DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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Se l'Occidente ha il nemico in casa. La convergenza del totalitarismo comunista e nazista verso l'Islam

Il saggio di Alexandre Del Valle, Verdi Rossi Neri, illustra la convergenza del totalitarismo comunista e nazista verso l'Islam


di Pico Angelico

Nove anni dopo il crollo delle Twin Towers è sempre l'estremismo islamico il maggior pericolo per l'Occidente? La risposta è solo in parte affermativa: nel suo saggio Verdi Rossi Neri. La convergenza degli estremismi antiocidentali: islamismo, comunismo, neonazismo (Lindau, 2009, pp. 486), il politologo francese Alexandre Del Valle – suffragato da ineccepibili dati storici – pone l'accento sul risentimento degli orfani delle defunte ideologie novecentesche verso la civiltà giudaico-cristiana. I post-comunisti e i post-nazisti sono accomunati da una tremenda rabbia verso l'Occidente capitalista che, con tutti i suoi limiti, ha contribuito a diffondere la cultura dei diritti umani e della liberal-democrazia.

Il volume gode dell'introduzione dell'europarlamentare Magdi Cristiano Allam, del quale Del Valle è collaboratore e consigliere.
Storicamente l'intellighenzia marxista, ben prima della caduta del muro di Berlino, ha sempre nutrito grande simpatia verso la religione islamica, che, pur incompatibile con il materialismo e l'ateismo, è vista da molti neogiacobini come un possibile alleato in una comune causa terzomondista. Gli esempi di convergenza rosso-verde sono numerosi: Del Valle cita, tra gli altri, la clamorosa conversione del terrorista venezuelano Ilich Ramirez Sanchez, più noto con il nome di battaglia di Carlos. Il bolivarismo di Hugo Chavez ha un carattere fortemente pragmatico (indipendenza petrolifera dagli USA) eppure si connota per uno spiccatissimo antisemitismo, rispetto al quale il dittatore iraniano Mahmoud Ahmadinejad è il più prevedibile ed inquietante dei complici. Numerosi altri sono i 'cattivi maestri' occidentali citati da Del Valle: tra questi figurano ex leader del '68 come Toni Negri e Daniel Cohn-Bendit, oggi più che mai ringalluzziti dall'assedio sferrato all'Occidente dall'11 settembre 2001 ad oggi.
La convergenza nero-verde affonda le radici nel sodalizio stretto nel 1941 tra Hitler e il Gran Muftì di Gerusalemme. Le attuali frange di estrema destra sparse in tutto il mondo sono accomunate agli estremisti di sinistra dallo sconfinato odio verso gli Stati Uniti ed Israele. Le differenze tra rossi e neri, in tal senso, sono puri dettagli: entrambi sono ossessionati dalla lobby giudaico-plutocratica e sostengono caparbiamente la causa palestinese. Inevitabile, dunque, l'alleanza tattica con gli islamici – meglio se fondamentalisti – contro il Grande Satana occidentale.
Davvero una bella grana per gli Stati Uniti e per l'Europa se si pensa che la maggior parte degli organismi internazionali e delle organizzazioni non governative, ONU in testa, sono decisamente sbilanciati verso la causa terzomondista e filo-musulmana. Emblematiche, in questo senso, le conferenze di Durban (2001) e Ginevra (2009) che, con la complicità del Pakistan e della Cuba castrista, “hanno avuto come unico scopo di stigmatizzare l'Occidente e l'islamofobia, senza preoccuparsi di denunciare le numerose violazioni dei diritti delle donne, dell'uomo e delle minoranze religiose, presenti in terra d'Islam o nel Terzo Mondo”. In tale scenario pesano il risentimento della Russia – ancora impantanata nelle logiche della guerra fredda – e il boom inarrestabile della Cina (potenza nucleare come la vicina ed inquietante Corea del Nord) dove i diritti umani sono notoriamente negati e il comunismo totalitario - fatta salva la diffusione dell'economia di mercato nella sua versione più selvaggia e deteriore – non ha affatto chiuso i battenti. La Cina è alleata con l'Iran, da cui importa il petrolio, e, in cambio, ne sostiene le ambizioni nucleari.
Un quadro, almeno in apparenza, a tinte fosche, quello delineato da Del Valle. Una via di uscita, tuttavia c'è ed è rappresentata dalla prospettiva di un'alleanza panoccidentale. La Russia, presto o tardi, avrà tutto l'interesse ad abbandonare il proprio livore antiamericano. Anch'essa deve fare i conti con il terrorismo islamico – ceceno in particolare - al suo interno. Una distensione e un'integrazione politico-economica con l'Europa Occidentale, potrebbe distogliere la Russia da perniciose connivenze con l'Iran, la Cina, la Corea del Nord e altri 'stati canaglia'. La Cina, dal canto suo, deve vedersela a sua volta con la dissidenza dei musulmani uiguri e, presto o tardi, il suo totalitarismo laicista non potrà che entrare in conflitto con il fondamentalismo religioso. Dinamiche analoghe potrebbero profilarsi per il vetero-comunismo di Chavez e Morales, laddove la stragrande maggioranza della popolazione latino-americana si sente ancora fortemente cristiana e cattolica e nulla vuole avere a che fare con lo strumentale filo-islamismo dei demagoghi bolivariani. Tutti gli scenari fin qui descritti, rivelano dunque il carattere puramente tattico dell'alleanza rosso-verde.
Il vero nemico da sconfiggere, però, secondo Del Valle, è l'assurdo odio di sé che l'Occidente nutre. La costante genuflessione di tanti intellettuali gnostici ed apostati, nei confronti dell'Islam e delle ideologie terzomondiste in generale è la vera piaga da debellare. Estirpare tale cancro è un imperativo urgente, anche perché, come afferma in conclusione l'autore, “l'Occidente ha sempre vinto, perché è suo dovere vincere e perché non avrà altre alternative”.

