla con Simone, i «molti misteri del mondo», secondo l’espressione di Etty, non sono forzati in un sistema razionale, ma compresi – nel senso di «presi con sé» –, accettati con umiltà.
Indubbiamente, il tono della lettura weiliana è senz’altro più tragico e meno pacificato di quello della Hillesum – indice, questo, che la comune esperienza spirituale e l’altrettanto comune conoscenza sovrannaturale che ne è derivata portano, comunque, il segno personale di chi l’ha vissuta. Ci si accorge che c’è più scioltezza, più immediatezza, più accettazione nei confronti della componente istintiva dell’uomo nella Hillesum e, viceversa, più spigolosità, maggiore complessità di pensiero e una dif- ficoltà più marcata a rapportarsi con l’aspetto fisico-materiale di sé e del mondo nella Weil.
Le pagine che ci hanno lasciato testimoniano anche, del resto, una vocazione diversa a partire dall’uso del linguaggio: poetico-letterario quello di Etty, filosofico-speculativo quello di Simone.
In ogni caso, i testi delle due autrici sono lì a dimostrare la modificazione profonda che l’esperienza mistica ha operato in loro, un’esperienza che non ha assolutamente nulla a che fare con la sfera sentimentale- emotiva e che non coinvolge affatto l’immaginario (visioni, fenomeni straordinari...), ma tocca quella profondità dell’uomo che è divina, dalla quale soltanto egli può attingere il vero sapere che, proprio perché tale, si trasforma in vita.
Forse – e questo le rende così grandi e attuali – la Hillesum e la Weil hanno incarnato quel «nuovo tipo di santità» che consiste nel «mettere a nudo una larga porzione di verità e di bellezza sino ad ora nascosta sotto uno strato di polvere». Esso si manifesta nel radicamento profondo a questa vita e a questa terra, nella gioia di chi ha trovato la sua propria patria, che nessun uomo o circostanza avversa potrà togliergli, perché essa risiede nel profondo di sé, laddove abita Dio, l’armonia e il senso di tutto.
In particolare, il 1943 fu per entrambe – a solo un mese di distanza – l’anno di appuntamento con la morte che nessuna delle due, nonostante la giovane età, voleva mancare, ritenendolo l’esito e il compimento di una vita e non, banalmente, la sua cessazione. Vi arrivarono preparatissme, in virtù di ciò che forse le accomuna più di tutto il resto: l’esperienza spirituale, testimoniata sia dalla vita, sia dalla «conoscenza soprannaturale » che traspare dai loro scritti. In effetti, oltre ai numerosi punti di convergenza che troviamo nelle pagine di ambedue, stupisce la saggezza profonda che le percorre, soprattutto se consideriamo l’età giovanissima delle nostre pensatrici.
Così, se Etty ci ricorda che « quel che conta in definitiva è come si porta, sopporta, e risolve il dolore, e se si riesce a mantenere intatto un pezzetto della propria anima», Simone, altrettanto, ci insegna a non eliminare o fuggire la sofferenza, ma a usarla, piuttosto, in modo soprannaturale. E non è certo secondario il fatto che queste parole provengano da chi si è impegnato a viverle in prima persona nel cuore della sventura – la Hillesum a Westerbork, la Weil in fabbrica.
L’opera di smascheramento dell’immaginazione e della fantasticheria come espedienti alienanti che l’io usa per proiettare se stesso sul mondo, stravolgendone il vero volto e fuggendolo, è un elemento educativo molto importante in questo nostro tempo in cui, invece, ad esse si attribuisce un ruolo centrale ( si pensi all’invadenza del mezzo televisivo); lo stesso si dica per il coraggio di guardare in faccia e accogliere come naturale la sofferenza, in tempi in cui la felicità sembra dover coincidere con la spensieratezza e l’assenza di ostacoli, con la fragilità psicologica che ne deriva.