© Copyright L'Ottimista

Non solo spettatrice: Hitler obbediva a Eva Braun

DI R ICCARDO M ICHELUCCI
A
dolf Hitler ed Eva Braun sono stati marito e moglie soltanto per un giorno, ma neanche la morte è riuscita a separarli. Se le conclusioni di quella che è stata definita «la prima biografia acca­demica » della consorte del Führer si riveleranno e­satte, potrebbero aprire la strada anche a una profon­da ridefinizione della personalità del dittatore nazista. Nel suo volume Eva Braun: Life with Hitler, appena pubblicato dalla prestigiosa casa editrice Beck, la sto­rica berlinese Heike Görtemaker ribalta le tesi di stu­diosi di spicco come Ian Kershaw e Hugh Trevor-Ro­per - che l’avevano definita una figura 'priva di inte­resse' - o come il più famoso biografo di Hitler, Joa­chim Fest, secondo il quale la Braun era solo una don­na stupida e ignorante che pensava al cinema e alla moda quasi senza accorgersi della barbarie che la cir­condava.
Al termine di una ricerca che le è costata tre anni di la­voro e l’ha portata a esaminare lettere, foto e docu­menti in parte inediti, Görtemaker sostiene che il ruo­lo di Eva Braun è stato ampiamente sottovalutato per­ché la donna fu in realtà un elemento chiave del ri­stretto circolo di Hitler e un membro importante del­la macchina della propaganda nazista. Per dimostrarlo, la studiosa ha accantonato le ricorrenti dicerie e gli a­neddoti morbosi sulla coppia per delineare quello che sarebbe stato un rapporto di grande affiatamento e intimità, capace di spiegare lati finora inesplorati del­la psiche del Führer. Una relazione nata nel 1932 - al­cuni anni dopo il loro primo incontro, nel ne­gozio del fotografo Hein­rich Hoffmann - e desti­nata a concludersi tragi­camente con il doppio suicidio nel bunker di Berlino, il 30 aprile 1945. L’equivoco di fondo che avrebbe indotto in erro­re tanti storici illustri sa­rebbe nato dalle famose interviste di Trevor-Ro­per ad Albert Speer. «La figura di Eva Braun delu­derà tutti gli storici, nes­suna donna ha avuto un ruolo significativo nella storia del partito nazi­sta », affermò in quell’oc­casione l’architetto del Führer.
Ma secondo Görtemaker si tratterebbe di afferma­zioni volutamente false che intendevano proteggere le mogli e le donne degli ufficiali del Reich da processi e condanne post-belli­che. Funzionali a questo scopo sarebbero state le stes­se parole di Hitler, quando confessò che «la migliore cosa che un uomo intelligente può fare è scegliere u­na donna stupida e primitiva». Questa nuova biogra­fia dimostra al contrario che la Braun non fu una sem­plice spettatrice di quanto stava accadendo, e che so­prattutto non fu la sfortunata ragazza innamorata del demonio ma una figura più complessa, politicamen­te impegnata e vicina al nazismo, per la quale il Füh­rer nutriva un amore sincero e dalla quale ricevette in cambio un sostegno psicologico concreto. Alcune fo­to inedite analizzate dalla studiosa dimostrerebbero la grande considerazione che Hitler aveva nei suoi confronti: la donna presenziò a molti incontri segreti tra il dittatore e i suoi gerarchi e fu al suo fianco in mo­menti di grande tensione, come quelli che precedet­tero l’accordo con Stalin per la spartizione della Polo­nia. Eva Braun avrebbe avuto un ruolo anche nei pia­ni per trasformare la città austriaca di Linz nella capi­tale culturale del Reich, luogo dove la coppia pensa­va di ritirarsi dopo la fine della guerra.
Inoltre, il testamento fatto redigere da Hitler nel 1939 cita il nome della donna subito dopo quello del par­tito, e stabilisce che questo avrebbe dovuto garantir­le un cospicuo vitalizio con fondi propri. Con l’ap­prossimarsi della fine, il Führer cercò disperatamen­te di metterla in salvo, intimandole di lasciare Berlino per trovare un rifugio sicuro in Baviera, ma ricevette da lei un netto rifiuto.

Un libro della storica berlinese Heike Görtemaker smentisce gli studi di Fest e Trevor Roper: il suo ruolo non fu affatto marginale


© Copyright Avvenire 21 aprile 2010




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Così la cultura progressista ha nascosto i tratti comuni a comunismo e nazismo

Corriere della Sera, 22 marzo 2006

Nella foresta di Katyn, una località situata nei pressi della città di Smolensk, in Russia, nei primi giorni di marzo 1940, la polizia di Stalin massacrò 22.000 tra ufficiali dell’esercito polacco ed altri "nemici di classe"...


«Perdonateci, se potete»: fu con queste parole che nel 1992 il presidente russo Boris Eltsin consegnò alla Polonia i documenti che attestavano la piena responsabilità dell’Unione Sovietica nel massacro di Katyn, cioè nello sterminio di oltre 22 mila prigionieri polacchi avvenuto nel 1940. Si chiudeva così una lunghissima vicenda, intessuta di falsificazioni e opposte verità, che viene ora ricostruita da Victor Zaslavsky in un libro che presenta molti motivi di interesse.

Anzitutto, se l’eccidio di Katyn non fu che uno dei tanti crimini del regime sovietico, è anche vero - come giustamente osserva Zaslavsky - che esso riflette un carattere della dittatura staliniana che è stato a lungo imbarazzante riconoscere, per i vertici dell’Urss ma anche per una parte della cultura occidentale: vale a dire certe affinità che collegavano il regime stesso all’altro grande totalitarismo dell’epoca, quello nazista. Il massacro, infatti, doveva servire ad eliminare una parte cospicua dell’élite polacca (nella vita civile quegli ufficiali erano professionisti, giornalisti, professori universitari) nel quadro di una spartizione della Polonia tra Germania e Urss già prevista dal patto Ribbentrop-Molotov dell’agosto 1939.

Un patto che Stalin considerava non solo un trattato di non aggressione, ma una vera e propria alleanza: nel 1940 il dittatore sovietico giunse a chiedere a Hitler di poter aderire al Patto tripartito che legava Germania, Italia, e Giappone. È appunto una tale complicità con il nazionalsocialismo, precedente il repentino mutamento di fronte provocato dall’attacco tedesco del giugno 1941, che viene richiamata dal massacro di Katyn.

Di particolare interesse è la lunga disputa sulle responsabilità della strage, iniziata fin da quando le truppe germaniche, nell’aprile 1943, informarono il mondo del ritrovamento nella zona di Katyn dei corpi di migliaia di ufficiali polacchi che risultavano fucilati tre anni prima, ciò che incolpava necessariamente i sovietici. Da allora l’Urss si impegnò per accreditare a costo di qualunque manipolazione la versione opposta. Rioccupata che ebbero la zona, i sovietici costituirono una commissione compiacente che spostò in avanti la data di morte delle migliaia di cadaveri, così da collocarla nel periodo dell’occupazione tedesca.

Terminata la guerra, l’Urss cercò, anche se senza successo, di far accreditare la strage come nazista dal tribunale di Norimberga, non arrestandosi di fronte a nulla, neppure all’assassinio di uno dei giudici russi, che appariva restio ad avallare la falsificazione. Tentò anche di intimidire i medici che avevano fatto parte della commissione internazionale costituita nel 1943 dalla Germania e avevano accertato la responsabilità dell’Urss. In Italia, nel 1948, fu il Pci che organizzò su incarico dei sovietici una pesante contestazione di un membro di quella commissione, il professor Vincenzo Palmieri, che venne accusato d’essere stato un «servo dei nazisti».

Tutt’altro che irrilevante fu la disponibilità di Stati Uniti e Gran Bretagna ad accettare la versione sovietica. Finché il conflitto era in corso, appariva inevitabile che gli angloamericani accantonassero la questione di Katyn, «di nessuna importanza pratica» come con cinico realismo dichiarò Winston Churchill.

Ciò che appare sorprendente, semmai, è che gli inglesi abbiano continuato a fingere di non conoscere la verità addirittura fino al 1989. Gli Stati Uniti invece, terminata la guerra, accolsero le conclusioni di una commissione del Congresso di Washington che aveva verificato l’esistenza di prove «definitive e inequivocabili» della responsabilità sovietica nel massacro di Katyn. Gran parte dell’opinione pubblica europea seguì per decenni più la posizione ufficiale inglese che quella americana, sostenendo dunque che la questione della responsabilità rimaneva controversa.

Proprio la disponibilità dell’opinione pubblica occidentale ad accogliere una versione palesemente infondata, scrive Zaslavsky, è stata una delle cause della pervicace ostinazione con cui l’Urss ha continuato anno dopo anno a sostenere il falso. Fino, ed è la parte più incredibile di tutta la vicenda, all’inventore stesso della glasnost (che in russo vuol dire «trasparenza»), Mikhail Gorbaciov.

Se non ci trovassimo di fronte all’occultamento di un crimine, verrebbe da dire che in epoca gorbacioviana la lunga storia delle omissioni e falsificazioni attorno a Katyn assunse perfino aspetti farseschi.

Nel 1987 Gorbaciov accettò la costituzione di una commissione storica polacco-sovietica, continuando però a dichiarare che i documenti originali riguardanti Katyn non si riusciva a trovarli. A quell’epoca il leader sovietico era invece una delle tre persone che ne conoscevano l’esistenza. Nell’ottobre 1990 porse le scuse ufficiali del suo Paese ai polacchi, continuando però a sostenere che i documenti cruciali - il testo del patto tra Stalin e Hitler e l’ordine del marzo 1940 con il quale il Politburo ordinava che si fucilassero 25 mila polacchi senza neppure avanzare contro di loro un capo di imputazione - non si sapeva dove fossero.

Conclusasi ai tempi di Eltsin, la vicenda sembra aver avuto di recente un’appendice che getta una luce non proprio rassicurante sul modo in cui la Russia di oggi guarda al passato, ma dunque anche al proprio ruolo presente e futuro. Apprendiamo infatti dal libro di Zaslavsky che nel 2004 la procura militare della Federazione russa ha deliberato di porre il segreto di Stato su una cospicua parte dei documenti che aveva raccolto sul massacro di Katyn.

Una decisione evidentemente surreale, poiché lo Stato che un tale «segreto» dovrebbe proteggere, l’Urss, da tempo non esiste più. Ma anche una decisione che conferma la tendenza dell’attuale presidente della Russia, Vladimir Putin, a collocare il suo Paese lungo una linea di ideale continuità - in chiave di esaltazione della potenza russa - con tutta la storia precedente, dall’impero zarista all’espansionismo staliniano.