È, invece, idea condivisa da entrambe le autrici che il dolore, la sofferenza, siano «radice della conoscenza » e debbano trovare il giusto spazio nell’animo, senza che siano mescolati ad altri elementi, come la paura, la rabbia, il rancore, che li rendono – quelli sì – davvero negativi: tutte e due raccomandano di non cedere alla tentazione di lasciarsi degradare dall’odio, perché solo in tal modo ci rendiamo ad esso vulnerabili, dal momento che l’umiliazione di chi è vittima è resa possibile dal suo consenso a farsi umiliare. Così, l’atteggiamento comune di accettazione di tutto il reale, lungi dall’esser manifestazione di una debolezza e passività interiore è, invece, il miglior modo di resistere al male, l’unico per debellarlo senza opporvi la forza e la violenza di cui esso stesso si alimenta – il che equivarrebbe a ri-crearlo.
Esiste, infatti, una specie di meccanismo interiore secondo il quale, quanto più siamo condannati a una totale passività dalle circostanze esterne, tanto più siamo costretti a mobilizzare le nostre forze interiori. È il concetto dell’attività passiva, di cui parlano ambedue, che viene pensato dalla Weil come il raggiungimento dello stato di innocenza-purezza al contatto del quale ciò che è male si dissolve, e dalla Hillesum come un fare che consiste nell’ essere.
Proprio questo lavoro su se stessi è ciò che sia la Hillesum, sia la Weil propongono come unica soluzione al male, giacché esso porta all’acquisizione di uno sguardo nuovo con cui leggere ciò che ci circonda e rapportarsi al mondo.
È lo sguardo di chi non vuole imporre che tutto si svolga secondo i propri desideri e la propria volontà – ormai resa passiva – e che, proprio per questo, sa cogliere nella trama pur contraddittoria della vita quell’armonia profonda che costituisce la sua bellezza misteriosa e la sua bontà sostanziale: in virtù di questo nuovo modo di vedere le cose, il « cieco meccanismo », per dirla con Simone, i «molti misteri del mondo», secondo l’espressione di Etty, non sono forzati in un sistema razionale, ma compresi – nel senso di «presi con sé» –, accettati con umiltà.
Indubbiamente, il tono della lettura weiliana è senz’altro più tragico e meno pacificato di quello della Hillesum – indice, questo, che la comune esperienza spirituale e l’altrettanto comune conoscenza sovrannaturale che ne è derivata portano, comunque, il segno personale di chi l’ha vissuta. Ci si accorge che c’è più scioltezza, più immediatezza, più accettazione nei confronti della componente istintiva dell’uomo nella Hillesum e, viceversa, più spigolosità, maggiore complessità di pensiero e una dif- ficoltà più marcata a rapportarsi con l’aspetto fisico-materiale di sé e del mondo nella Weil.
Le pagine che ci hanno lasciato testimoniano anche, del resto, una vocazione diversa a partire dall’uso del linguaggio: poetico-letterario quello di Etty, filosofico-speculativo quello di Simone.
In ogni caso, i testi delle due autrici sono lì a dimostrare la modificazione profonda che l’esperienza mistica ha operato in loro, un’esperienza che non ha assolutamente nulla a che fare con la sfera sentimentale- emotiva e che non coinvolge affatto l’immaginario (visioni, fenomeni straordinari...), ma tocca quella profondità dell’uomo che è divina, dalla quale soltanto egli può attingere il vero sapere che, proprio perché tale, si trasforma in vita.
Forse – e questo le rende così grandi e attuali – la Hillesum e la Weil hanno incarnato quel «nuovo tipo di santità» che consiste nel «mettere a nudo una larga porzione di verità e di bellezza sino ad ora nascosta sotto uno strato di polvere». Esso si manifesta nel radicamento profondo a questa vita e a questa terra, nella gioia di chi ha trovato la sua propria patria, che nessun uomo o circostanza avversa potrà togliergli, perché essa risiede nel profondo di sé, laddove abita Dio, l’armonia e il senso di tutto.
«Avvenire» del 20 gennaio 2010