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Victor Zaslavky Pulizia di Classe. Il massacro di Katyn Ed Il Mulino 2006




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Pio XII scelse di agire senza parlare per non essere schiacciato tra nazismo e comunismo

E’morto recentemente lo storico padre
Pierre Blet, autore di svariati studi,
tra cui, in particolare, “Pio XII e la
Seconda guerra mondiale, negli archivi
vaticani” (San Paolo), ricostruzione
minuziosa dell’azione della diplomazia
vaticana. Essendo questo libro una
raccolta immensa di dati e informazioni
che rendono conto della complessità
delle vicende dell’epoca, mi limiterò a
trarne alcuni spunti. Anzitutto Blet
descrive le condizioni di un Papa
schiacciato tra nazismo e comunismo,
tirato per la tonaca a destra e a sinistra,
da tutti i contendenti. Pio XII come Papa
si trovò a dover condannare nazismo e
comunismo, come ideologie, senza però
che la condanna investisse il popolo
tedesco e quello russo in quanto tali;
senza che le sue dichiarazioni
apparissero dettate da disegni politici;
senza che esse potessero venir sfruttate
dalla propaganda dei singoli paesi a
scopi poco nobili; senza che divenissero
un boomerang per coloro che erano già
perseguitati. La terribile difficoltà di
dover agire, vaso di coccio tra vasi di
ferro, è esemplificabile analizzando la
situazione della Polonia. Questo paese, a
maggioranza cattolica, venne invaso dai
tedeschi e dai comunisti, portando
all’internamento nei campi di
concentramento di 3642 sacerdoti, 389
chierici, 341 fratelli conversi, e 1117
suore: se i religiosi fossero un ghenos,
un’etnia, si potrebbe tranquillamente
parlare di genocidio. Come si comportò la
Santa Sede di fronte a tutto ciò?
Esattamente come faceva con lo
sterminio degli ebrei. Il 21 gennaio 1940
Radio vaticana trasmise un servizio in cui
si denunciava “lo stato di terrore, di
abbrutimento e diremmo di barbarie
molto simile a quello che fu imposto alla
Spagna dai comunisti nel 1936”. I nazisti,
continuava lo speaker, “usano gli stessi
mezzi dei sovietici, forse anche peggio”. A
tali dichiarazioni gli Alleati esultarono, i
tedeschi annunciarono “ripercussioni
spiacevoli”. L’effetto delle denunce, per i
polacchi sterminati, fu nullo. La Santa
Sede provò allora a intervenire presso
Ribbentrop, per via diplomatica. Ma le
proteste rimasero nascoste nel segreto
delle cancellerie, senza che i cattolici
polacchi ne sapessero nulla. Fu a questo
punto che molti polacchi alzarono la
voce: i tedeschi ci macellano, uccidono
sacerdoti e suore, e il Papa tace! Le
lamentele diventarono sempre più forti,
ma il Papa veniva raggiunto
contemporaneamente dalle sollecitazioni
a parlare con durezza e dagli inviti alla
prudenza. Le prime provenivano per lo
più da polacchi in esilio, le altre da chi
continuava a vivere in Polonia. Anche
diversi vescovi polacchi spiegarono al
Papa di non aver diffuso le sue lettere di
condanna del nazismo e di solidarietà ai
polacchi, per evitare il peggio:
“Fornirebbero il pretesto per nuove
esecuzioni”. Erano i polacchi i primi a
essere divisi sulle richieste da fare al
Papa, il quale da parte sua cercò di
alternare strategie diplomatiche a prese
di posizione molto chiare, ma sempre
attente e sorvegliate. Il Papa preferiva
alle dichiarazioni le azioni. Sapeva bene,
a differenza di Stalin, di non avere alcuna
divisione al suo servizio. Intanto, nella
Lituania occupata dai russi, il vescovo di
Kaunas aveva scritto a Roma “che l’unico
risultato ottenuto dalla trasmissione di
programmi (da parte di radio vaticana,
ndr) nella sua lingua, diretti contro la
persecuzione bolscevica, era stato quello
di aizzare le autorità sovietiche contro la
chiesa”. In seguito, allo scoppio della
guerra tra Germania e Russia, la Santa
Sede si trovò nuovamente tra due fuochi:
da una parte Mussolini e la Germania,
che chiedevano al Papa di sponsorizzare
una “crociata” contro i comunisti,
dall’altra Roosevelt che incalzava il Papa
a sostenere pubblicamente l’alleanza
degli Usa con la Russia bolscevica. La
Santa Sede rispose che “l’attitudine della
S. Sede verso il bolscevismo non ha
bisogno di essere nuovamente spiegata”,
avendo la chiesa già parlato chiaro
“tempore non suspecto”. D’altro canto
sono nazisti e fascisti che devono
giustificare i loro dietro front: “Chi fino a
ieri ha dichiarato che l’alleanza con la
Russia era garanzia di pace all’Est e oggi
fa la crociata, è evidente che debba
spiegare il suo mutamento di attitudine”.
Non così la chiesa, che non ha mai
nascosto la sua avversione al comunismo,
ma che sa bene come anche “il nazismo
ha fatto e sta facendo una vera e propria
persecuzione alla chiesa”. Al massimo,
nello scontro tra nazisti e comunisti,
affermava mons. Tardini, la chiesa può
applicare il proverbio “un diavolo caccia
l’altro”. La conseguenza fu l’attacco della
stampa fascista a Pio XII, che non aveva
voluto rinnovare le condanne al
comunismo per evitare una lettura
politica di tale gesto. Con uguale faziosità,
più tardi la propaganda comunista
avrebbe detto che Pio XII aveva preferito
i nazisti ai comunisti. Quanto alle
rassicurazioni di Roosevelt, che lodava
una presunta libertà religiosa in Russia,
Tardini rispondeva: “Il Presidente
afferma che la Germania è più pericolosa
della Russia. Se tutto si limitasse al
campo politico e militare, la tesi sarebbe
esatta. Ma se si scende al piano religioso
sono ugualmente falsi e perniciosi il
nazismo e il comunismo, tutt’e due
materialisti, tutt’e due antireligiosi, tutt’e
due distruttori dei più elementari diritti
della persona umana, tutt’e due avversari
implacabili della Santa Sede”.

Francesco Agnoli

Il Foglio 21 gennaio 2010

Quando la mezzaluna abbracciò la svastica. di Andrea Tornielli

I rapporti del nazismo con il mondo arabo sono poco conosciuti, così come è poco conosciuta l’influenza che l’ideologia hitleriana ebbe in alcuni partiti e organizzazioni politiche che lottarono per l’indipendenza dei paesi arabi dal dominio coloniale. Un’influenza i cui echi si fanno ancora sentire «in alcuni settori del mondo arabo», mentre «alcuni importanti leader sia religiosi sia politici dell’islam fondamentalista se ne fanno tuttora propagatori». Lo sostiene lo storico de La Civiltà Cattolica, il gesuita Giovanni Sale, in una ricerca che sarà pubblicata in un volume edito Jaka Book e che Il Giornale oggi anticipa.

Sale ricorda che inizialmente, la «soluzione» scelta dalla Germania hitleriana per allontanare gli ebrei dal suolo tedesco, fu quella di facilitarne in tutti i modi l’emigrazione. In particolare in Palestina, dove, credevano i tedeschi, essi sarebbero stati «liquidati» dagli arabi. L’atteggiamento tedesco mutò poco dopo, quando a Berlino si resero conto che l’immigrazione ebraica in Palestina avrebbe favorito la nascita di uno Stato ebraico. È in questo momento, spiega lo storico, che il governo di Berlino ordina a tutte le sedi diplomatiche tedesche in Medio Oriente di tenere «un atteggiamento più comprensivo verso le aspirazioni del nazionalismo arabo».

Dopo l’invasione tedesca della Cecoslovacchia nel marzo 1938, l’indirizzo filoarabo assunto dal governo del Reich per contrastare le ragioni del sionismo internazionale, viene espresso dalla propaganda nazista in modo più diretto. In questo periodo viene anche attivata dal governo tedesco una trasmissione radio di propaganda nazista in lingua araba, che avrà «ascoltatori entusiasti in tutto il Medio Oriente». E gli intellettuali arabi, in quel periodo, scrive padre Sale, «consideravano più vicine alla loro cultura e sensibilità le ragioni ideologiche del nazionalismo tedesco, definito in base alla lingua, alla cultura e alla stirpe di un popolo e di una nazione; insomma tra pangermanismo e panarabismo vi erano diversi punti di contatto».

Alcuni arabi tedeschi cercheranno, ma invano, di persuadere i capi nazisti a modificare la clausola razziale nello statuto del partito, restringendola ai soli ebrei. Le autorità tedesche tenteranno però in tutti i modi di correggere il tiro circa il «semitismo» delle popolazioni arabe, sostenendo che non era vero che gli arabi fossero «semiti puri» come gli ebrei, ma che, al contrario di questi, essi furono in buona parte arianizzati. «L’ideologia nazista – scrive lo storico gesuita – attraverso la sua martellante propaganda antiebraica e antidemocratica, non soltanto raggiunse la maggior parte delle popolazioni arabe, ma influì anche sulle sue élite intellettuali; in diversi Paesi furono fondati addirittura partiti politici di matrice nazista, che ebbero poco seguito a livello popolare, ma che esercitarono un forte influsso politico anche negli anni successivi alla guerra. Ricordiamo il Partito Nazionalsocialista Siriano, che esercitò una grande forza di attrazione sulla gioventù siriana e libanese di quegli anni, e il Partito Giovane Egitto, le cosiddette “camicie verdi”, formato da una gerarchia paramilitare sul modello delle SA e delle SS. Esso si distinse per un acceso antisemitismo e per l’adesione all’ideologia nazista».

All’inizio degli anni Quaranta, il Gran Muftì di Gerusalemme Al Husayni, capo del supremo comitato della Palestina araba, per promuovere le ragioni dell’indipendenza dei Paesi arabi, organizzò una «missione» a Berlino per prendere contatti con i capi militari nazisti. Affermò di essere a capo di un’organizzazione nazionalista araba segreta con diramazioni in diversi Stati che, disse, erano disposti a unirsi alle forze dell’Asse nella guerra contro l’Inghilterra, «alla sola condizione che tali forze riconoscano il principio di unità, l’indipendenza e la sovranità di uno Stato arabo a carattere fascista, comprendente l’Irak, la Siria, la Palestina e la Transgiordania».

Il sentimento filo-tedesco e le simpatie verso il nazismo, furono così forti, «in questi Paesi, in particolare in Egitto e Siria – osserva Sale – che esso non svanì neppure dopo la sconfitta e la completa distruzione del Terzo Reich. Le simpatie verso il nazismo e verso Hitler, addirittura, non solo non venivano nascoste, ma venivano pubblicamente manifestate e questo fino agli anni Sessanta del secolo scorso».

Lo storico ricorda uno scritto del 1953 di Anwar Sadat, futuro presidente della repubblica egiziana, il quale scrisse in un giornale del Cairo, riferendosi idealmente a un Hitler che si credeva ancora vivo e nascosto da qualche parte: «Mi congratulo con voi con tutto il cuore perché, sebbene sembri che siate stato sconfitto, il vero vincitore siete voi. Siete riuscito a seminare la discordia tra il vecchio Churchill e i suoi alleati da una parte, e il loro alleato il diavolo, dall’altra. La Germania è vittoriosa perché è necessario, per l’equilibrio nel mondo, che essa sia di nuovo creata, qualsiasi cosa possano pensare l’Occidente o l’Oriente. Non ci sarà pace fino a quando la Germania non sarà riportata a quello che è stata».

Così, mentre in Occidente, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, il nazismo veniva identificato con il «male assoluto», nel mondo arabo, scrive padre Sale, «esso continuava a raccogliere l’entusiasta simpatia di molti».

In larghi settori del mondo arabo, in particolare quelli legati al fondamentalismo islamico, il ricordo di Hitler rimane dunque ancora vivo e le sue opere vengono ancora tradotte e divulgate. Alcuni fatti recenti, inoltre, dimostrano chiaramente, secondo lo storico gesuita, «che una certa mentalità, diremmo filonazista e antisemita, è condivisa anche da alcuni leader politici e religiosi del mondo islamico». Come attestano le dichiarazioni antisemite e riduzioniste sulla Shoah più volte espresse dal presidente iraniano Ahmadinejad, o come, conclude Sale, «le farneticanti dichiarazioni di alcuni capi religiosi islamici, che ritengono che l’Europa, anziché aborrire il nazismo, dovrebbe lodarlo per il fatto di aver allontanato il pericolo ebraico dal vecchio continente».

Hillesum & Weil giovani donne ebree nell’Europa del nazismo, morte nel ’43. Assetate di soprannaturale in un incandescente confronto con il male

di Beatrice Iacopini e Sabina Moser
Un’idea condivisa: il dolore come «radice della conoscenza», che deve trovare il giusto spazio nell’animo
Capita, talvolta, di rimanere colpiti da eventi e coinci­denze che stentiamo a clas­sificare come «casuali», per il cari­co di significato di cui sono porta­tori e il ripensamento che sono ca­paci di provocare in noi. È questa la sensazione che abbiamo avver­tito considerando la quasi perfet­ta contemporaneità tra le vite sin­golari di Etty Hillesum e Simone Weil, la coincidenza del loro esse­re giovani donne ebree nell’Euro­pa del nazismo e della II Guerra Mondiale, la scelta di non sottrar­si al destino dei tanti che – a diver­so titolo – soffrivano ingiustamen­te e, soprattutto, la sorprendente vicinanza del loro pensiero, che risal­ta ancor più se pen­siamo a quanto le due erano, invece, differenti e distanti per profilo psicolo­gico e formazione.
In particolare, il 1943 fu per en­trambe – a solo un mese di distanza – l’anno di appuntamento con la morte che nessuna delle due, no­nostante la giovane età, voleva mancare, ritenendolo l’esito e il compimento di una vita e non, ba­nalmente, la sua cessazione. Vi ar­rivarono preparatissme, in virtù di ciò che forse le accomuna più di tutto il resto: l’esperienza spiritua­le, testimoniata sia dalla vita, sia dalla «conoscenza soprannatura­le » che traspare dai loro scritti. In effetti, oltre ai numerosi punti di convergenza che troviamo nelle pagine di ambedue, stupisce la saggezza profonda che le percorre, soprattutto se consideriamo l’età giovanissima delle nostre pensa­trici.
Così, se Etty ci ricorda che « quel che conta in definitiva è come si porta, sopporta, e risolve il dolore, e se si riesce a mantenere intatto un pezzetto della propria anima», Simone, altrettanto, ci insegna a non eliminare o fuggire la soffe­renza, ma a usarla, piuttosto, in modo soprannaturale. E non è cer­to secondario il fatto che queste parole provengano da chi si è im­pegnato a viverle in prima perso­na nel cuore della sventura – la Hil­lesum a Westerbork, la Weil in fab­brica.
L’opera di smascheramento del­l’immaginazione e della fantasti­cheria come espedienti alienanti che l’io usa per proiettare se stes­so sul mondo, stravolgendone il ve­ro volto e fuggendolo, è un ele­mento educativo molto importan­te in questo nostro tempo in cui, invece, ad esse si attribuisce un ruolo centrale ( si pensi all’inva­denza del mezzo televisivo); lo stes­so si dica per il co­raggio di guardare in faccia e accoglie­re come naturale la sofferenza, in tem­pi in cui la felicità sembra dover coin­cidere con la spen­sieratezza e l’as­senza di ostacoli, con la fragilità psicologica che ne deriva.
È, invece, idea condivisa da en­trambe le autrici che il dolore, la sofferenza, siano «radice della co­noscenza » e debbano trovare il giu­sto spazio nell’animo, senza che siano mescolati ad altri elementi, come la paura, la rabbia, il ranco­re, che li rendono – quelli sì – dav­vero negativi: tutte e due racco­mandano di non cedere alla tenta­zione di lasciarsi degradare dall’o­dio, perché solo in tal modo ci ren­diamo ad esso vulnerabili, dal mo­mento che l’umiliazione di chi è vittima è resa possibile dal suo con­senso a farsi umiliare. Così, l’at­teggiamento comune di accetta­zione di tutto il reale, lungi dall’es­ser manifestazione di una debo­lezza e passività interiore è, inve­ce, il miglior modo di resistere al male, l’unico per debellarlo senza opporvi la forza e la violenza di cui esso stesso si alimenta – il che equivarrebbe a ri-crearlo.
Esiste, infatti, una specie di mec­canismo interiore secondo il qua­le, quanto più siamo condannati a una totale passività dalle circo­stanze esterne, tanto più siamo co­stretti a mobilizzare le nostre for­ze interiori. È il concetto dell’atti­vità passiva, di cui parlano ambe­due, che viene pensato dalla Weil come il raggiungimento dello sta­to di innocenza-purezza al contat­to del quale ciò che è male si dis­solve, e dalla Hillesum come un fa­re che consiste nell’ essere.
Proprio questo lavoro su se stessi è ciò che sia la Hillesum, sia la Weil propongono come unica soluzio­ne al male, giacché esso porta al­l’acquisizione di uno sguardo nuovo con cui leggere ciò che ci circonda e rapportarsi al mondo.
È lo sguardo di chi non vuole im­porre che tutto si svolga secondo i propri desideri e la propria vo­lontà – ormai resa passiva – e che, proprio per questo, sa cogliere nel­la trama pur contraddittoria della vita quell’armonia profonda che costituisce la sua bellezza miste­riosa e la sua bontà sostanziale: in virtù di questo nuovo modo di ve­dere le cose, il « cieco meccani­smo », per dirla con Simone, i «mol­ti misteri del mondo», secondo l’e­spressione di Etty, non sono forza­ti in un sistema razionale, ma com­presi – nel senso di «presi con sé» –, accettati con umiltà.
Indubbiamente, il tono della let­tura weiliana è senz’altro più tra­gico e meno pacificato di quello della Hillesum – indice, questo, che la comune esperienza spirituale e l’altrettanto comune conoscenza sovrannaturale che ne è derivata portano, comunque, il segno per­sonale di chi l’ha vissuta. Ci si ac­corge che c’è più scioltezza, più im­mediatezza, più accettazione nei confronti della componente istin­tiva dell’uomo nella Hillesum e, vi­ceversa, più spigolosità, maggiore complessità di pensiero e una dif- ficoltà più marcata a rapportarsi con l’aspetto fisico-materiale di sé e del mondo nella Weil.
Le pagine che ci hanno lasciato te­stimoniano anche, del resto, una vocazione diversa a partire dall’u­so del linguaggio: poetico-lettera­rio quello di Etty, filosofico-specu­lativo quello di Simone.
In ogni caso, i testi delle due autri­ci sono lì a dimostrare la modifi­cazione profonda che l’esperienza mistica ha operato in loro, un’e­sperienza che non ha assoluta­mente nulla a che fare con la sfera sentimentale- emotiva e che non coinvolge affatto l’immaginario (visioni, fenomeni straordinari...), ma tocca quella profondità del­l’uomo che è divina, dalla quale soltanto egli può attingere il vero sapere che, proprio perché tale, si trasforma in vita.
Forse – e questo le rende così gran­di e attuali – la Hillesum e la Weil hanno incarnato quel «nuovo tipo di santità» che consiste nel «met­tere a nudo una larga porzione di verità e di bellezza sino ad ora na­scosta sotto uno strato di polvere». Esso si manifesta nel radicamento profondo a questa vita e a questa terra, nella gioia di chi ha trovato la sua propria patria, che nessun uomo o circostanza avversa potrà togliergli, perché essa risiede nel profondo di sé, laddove abita Dio, l’armonia e il senso di tutto.
«Avvenire» del 20 gennaio 2010

La Croce contro la Svastica: il conflitto fra Terzo Reich e Vaticano

sabato 19 dicembre 2009

È di recente uscita il volume storico di Luciano Garibaldi «O la Croce o la Svastica. La vera storia dei rapporti tra la Chiesa e il nazismo». Si tratta dell’avvincente racconto, nel consueto stile del giornalista e storico, di un conflitto ideologico-politico durato dodici anni, tanti quanti ne trascorsero dalla presa del potere da parte di Hitler in Germania, per giungere alla fine della seconda guerra mondiale. Un conflitto del quale si sa poco, troppo spesso equivocato da false o incomplete ricostruzioni storiche, alle quali l’autore si è riproposto di porre fine.

Luciano Garibaldi, quali furono veramente i rapporti tra la Chiesa di Roma e il Terzo Reich?

Vengo subito al cuore del problema. Il primo febbraio 1933 Hitler prese il potere e s’impegnò a “proteggere fermamente il cristianesimo”. Ma ben presto rivelò le sue vere intenzioni. Una serie di soprusi e violenze ai danni della Chiesa cattolica spinse Pio XI a promulgare l’enciclica “Mit brennender Sorge”. L’assassinio del presidente dell’Azione Cattolica di Berlino, che si era dimostrato solidale con gli ebrei ed aveva pregato con loro, segnò l’inizio di un’autentica persecuzione: soppressione delle scuole cattoliche, chiusura della stampa confessionale, arresto dei suoi direttori, ondata di processi-farsa contro il clero. In Austria, dopo l’Anschluss, ovvero l’annessione al Terzo Reich, si giunse al saccheggio e all’incendio delle scuole cattoliche e del palazzo arcivescovile di Vienna.

Chi furono i prelati più attivi contro il regime nazista?

Un ruolo fondamentale fu svolto dal futuro Beato Clemens von Galen, vescovo di Muenster. Fu lui, assieme al vescovo di Berlino Konrad von Preysing, suo cugino primo, a schierare la Chiesa cattolica tedesca contro il nazismo e a dar vita ad una lotta senza quartiere contro Alfred Rosenberg e il suo “Mito del XX secolo”, il razzismo.

Quale fu il ruolo di Eugenio Pacelli, il futuro papa Pio XII, allora segretario di Stato, in quelle circostanze?

Furono ben settanta - anche se pochi lo sanno - le note di protesta del segretario di Stato Eugenio Pacelli al governo di Hitler. Conseguenza delle sue iniziative fu la esplicita accusa contro Pacelli, appena asceso al soglio pontificio, contenute nei rapporti segreti di Reinhard Heydrich, il promotore della “soluzione finale”, ai Gauleiter, i capi delle province tedesche: «è schierato a favore degli ebrei, è nemico mortale della Germania ed è complice delle potenze occidentali». Del resto, parole inequivocabili di condanna del nazismo sono contenute nei due radiomessaggi pronunciati dal Pontefice in occasione del Natale del 1941 e del Natale 1942. Ma già nel 1939, allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, con l’enciclica “Summi Pontificatus”, si era schierato apertamente in difesa degli ebrei. E quando era ancora segretario di Stato, aveva pubblicato alcuni articoli dedicati al nazismo su “L’Osservatore Romano”, in uno dei quali aveva scritto che il partito di Hitler non è “socialismo nazionale”, ma “terrorismo nazionale”.

Qualche episodio specifico e poco conosciuto?

In Germania, la lotta al nazismo partì dal pulpito di una chiesa di Colonia, allorché un famoso gesuita, padre Josef Spieker, esclamò: «La Germania ha un solo Führer, ed è Cristo!». Fu il primo religioso cattolico a finire in campo di concentramento. Riuscirà a salvarsi e a scrivere le sue memorie. Non così quattromila suoi confratelli, che nei Lager nazisti immoleranno le loro vite. Tale fu, infatti, il contributo di sangue che sacerdoti, suore e religiosi tedeschi dovettero pagare alla svastica.

È vero che Hitler ordinò di fare prigioniero il Papa e rinchiuderlo in una fortezza del Lieschtenstein, sull’esempio di quanto, un secolo e mezzo prima, aveva fatto Napoleone Buonaparte con Pio VI e Pio VII?

Sì, ed è un evento storico che ho accertato e raccontato io, per la prima volta, molti anni fa. Fu dopo la disfatta di Stalingrado che Hitler impartì al generale delle SS Karl Wolff l’ordine di predisporre l’arresto del Papa e il suo trasferimento nel Liechtenstein. «Il Vaticano», queste le sue parole, «è un covo di cospiratori contro l'Asse. Bisogna occuparlo, arrestare Pio XII e i suoi cardinali e sottoporli alla nostra autorità». Wolff prese tempo e tergiversò, finché il Führer si decise a rinunciare al progetto. Il generale lo aveva convinto del fatto che, dopo l’occupazione di Roma da parte dei tedeschi e lo stretto controllo esercitato sul Vaticano, non era più necessario eseguire il rapimento. Ma Wolff, che, dietro le pressanti richieste di molti cardinali, aveva fatto sospendere l’esecuzione di parecchie condanne a morte (il che gli varrà il proscioglimento a Norimberga), aveva un piano preciso: lanciare un ponte verso gli angloamericani. E il Papa fece da intermediario, agevolando la resa di un milione di uomini nelle mani degli Alleati.

Nel suo libro c’è anche un capitolo dedicato ai preti filonazisti

Effettivamente, all’interno della Chiesa non mancarono punte di filonazismo. Un caso clamoroso fu quello di monsignor Alois Hudal, rettore del Collegio di Santa Maria dell’Anima di Roma, chiamato “il vescovo bruno”. Di antisemitismo fu accusato anche monsignor Jozef Tiso, divenuto presidente della Repubblica Slovacca dopo la conquista della Cecoslovacchia da parte della Wehrmacht e la divisione del Paese in due tronconi. Ma Hudal non ottenne mai il credito che si attendeva dalla Santa Sede, mentre Tiso fu declassato per ordine di Pio XII. Nel campo protestante, Ludwig Müller, autoproclamatosi Reichsbischof, “vescovo del Reich”, aveva dato vita alla Chiesa dei Deutsche Christen, il cui statuto contemplava l'Arierparagraph, il “paragrafo ariano” che prometteva guerra incondizionata agli ebrei. Punte di antisemitismo non si ebbero invece mai nei ranghi dei cattolici schierati con Hitler.

Ha anche dedicato un capitolo alle donne cattoliche tedesche che si opposero al nazismo

In effetti, nella storia delle iniziative poste in atto dal mondo cattolico per attenuare le conseguenze della persecuzione antiebraica giganteggiano alcune figure femminili. Tra esse, Margarethe Sommer, animatrice della “Hilfswerk Berlin”, l’opera di soccorso agli ebrei fondata da monsignor Lichtenberg e sostenuta dal vescovo di Berlino, e Gertrud Luckner, infaticabile dirigente della Caritas e organizzatrice, a Friburgo, di un centro per favorire l’emigrazione clandestina degli ebrei verso la Svizzera. Egualmente luminose le storie di madre Matylda Getter, la suora polacca che salvò migliaia di ebrei, e della ungherese Margit Slachta, fattasi suora dopo essere stata, nel 1920, la prima donna eletta nel Parlamento di Budapest. Senza dimenticare Germaine Ribière, che a Parigi diede vita all’organizzazione “Amitié Chrétienne”.

Da chi, come lei, ha scritto un libro come «Operazione Walkiria», non ci si poteva non attendere un approfondimento sul ruolo avuto dalla Chiesa cattolica nell’attentato a Hitler del 20 luglio. Quali le novità in proposito?

In merito al complotto del 20 luglio, un dubbio non è mai stato risolto: è vero che il colonnello Von Stauffenberg, fervente cattolico e amico del vescovo di Berlino, prima di compiere l’attentato, andò da lui a confessarsi, ottenne l’assoluzione e si comunicò? Nelle mie pagine, ho cercato di chiarire l’enigma che da allora intriga gli storici e il popolo cristiano. E che va collegato con la durissima repressione che, dopo il fallito Putsch, colpì non solo gli ambienti militari, ma anche il mondo cattolico, con centinaia di sacerdoti e religiosi arrestati, impiccati o mandati a morire nei Lager.

Perché ancora in molti si ostinano a considerare Pio XII un Papa antisemita e filonazista?

Le calunnie hanno le gambe lunghe. Gli storici schierati a sinistra che - per vendicarsi dell’anticomunismo di Pio XII - sparsero fango sulla sua memoria, sono però positivamente contrastati da moltissimi ebrei, anche famosi, che si sono schierati in sua difesa: Albert Einstein, Golda Meir, Martin Gilbert, Michael Tagliacozzo, Gary Krupp, Elio Toaff, William Zuckermann. Nomi di altissimo prestigio che prima o poi, ne sono certo, riusciranno a convincere i loro correligionari facendo trionfare la verità.


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